La poesia de-pressa ⥀ Sul Sedicesimo Quaderno italiano di Poesia Contemporanea
Un’analisi del Sedicesimo Quaderno italiano di Poesia Contemporanea (Marcos y Marcos, 2023), inteso come oggetto culturale di un certo sentimento del tempo attraverso le voci che lo rappresentano
Il Sedicesimo Quaderno italiano di Poesia Contemporanea edito da Marcos y Marcos nel 2023 ha raccolto le voci di sette autori e autrici: Michele Bordoni, Marilina Ciaco, Alessandra Corbetta, Dimitri Milleri, Stefano Modeo, Noemi Nagy e Antonio Francesco Perozzi. A guardare le date di nascita di tutti questi nomi, che vanno dal 1988 al 1996, si è di fronte a un campione della generazione dei Millennials. Lo scopo del presente articolo è di considerare il Quaderno non come una semplice opera artistica, ma come un oggetto culturale rappresentativo di un certo sentimento del tempo. A tal fine, queste riflessioni verranno suddivise in due parti: nella prima si analizzerà l’opera, adottando gli strumenti della critica letteraria; nella seconda, invece, si analizzerà l’operazione, riflettendo su come i vari poeti vengono presentati nel quaderno, concentrandosi più su questioni di sociologia della letteratura. La prima avrà un taglio più analitico, la seconda più polemico.
L’opera
Non è un caso che qui si usi il singolare: di fatto, nonostante vengano presentate delle mini-raccolte di sette autori differenti, non concepite per entrare in dialogo con le altre, il Quaderno, così come è stato confezionato, permette di osservare alcuni collegamenti tematici che danno la possibilità di riconoscere una coerenza emergente tra le varie parti. Alla luce di ciò, questa sezione sarà ulteriormente divisa in sottosezioni, tutte dedicate a un particolare tema. Pertanto, si privilegerà una critica di tipo tematico rispetto a quella di tipo formale.
Il corpo
In Bordoni il tema del corpo è la colonna portante dell’intera raccolta. Per comprendere in che modo esso viene sviluppato, sono esplicativi i seguenti versi:
[…]
La pelle e questa posa da bonzo artificiale,
una statua di pietra sulla sedia,
a vedermi da fuori, un animale
immobile costretto alla sua regola.
Ancora altri esercizi per scontare
il male interno, dolore che permane
nella cavità del Golgi, nelle strutture
più intime e nascoste della fabbrica
che tutte le mattine si riattiva (pp. 33-34).
[…]
Nel corso della raccolta si esprime, in maniera quasi ossessiva, l’idea che l’io poetico sia costretto all’interno della sua pelle: «si è impermeabili, organismi/ rigorosi, ermetici» (p. 21); «l’inesprimibile tristezza calda/ della carne ristretta nella pelle/ e che oltre quel confine non può esplodere» (p. 22). Il motivo di questa condizione esistenziale opprimente può essere riconosciuto in maniera più netta nei versi seguenti, in corsivo, come se indicassero una voce esterna che si rivolge all’io poetico:
[…]
Devi uscire dalla scatola
in cui ti sei rinchiuso, liberarti
da questa imposizione di rigore.
Sei così piccolo in questa riserva
camera stagna che non ti accorgi
che la poesia sta ai margini, azzardata
oltre il bordo minuscolo dei libri (p. 28).
[…]
In estrema sintesi, l’io poetico assume un atteggiamento marziale per poter contenere una sorta di male che proviene dalla carne, che alberga all’interno delle cellule, su di un piano genetico.
Se in Bordoni il corpo è costretto perché è l’io stesso a imporsi una tale condizione, in Milleri il corpo è rinchiuso in atteggiamenti schematici in maniera inconsapevole, “distratta”:
[…]
Distratto a ripulire la chitarra.
La mano regge il peso e dentro l’acero
graffiato il panno scende a impolverarsi.
Fa molto caldo: manca la saliva
fra i denti e nella gola
e la pupilla è puntiforme, illesa,
se anche sul buio, adesso, viene buio.
La mano, il peso, il panno sono parti
di una catena di montaggio.
