Poesia come eco-logia ⥀ Sonetti e specchi a Orfeo da R. M. Rilke di Luciano Mazziotta

Toni D’Angela commenta e sviscera l’ultimo libro di Luciano Mazziotta: Sonetti e specchi a Orfeo da R. M. Rilke (Valigie Rosse, 2023)

 


 

«Vedere un paesaggio com’è quando io non ci sono»
Simone Weil, L’ombra e la grazia
I.

«Descriviti l’occhio», scrive Luciano Mazziotta nel primo «specchio» dei suoi Sonetti e specchi a Orfeo (Valigie Rosse, 2023). Ludwig Wittgenstein, mani nervose pressate contro le tempie, si sforzava di distinguere un puro vedere dal fatto fisiologico e anche sociale del vedere. Non esiste un puro vedere, lo sapeva bene anche lui. Vedere è sempre un atto condizionato fisiologicamente e culturalmente, intramato con «giochi linguistici» e «forme di vita». Solo che Wittgenstein cercava, drammaticamente (si sprofonda, come scrive Mazziotta in una sua poesia), di comprendere il vedere come accadimento, offerenza, apertura originaria, in cui il mondo si dischiude e noi ci slarghiamo nel mondo, il vedere quasi come una piega dell’essere. Visione non in quanto strumento ma soglia a partire dalla quale si con-costituiscono vedente e visibile. Una sensazione, nell’accezione aristotelica, incontro del senso e del sensibile.

«L’occhio descriverlo qui, è ciò che se serve impedisce di chiuderlo», incalza Mazziotta. Se me lo chiedi, non lo so; se non lo domandi, allora, lo so – forse. Ma l’occhio, questo che vede senza essere visto, mica si vede. Negli anni in cui Rilke componeva i suoi versi (sia i Sonetti a Orfeo che le Elegie duinesi), Wittgenstein metteva mano, raccapezzandosi non più di tanto, a quaderni e trattati: «Il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo» (Tractatus logico-philosophicus, 1921). L’occhio più che inscritto o addirittura collocato (come l’ora in banca) nel campo visivo è limite del campo: «Ma l’occhio in realtà non lo vedi». Più che antropocentrismo, c’è una domanda, profonda, anzi che ci fa sprofondare.

Possiamo provare a spostare o far slittare il problema, magari sempre attraverso Rilke, anche se non con i suoi Sonetti a Orfeo (1922 ma pubblicati nel 1923), ma con l’Ottava elegia, dalle Elegie duinesi (terminate nel 1922, stesso giro d’anni delle ricerche di Wittgenstein). Là c’è l’animale, la questione animale. «Non siamo abbastanza animali», scriveva Cesare Pavese, che aveva come una nostalgia per una vita interna, segreta, animale, ctonia, dionisiaca, la vita del fosso in cui gli studenti di Torino si insozzano, anneriscono al sole, bestialmente, nel basso, in un sottosuolo contrapposto al mondo in alto, della città, delle buone maniere, della cultura. L’«animale profondo», che Nietzsche voleva risvegliare.

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Sonetti e specchi a Orfeo da R. M. Rilke, Luciano Mazziotta
Luciano Mazziotta, Sonetti e specchi a Orfeo da R. M. Rilke.

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«Le bestie spaesate», scrive Mazziotta nel suo primo specchio, «ruotano attorno» all’occhio, come sotto assedio – e «non ti riguardano». Il silenzio, lo sguardo, lo sguardo in quanto silenzio, linguaggio muto che non è dell’uomo né dell’animale. Lo sguardo dell’altro, quell’altro nonumano. Il partito preso delle cose si manifesta in queste «radici che assediano l’iride». «Tutto si unisce due volte e sconfina». C’è come un fraintendersi di vedente e visibile, animale e umano, «campo che vede» e «che è visto». Le ciglia aprono e chiudono, sono una disgiunzione, silenzio e parola, il primo si gonfia nella seconda e questa si invagina in quello.

«Quindi descrivilo l’occhio», ma come? Allo specchio – come descrivere un sonetto di Rilke? Che specchio? Quelli deformanti di cui parla Platone nella Repubblica? Infedele? Ma non lo sono sempre? Pure quello di Lacan? Io in quanto altro e l’altro che è io… L’altro è l’«occhio allo specchio», un «cerchio composto» da due metà che girano l’una sull’altra (e magari stando ferme, come volevano gli antichi greci): «il nero in cui se ti inerpichi affondi nel nero più saldo dell’occhio di un altro», scrive Mazziotta.

