Pitture infamanti di Giuseppe Nava (Capitolo III) ⥀ Passaggi

La rubrica Passaggi prosegue la sua opera di esplorazione nell’ambito della prosa breve con la terza e ultima puntata delle Pitture infamanti di Giuseppe Nava. L’editoriale della rubrica si trova qui

Illustrazione in copertina di Cristiano BaricelliMargherita Guglielmina, 2022.

 


 

Margherita Guglielmina

Nasce nel 1764. A sedici anni conosce già più di cento ricette con le erbe per togliere i dolori, andare di corpo, bruciare i vermi. Ci sono impacchi che nelle giuste dosi fanno vedere che i colori del bosco sono diversi, e che le montagne sono schiene di animali addormentati. Cammina piano, per non svegliarli. Nel 1789 non sa nulla di cosa succede di là delle Alpi; pianta per terra coltelli, forchette, pettini, con le punte in su; falci, forconi, forbici, chiodi, ferri di ogni tipo per pungere il cielo e scongiurare la pioggia. Nel 1798 guarisce due donne e un bambino. Sono i settantesimi, segnati a tacche sullo stipite della porta. Nel 1802 muore il marito, che aveva visto per qualche giorno trent’anni prima. I bambini per strada cominciano a prenderla in giro e insultarla e non smetteranno mai. Alla notte la valle freme e rabbrividisce, si inarca, si riaddormenta, ma nessuno lo sa; lei a malapena lo sospetta. Nel 1807 scopre un groviglio di capelli, crini di cavallo, spille da balia, sotto il materasso del figlio malato dei vicini. Nel 1818 non sente, né altri nel paese, il passaggio degli spiriti sopra le case, a pennellate, a fiotti; si sarebbero viste la luna e le stelle come unte, ingrassate. Nel 1828 il suo noce viene abbattuto; l’uomo che l’aveva abbattuto muore; altri due uomini, pieni di vino e di rabbia, vanno a trovarla con i bastoni.

 

 

 

Frederick Cook

Esploratore, nato nel milleottocentoequalcosa, muore negli Stati Uniti ottant’anni dopo. A lui si deve la scoperta che se qualcosa non è scritto non vale niente. Una vita intera a perderci gli occhi su chilometri quadrati di bianco, pagine affiancate di un libro che non si fa scrivere. Giorno dopo giorno fino a perdere il conto in qualche scatola abbandonata in un sottoscala, a far muffa. Vale quanto una promessa, una parola data, ormai poco o niente. Poteva valere qualcosa, forse, altrove, un giuramento, su ciò che di più prezioso – «il cane, il grasso, la carne cruda». Un giuramento ed un racconto, non come il suo che fu preso e reso rimasticato come il bolo della sterna. Non vale più, qua, evapora e sparisce, aloni di gocce asciugate sui vetri – «li puliremo col vetril e la carta di giornale». Altrove, la voce fuori della bocca congela e cade e fonde e giù nei ghiacciai neri dell’oceano acquista consistenza di cristallo, e resta, e vale. Viene ricordato per la massima: «Là, se dico che t’ammazzo, morirai».

 

 

 

Ubaldo Scarpelli

Nasce sul finire del diciannovesimo secolo. Pubblica poesie, testi critici, saggi storici. Si potrebbe parlare di lui per dire cosa vuol dire cercare infruttuosamente di salvare capra e cavoli. Oppure per dire cosa vuol dire giocare con la propria coscienza sporca, o con la propria stupidità, se di coscienza non si tratta. Oppure ancora per dire cosa vuol dire amare un uomo e cercare di appropriarsi della sua eredità, anche quando i tuoi amici lo schifano e lo odiano. Si potrebbe, ma nessuno lo fa; per cui potremmo parlare di lui per dire cosa vuol dire l’oblio senza morte, l’essere disperso nella steppa del secolo, non avere altro che una paginetta secca secca in cui esser definiti come «un tale». Potremmo, ma lo faremmo? Vive a Trieste.

 

 

 

Eddie Slovik

È uno dei maggiori poeti americani del secolo. Rivela fin dall’infanzia la tendenza a peggiorare. Avaro, oltraggiatore, ubriacone; con lui non si dovrebbe nemmeno mangiare. Fa società con il ladro, odiando se stesso; ode la maledizione e non dice nulla, ma sa che entrerà nella sua casa, si stabilirà in mezzo alla sua casa e la consumerà con il legname e le pietre che contiene. Non ha pubblicato nulla e vive nella promessa continuamente rinnovata e sempre disattesa di una redenzione. Per lungo tempo non vede il sole, non sente l’aria fresca sulla pelle, veste il saio della penitenza e bofonchia lodi al signore. «Libera l’anima mia dalla prigione, perché io celebri il tuo nome!». Quando l’arroganza dei tiranni sta per ridurre il mondo a un deserto, quando si preparano i figli al massacro per l’iniquità dei padri, egli decide che è giunto il momento di scappare. Non più rifugiarsi nelle bocche nere delle case, di notte; non più piangere perdoni davanti agli occhi amari amati. Ma insistere nella fuga, senza soluzione, instancabile ripiegamento davanti al nemico, al colmo della paura. E dirlo, gridarlo, persino scriverlo. L’anatema lo coglie ancora giovane: ma non la spada, la fame, le bestie feroci e la peste sono il furore del padre, ma il calcolo, la convenienza, la necessità. Dopo lungo tempo, dieci anni fa è tornato a casa dai suoi cari.

 

 


 

I precedenti capitoli di Pitture infamanti:

Capitolo I

Capitolo II

 


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Giuseppe Nava
Cristiano BaricelliMargherita Guglielmina, 2022.

Giuseppe Nava
Giuseppe Nava

Giuseppe Nava (Lecco, 1981), vive a Trieste. Ha pubblicato "Esecuzioni" (d’If, 2013; premio Mazzacurati-Russo), "Nemontemi" (Prufrock Spa, 2018) e "Le attese" (Vydia 2021; premio Lucini). Suoi testi e traduzioni sono presenti su varie riviste e siti, tra cui «InPensiero», «Nazione Indiana», «Poetikon», «Utsanga». È stato uno dei curatori dell’antologia "L’Italia a pezzi" (Gwynplaine, 2014). Collabora come redattore alle riviste «Bollettino ‘900» e «Charta Sporca».

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