La faccia, che non si vede,
entra nel cuore dell’ibernazione (p. 162).
[…]
E anche in Milleri è l’interno del corpo a essere problematico, tant’è che si sente un forte desiderio di proiettarsi verso l’esterno, di “esporsi”: «Volevamo sentirci esposti, lo eravamo – però ciò che provavamo non faceva mai centro: né verso il buio né verso l’appartenenza. Rivoltato all’esterno, il derma si ustionava – gli organi interni restavano congelati» (p. 174). Bordoni e Milleri propongono rappresentazioni del corpo quasi in contrasto. In entrambi i casi, le loro rappresentazioni ruotano intorno alla dicotomia interno/esterno: mentre in Bordoni l’interno è caratterizzato da una forza maligna che deve essere tenuta a bada dalla volontà dell’io, in Milleri, al contrario, l’interno è congelato e, per tale motivo, è l’esterno che deve restituire all’io la propria capacità d’azione. Bordoni agisce frenandosi, nella sua poesia la forza è attrito; Milleri agisce bruciando, staccandosi dagli automatismi in cui è costretto l’intimo.
In Ciaco e Nagy il corpo è oggettificato e presentato attraverso i pezzi di cui è composto. In Ciaco si legge in Quarto doppio:
due donne nella stanza
donna di pelle e donna di carta
la prima perde le labbra, ogni giorno
scrosta un pezzetto
e con lui cade come terracotta riarsa
il pavimento trattiene i resti delle labbra
i fili strappati da maglioni cappotti poltrone da ufficio
donna di pelle si guarda le ossa
taglia con perizia le etichette
e spegne una candela ogni giorno che passa,
donna di carta s’insinua si snoda
fra macchie policrome e foglie di legno
è stata prodotta in serie
dalla multinazionale svedese (p. 111)
[…]
Mentre in Nagy:
Ogni sera con le mani nella plastica
fare insieme la differenziata.
«Ci sono ancora corpi qui dentro?»
rovistando nel ventre molle dei rifiuti
chiedi a chi appartengano quegli arti mozzati
che continuano morti a crescere male.
Andrebbero ricomposti, dici tenuti insieme
i piedi nelle camere ardenti
legati con il nylon.
Non sono di certo più i tuoi
ma te ne prendi cura lo stesso
come ci si prende cura di un gattino:
separandolo dagli involucri (p. 264)
Il corpo nelle due autrici assume i tratti di un prodotto della società dei consumi: i riferimenti alla produzione in serie (Ciaco) e ai rifiuti (Nagy) sono chiarificatori in tal senso. Ciaco afferma che «l’io è oggetto di deiezione» (p. 112): quest’ultimo termine rinvia alla filosofia di Heidegger e, di fatto, si può affermare che nelle due poetesse il corpo è un deietto, cioè ciò che resta dal continuo scontro di forze alle quali l’individuo è soggetto. Queste forze sono tutte le scelte che trascendono la nostra volontà, poiché frutto di pressioni ambientali: costrizioni sociali, automatismi culturali, imposizioni familiari, ecc.
In entrambe l’io poetico oppone resistenza a tale condizione, ma gli atteggiamenti descritti dalle due poetesse sono agli antipodi. Ciaco scrive:
[…]
non ho deciso di scappare
persevero nel cercare le chiavi che ho perso al piano terra
i giorni non mi scivolano addosso
i giorni da qualche tempo vanno in frantumi e non li ritrovo
I’ve got the spirit but loose the feeling
vagheggiando un’intesa precaria, un accordo, una tregua (p. 112)
Nagy, al contrario:
Oltre a una certa altezza buttarsi:
bisogna pensarci per un’ora al giorno […]
Cadere in piedi, sacrificare le gambe
per salvare il resto
dal terrazzo diventa così facile
spaccare le ginocchia sul ciottolato (p. 277)
[…]
Ciaco cerca, in qualche modo, di arrivare a un compromesso con il processo di consumerizzazione del corpo, Nagy, al contrario, si abbandona a esso. Gettandosi volutamente in tale oggettificazione del corpo cerca, in qualche modo, di controllarne le modalità, decidere quali pezzi di sé preservare e quali no.