Nell’Ottava elegia di Rilke c’è «un animale, muto» che «alza lo sguardo» e «che quieto ci traversa». Quello sguardo, che non ci riguarda, anch’esso ci assedia. «Con tutti gli occhi vede la creatura l’aperto», scrive Rilke. Lo sguardo è muto ma non mancante; non ha bisogno di linguaggio oppure è già linguaggio. Ecco perché vede l’aperto, perché quello sguardo sconvolge noi che abbiamo gli occhi come «riversi» e «tesi come reti», che sempre vogliamo afferrare e catturare il libero varco, che rigiriamo lo sguardo incapaci di vedere l’immenso libero, l’Aperto, per quelle «leggi autoimposte» cui allude Mazziotta.

Il punto che fa nodo, o scioglie i nodi, non è riconoscere anche all’animale un accesso al pensiero ma, come scrive Jean Christophe Bailly (filosofo e poeta), sconfinare, attraversare i confini, fuoriuscire dall’esclusività umana. Nel nostro occhio, nel nero in cui si sprofonda, c’è l’occhio dell’altro, anche di quello che è nonumano, con cui condividiamo il visibile, quelle radici che ci assediano, radici che sono un «esser lì», che si possono incontrare ma non dedurre, come scriveva Jean-Paul Sartre nel suo famoso romanzo. È l’albero che, scrive Mazziotta «trafigge la retina»: il partito preso delle cose, per dirla, di nuovo, con Francis Ponge. Walter Benjamin parlava di una lontananza, in quanto aura, delle cose, quelle che siamo troppo abituati a concepire e usare come inerti e passive, prive di agency. Forse nella poesia risuona questa agentività delle cose, anche di quella “cosa umana” e dell’altro che non è l’uomo, di questo aperto comune.

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II.

Poesia come passività, genesi a rovescio, e come trascendenza fascinatoria e allucinata, captazione. La poesia è questo differenziale tra paralisi (siamo come assediati – dalle cose) e trasformazione che, suggerisce Mazziotta, dobbiamo imparare a considerare come «un tratto leggero dell’indice». Imparare è dimenticare, sprofondare perché si guarda l’occhio e poi risalire, come Orfeo, ma a mani vuote, leggeri – o tragici: danzanti sull’orlo dell’abisso, l’«orlo dell’unica pozza rimasta» e tuffarsi «nell’acqua che ghiaccia».

Imparare che, come recita il terzo sonetto tradotto incoerentemente da Mazziotta, «la terra e le stelle coesistono in noi». Sonetto che, anche nella sua traduzione incoerente, ci rimbalza all’Ottava elegia, alla questione altrettanto abissale, sfingica, dell’uomo e dell’animale e della loro separazione.

«Non siamo all’altezza di un atto del genere, scendere fino all’abisso senza fondale sul quale si impianta il pilastro del mondo e poi risalire da vivi per dirne una minima scaglia», scrive Mazziotta, un’eco in cui risuona ancora Nietzsche. La poesia come critica della separazione.

Sconfinare, ancora, oltre «la città recintata» che sempre «consola». L’aura è questo «lontani dal nostro mediocre», in cui siamo conficcati perché abbiamo «il timore di ampiezze». Nello specchio di Mazziotta non c’è solo una risonanza con il sonetto di Rilke, il numero III. («A un dio è concesso…»), ma un retentissement con l’Ottava elegia. È là che la creatura, l’animale ha la pupilla tutta aperta sull’Aperto, uno spalancamento. Forse è di questo che aveva nostalgia Pavese? Forse è questo che desiderava Jackson Pollock? I nostri occhi sono troppo tesi, scrive Rilke, abbiamo timore. Siamo incastrati, scrive Mazziotta e allora occorre il «confronto tra noi e chi può, solo perché si conosca la perdita». Imparare (è) questo confronto. Forse anche imparare che l’essenza di Orfeo è fuggire e la nostra di inseguirlo. Se è così, allora non abbiamo alcuna essenza. Come la poesia? Anch’essa traduzione? Il sonetto è già specchio?

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III.

Forse le traduzioni, almeno quelle buone in cui risuona qualcosa, sono sempre “incoerenti”. Gli specchi riflettono ma non fedelmente e comunque nello specchio la poesia diventa altro da sé, lo specchio è spazio eterotopico. Benjamin ricordava che nella poesia non è essenziale comunicare. La posta in gioco è l’ineffabile, anche la parentela tra umano e nonumano. Poesia come eco-logia.

