Pitture infamanti di Giuseppe Nava (Capitolo II) ⥀ Passaggi
La rubrica Passaggi, dedicata alle pratiche della brevità nella prosa letteraria, presenta oggi il secondo capitolo delle prose biografiche di Giuseppe Nava, Pitture infamanti. Il primo capitolo delle prose può essere letto qui, l’editoriale della rubrica qui
Illustrazione in copertina di Silvia Mengoni, Seduta stante, 2021.
Ignaz Semmelweis
Dichiarazione del paziente: «Bastardi, sporchi bastardi. Carogne, voi venite dalle carogne. Ci infilate dentro le mani e poi le date da leccare ai cani, alle vostre donne, diteggiate le vostre donne con le dita di morte fino alla morte. Schiaffeggiate i figli con quelle mani, le ficcate nel vassoio delle paste alla festa, vi leccate le dita per girare la pagina e vi ci avvelenate. A nulla vale alzare il volume delle mie ragioni, tutto finisce per confondersi con l’indistinto brucare dei batteri nei corpi in disfacimento. Mi schifate, mi deridete in coro, e intanto muoiono le madri con i figli, le farfalle si posano ovunque e domani non ci saranno più. Non esiste nulla di abbastanza puro e pulito, e allora rotolo, rotolo, giù nella palude del voodoo, avvolto nel lenzuolo in cui sono morto. Da qui vi maledico, lingue biforcute, maschere di giano, consapevoli o meno portate la morte nelle mani. Ci sarà magia potente a sufficienza? Sputo di ragno, fiato di rana, ci dev’essere la formula che schiude le porte alla ragione. Pezzi di vestiti, capelli, candele; suonate i tamburi; seppellite vive le bestie. Impastiamo le uova e la terra e il sangue. Che s’illuminino le vostre menti di pazzi, pazzi fottuti, o ci fottiamo tutti con le vostre mani. Travay, travay! Komence! Komence!»
Bertrand Cantat
Nasce a Pau nel 1964. All’inizio del 21° sec., espone la sua prima teoria sul silenzio. Prova a non muoversi, spegne la radio, la luce, il pc, prova persino a non respirare. Con il fischio nelle orecchie teorizza l’inesistenza del silenzio. Dopo qualche anno, franati i suoi detriti nel Baltico, sbattuto sulle spiagge del nord col relitto di lei, di sua madre, suo fratello, il suo prezioso figlio addormentato nell’altra stanza – perfeziona la teoria precedente: anche dopo che lei non si è più svegliata, e le sirene hanno taciuto, e le porte di ferro sono state chiuse, non si verifica alcun momento anecoico. Sull’onda longitudinale, anche se solo, al buio, si susseguono colpi sordi, tonfi, come battuti su carne. A cadenze irregolari, sincopi in un tempo dispari. Scopre quindi l’eco, il loop, la spirale che si chiude in cerchio a disegnare il volto di lei, in strati ostinati, a volumi diversi, filtrati, riverberati sugli ematomi, finché non distingue più nulla. White noise. Statica infinita. La notte a letto prima di addormentarsi, nella stanza più chiusa della casa più isolata, è facile sentirlo dire: «Lo senti? Lo senti anche tu?».
Guglielmo Piazza
La presente dichiarazione spontanea viene messa agli atti, forse: «Un nome. Un nome qualsiasi. Avevano bisogno di nomi, per allungare quella catena di colpe che cominciava con me. Il nome. Qualcuno aveva fatto il mio, ed io, per continuare il gioco, dovevo farne un altro, che a sua volta ne avrebbe chiamato un altro ancora, e via così, finché se ne ha voglia, finché ce n’è. La realtà è che non avevo nessun nome da fare, ma il dolore, il dolore fisico, non si riesce mai a immaginare fino a quando non lo si prova. Volevano un nome; e quando hanno iniziato a tirare la corda, un nome gli ho dato. Un altro che non c’entrava niente, il primo che mi è venuto in mente – perché andavo da lui ogni tanto, sapevo che faceva robe coi solventi, e allora ho detto il suo nome. La storia poi è nata da sé, il dolore mi sparava stilettate nella testa, ad ogni colpo un nuovo dettaglio e così gliel’ho raccontata, ma vi prego non fatemi più del male. Sono andati a prenderlo, lo hanno interrogato, gli hanno perquisito la casa. E il disgraziato, non aveva mica in giardino un qualche pacchetto che pareva fatto apposta per loro? E via, appeso pure lui. Avrebbero dovuto provare ad appenderci insieme, sai che bel dondolìo, quante belle storie avremmo inventato. Sai quanti nomi. Tutti gli amici e i parenti, poi i conoscenti, quelli solo di vista (ma tanto basta), poi ci saremmo fatti dare l’elenco telefonico e li avremmo nominati tutti, prima di passare ai santi. Invece l’ho visto solo quando mi hanno chiesto, davanti a lui: “Confermi?” Non è mai uscito nessun eroe da quelle vie fetenti, dai cortili stretti e scuri incoronati di ringhiere, non ne uscirà mai. Certo che confermo. La corda non ha occhi ma mi vede. Non voglio più soffrire così, non voglio, fa troppo, troppo male… Ci siamo incontrati l’ultima volta sulla ruota, con tutte le ossa spezzate, una mano tagliata a ciascuno, due bei fuochi pronti sulla piazza. Mi pare di averlo sentito, prima di morire, maledire il mio nome».