Come si può tradurre l’inafferabile, il misterioso, domandava Benjamin, se non poetando? La traduzione è una forma e non una trasmissione o riproduzione. L’affinità tra le lingue, tra quella originale e quella che traduce non è somiglianza, ma «la pura lingua». Poesia come lingua in cui risuona la co-appartenza di io e altro: l’affinità delle lingue. Questa pura lingua non è quella di cui parla Heidegger che dopo la Seconda guerra mondiale, richiamandosi a Rilke, parla dell’esperienza insondabile significabile o esperibile forse solo dai poeti; salvo poi dire, come Aristotele prima di lui, che i poeti non si interessano dell’aletheia – in realtà è Heidegger che non si interessa alla pietra e all’animale. Nel partito preso delle cose dell’Ottava elegia invece suona questa co-appartenenza, in cui possiamo dire all’«acqua che passa: io esisto».

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IV.

Il disastro è il silenzio dopo la domanda, il tempo storico, il tempo presente, senza più esodo? Non c’è più un fuori, una terra promessa? Il disastro assodato, l’estinzione, come scrive da qualche tempo “Bifo” Berardi, continuando una tradizione aperta da Mark Fisher. Anche Christian Marazzi da tempo parla di un pensiero dell’esodo, ricordando che ci sono due grandi tradizioni nel pensiero politico: il pensiero hobbesiano, stanziale e fondato sul confine e il pensiero che promana dal libro dell’Esodo, nella Bibbia. La recinzione e il cammino. Verso dove? C’è ancora un altrove? Certo, dopo la glaciazione, c’è l’attraversamento del deserto, di cui parla Mazziotta, che nella nota finale del suo libro, ricorda quanto detto dall’oratore greco del V secolo a.C., Antifonte, almeno secondo quanto riportato (“tradotto”?) da Plutarco. Antifonte, pubblicamente – il che aprirebbe nuovi scenari di interpretazione a proposito dell’esodo – proclamò «di poter curare dalle paure attraverso i logoi»: la poesia?

In realtà poi la forza dell’esodo non consiste nell’approdare alla Terra promessa. Deleuze osservava che ciò che conta non è la rivoluzione o il suo esito, ma il divenire-rivoluzionario delle genti: non consolare ma rendere un po’ più poetica la vita nelle sue trame spesso prosaiche. Anche se «la catastrofe sembra sia avvenuta», anche se «si abbassa il livello del mare» – o si solleva – c’è ancora un altrove. Lo scrive anche Mazziotta, proprio laddove cadono «i nostri propositi»: descrivere non l’occhio ma «tutti gli altrove pensati», in fondo, più veri dei «fatti evidenti», cioè delle nostre cadute e del livello del mare che si alza – e non solo si abbassa. C’è ancora tempo, perfino «un’etica nelle ore del mattino»: questo tavolo, questa tastiera, questo piccolo testo in omaggio a un poeta conosciuto da poco, il suo libro qui sul divano, di fianco a Bachelard – e pure questa tazza di caffè ormai vuota, anche se sono le sette di sera – «sono testimoni della nostra persistenza». Perché se è vero che passiamo, per dirla con Rilke e Mazziotta, «io passo» lo diciamo pur sempre «alla terra che resta». La poesia, dopo tutto, non è questo rimbalzo che torna indietro perché sbatte contro qualcosa “là fuori”?
Eco-logia.

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I

Lì sbucò un albero. E fu il primo passo nell’oltre.
E Orfeo canta. È un albero trafitto nell’orecchio.
Quindi silenzio. E silenzio. E in quel silenzio
daccapo un inizio, un indizio, la metamorfosi.

Poi ombre di bestie lasciarono il bosco di luce
lo spazio spianato di tane e cespugli,
allora fu sempre più chiaro che non per tramare,
né per paura dicevano calmati al cuore,

ma per ascoltare. Ruggiti, urla, fracasso
mutarono in piccoli battiti. E dove prima
c’era una casa di legno a riceverli,

un covo segreto di istinti nascosti,
con porte d’accesso che scricchiolano
lì, nell’ascolto, piantasti il tuo tempio per tutti.