Denise Dior
Nata a ? nel ?, vive? a ?. Fin dalla giovane età sa che la reputazione è tutto. Che bisogna farsi un nome. Farsi stimare, confermare le attese. Bisogna essere seri e controllati, fare attenzione, non pisciare fuori dal vaso ma scegliere sempre l’opzione migliore. Specializzarsi in un settore e diventarne esperti. Niente passi falsi, non esporsi troppo ai rischi, prendersi solo quelli che valgono la pena. Così passa la vita a far le seghe ai cani e poi quando pensa di fare finalmente il botto, arriva una stronza che solo a pompini si prende tutta la gloria. Con due lire di compenso, decide di abbandonare il mondo dell’arte. Nessuno si ricorda di lei, mentre la leggenda cresce e si arricchisce di dettagli, mentre il suo nome svanisce dai titoli di testa. Le anonime come lei diventano poi tutte tossiche, malate, finiscono in giri loschi e spariscono nel nulla. Hanno detto di lei: «Quella è la faccia di una persona malata». Uscita dai soliti giri, staccato il telefono, abbandonata la città, non si sa dove si trovi, cosa faccia. Alla giustizia ha preferito l’oblio, forse involontariamente. Le piace pensare di essere al sud, più lontano, ovunque, dove nessuno possa andare a googlare il suo nome.
Dimitri Polyakov
Nasce in Unione Sovietica, vi muore anni dopo e viene sepolto in una tomba senza nome. Non gli importa. Non si aspetta certo un monumento. Ha mentito per tutta la vita, per quei due soldi da mettere sugli occhi di un figlio prima di affidarlo a traghettatori più esperti. Dichiarò: «Le stellette che mi appuntavi sul petto, ministro, generale, colonnello, me le appuntavi sulla nuda pelle: quella patria dovevo soffrirla fin dentro nel corpo». Ma dietro la maschera rideva. Portava parole da una parte all’altra del mondo; cantava le romanze della nazione. Gli altri pagavano bene ma non sapeva scriverle da solo, altrimenti non sarebbe più tornato indietro. La questione dei diritti d’autore provocò una frattura insanabile e portò alla rottura dei rapporti con la madrepatria. Ama dire di sé: «Se solo avessi saputo scrivere, sarei stato ricordato anche con una tomba senza nome, come Mozart. Invece so solo cantare. E allora canto l’inno mentre ne penso un altro, e attraverso il cotone della divisa da parata la spilla mi perfora la pelle, più a fondo a ogni passo di marcia. Io canto, le mani in tasca e canto, in tasca le vostre parole, ingegneri, funzionari, politicanti. Sono pronto a darle, a portarle a chi mi paga di più. Chi saprà darmi il giusto valore?».
Il precedente capitolo di Pitture infamanti:
Il successivo capitolo di Pitture infamanti:
Chi volesse proporre prose brevi per la rubrica, può inviarle a questo indirizzo email: RubricaPassaggi@argonline.it
Giuseppe Nava
Giuseppe Nava (Lecco, 1981), vive a Trieste. Ha pubblicato "Esecuzioni" (d’If, 2013; premio Mazzacurati-Russo), "Nemontemi" (Prufrock Spa, 2018) e "Le attese" (Vydia 2021; premio Lucini). Suoi testi e traduzioni sono presenti su varie riviste e siti, tra cui «InPensiero», «Nazione Indiana», «Poetikon», «Utsanga». È stato uno dei curatori dell’antologia "L’Italia a pezzi" (Gwynplaine, 2014). Collabora come redattore alle riviste «Bollettino ‘900» e «Charta Sporca».
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