 

 

1.I

Descriviti l’occhio. Col tratto leggero dell’indice percorrine l’orbita qui in questo specchio deposto nell’unico spiazzo del bosco spoglio di tane e cespugli. Le bestie spaesate gli ruotano attorno e non ti riguardano, né le contempla l’immagine dove premendo sul vetro il riflesso non lacrima. L’occhio descriverlo qui, è ciò che se serve impedisce di chiuderlo. Sbarra le palpebre, scosta le ciglia – quindi silenzio e silenzio e le bestie spaesate si accorgono – scopri radici che assediano l’iride: al centro sbuca la forma di un albero, sbuca e respinge l’attrito dell’aria a distinguere il campo che vede da quello che è visto. Tutto si unisce due volte e sconfina. E l’albero ascende, trafigge la retina e quindi silenzio e silenzio e buio non fatto all’ascolto. Orfeo non ci scalda col suono dal freddo ricordo di ciò che sarà, non dal deserto. Quindi descrivilo l’occhio, il globo che puoi constatare e spezza il legame col tempo, senza guardare che questo allo specchio, che qui, dove ciò che si compie ti basta. Le bestie spaesate che migrano non ti riguardano e l’occhio allo specchio è un cerchio composto, il nero in cui se ti inerpichi affondi nel nero più saldo dell’occhio di un altro. Descrivi anche questo, violando le leggi autoimposte di non descrivere altro che il tuo, neppure questi occhi concentrici e sali sul bordo dell’epoca. Col tratto leggero dell’indice percorri la cima dell’albero qui, in questo specchio dove rifletti e risali all’origine. Sali, e salendo, poi guardati l’occhio. Sprofonda.

 

 

III

A un dio è concesso, un uomo non può, però, dimmelo,
seguirlo con l’esile lira se il suo intelletto è dissidio
e se all’incrocio tra le due arterie del cuore
non c’è nessun tempio ad Apollo.

Canto, come ci insegni, non è desiderio,
e neppure impugnare qualcosa infine e ancora raggiunto.
È esistere il canto. Facile gioco per dio.
Ma noi se esistiamo esistiamo senza sapere

quando la terra e le stelle coesistono in noi.
Non succede, ragazzo, se ami. E se anche la voce
ti spalanca di colpo la bocca – tu impara:

dimentica che un tempo hai cantato. È un canto già perso.
In verità il canto è un altro sospiro. Un vento.
È un soffio di spettri. Il canto: è un sospiro sul niente.

 

 

1.III

Non siamo all’altezza di un atto del genere, scendere fino all’abisso senza fondale sul quale si impianta il pilastro del mondo e poi risalire da vivi per dirne una minima scaglia. Perché siamo tragici. Orfeo lo può e se è dio, è dio per farci sentire da meno. Possiamo dargli la mano, seguirlo di un tratto, e a metà strada staccare la stretta – tornare più vuoti, sagome storpie prive di fiato e di frasi. L’alto e il basso convivono in un’esistenza completa che ha facoltà di parola, benché non tutto sa dire né quello che si era proposto di dire all’inizio del viaggio. Noi non siamo all’altezza di scendere senza paura lontani dal nostro mediocre che allevia il timore di ampiezze. E la città recintata consola, è il posto in cui il tempo è mancante e più sempre mancato, come se avesse bisogno di pieno che noi ci sforziamo a colmare coi passi in avanti, che sono, invece, un ruotare su sé.  In questo Orfeo ci somiglia, seppure il suo movimento sia in verticale e il nostro sulla pianura crepata di soffi di vento dai quali prendere il largo. Ma siamo incastrati. E un alito gelido su questo restare nel mezzo infierisce e ci schiaccia: costringe al confronto tra noi e chi può, solo perché si conosca la perdita.

 

da Sonetti e specchi a Orfeo da R. M. Rilke (Valigie Rosse 2023) di Luciano Mazziotta

 


Luciano Mazziotta (Palermo, 1984) vive a Bologna e insegna Lingua e letteratura latina. Nel 2014 è uscito il suo libro di poesie Previsioni e lapsus (Zona) e nel 2019 Posti a sedere (Valigie Rosse). Suoi testi sono stati pubblicati su lit-blog e riviste cartacee quali Nazione Indiana, Nuovi Argomenti, Le parole e le cose, L’Ulisse. Poetiche per il XXI secolo e Versodove 20. Il 29 dicembre del 2019, a Palermo, nella sala di Palazzo Abatellis, nella quale è contenuto l’affresco del Trionfo della morte, la sezione omonima tratta da Posti a sedere è stata rappresentata in una performance teatrale-musicale. Il tutto è avvenuto grazie alla collaborazione dell’associazione di musica sperimentale Curvaminore, sotto la direzione del maestro Lelio Giannetto.

Toni D’Angela è insegnante, critico e curatore. Ha pubblicato saggi e libri sul cinema classico, moderno e d’avanguardia, su Godard, Jerry Lewis e Matta-Clark, e sulla teoria dell’audio-visione. Ha fondato e dirige il film & media journal «La Furia Umana».

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*Immagine in evidenza: foto di Luciano Mazziotta