Anche in Perozzi il corpo è rappresentato invischiato nella sfera del consumismo, nella poesia Profondo gore:
Conosciamo la violenza più turpe
grazie ai puntuali canali di Telegram. Di giorno –
a lavoro o ovunque – ci concediamo, scorrendoli,
una dose di gore più o meno ampia:
ragazze incinte aperte col machete,
feti sbattuti sul marmo, un uomo
che posiziona lo smartphone, si imbocca il fucile
e spara. Per il resto la vita prosegue
con rari turbamenti e una totale assenza
di sangue. A cena ritroviamo
ognuno col suo gomitolo di peste
nell’incavo meno accessibile del cranio (p. 328).
Qui, però, il corpo spezzato non è descritto in quanto merce, ma in quanto spettacolo: a essere consumato è l’immaginario del corpo, non il corpo stesso. Interessante notare come per Perozzi la quotidianità proceda in “totale assenza di sangue”, mentre per Ciaco e Nagy i corpi-rifiuti vengono rappresentati proprio nella vita di tutti i giorni. Si potrebbe azzardare un’interpretazione sulla base della differenza di genere per poter spiegare la distanza tra le scelte del poeta uomo e della poeta donna. La donna, storicamente, nel sistema patriarcale, è oggetto del continuo sguardo maschile: è anatomicamente divisa in pezzi, i quali diventano oggetto del desiderio dell’uomo. D’altronde, i video porno sono categorizzati sulla base di questa attenzione pressoché maniacale sulle singole parti del corpo femminile: scene suddivise per dimensioni del seno, del sedere, per colore dei capelli, per appartenenza etnica, ecc. La donna, osservata, vive nella sua quotidianità lo smembramento, l’uomo, al contrario, osservante, vive lo smembramento come spettacolo.
La dimensione relazionale del corpo è presente in Modeo e Corbetta, seppur in maniera completamente diversa. In Le agavi di Modeo si legge:
Un uomo osserva i corpi
delle agavi bruciare al sole.
È in cerca di un reperto
che lo faccia risalire a quando
è apparso sulla terra,
una vecchia lanterna o un corridoio
nel tempo che ora possa aiutarlo
a chiudere il cerchio.
Riconosce il capo abbattuto
delle gru nel porto, i distributori
di carburante nel mare o la prua
delle navi petroliere.
Il mondo che muta ha l’aspetto
di ciò che è andato perduto. Le agavi
lasciano che lo scirocco le frusti,
che le imbianchi la salsedine (p. 224).
Qui appaiono dei corpi non umani: le agavi sono dei corpi vegetali che si contrappongono ai corpi dei mezzi industriali, gru, distributori e navi. Mentre attraverso i primi l’uomo può ricongiungersi con la propria origine, come se le agavi conservassero in esse la materia fondativa del genere umano, i corpi artificiali, nati dall’ingegno dell’uomo stesso, sembrano allontanarlo dalla pienezza dei primi attimi della sua comparsa. Al contrario di ciò che sosteneva Hegel nella sua dialettica servo/padrone, l’uomo qui non si riconosce nel proprio atto produttivo, ma nel riconnettersi con la natura. Per Modeo, l’uomo trova la sua essenza non nella progettazione, bensì nell’archeologia: è il ritorno all’origine che permette all’uomo di compiersi, non nel mutare, nel progresso, inteso qui come processo di perdita dell’originario e non di acquisizione del nuovo. L’uomo di Modeo non cerca il Paradiso, ma vuole ritornare al proprio Eden. Non a caso, l’intera raccolta di Modeo si fonda sul concetto di nostalgia della propria terra, che si concretizza nelle immagini dei corpi costretti a migrare.
La poesia di Corbetta ruota intorno a una figura, la bambina C., che vive in uno spazio da fiaba, dove vige una logica spesso paradossale. L’opera, che può essere considerata un poemetto, è suddivisa in quartine. In una di esse, la più carnale di tutte, si legge:
La bambina sa che resterà da sola,
così nel momento dell’amore spalanca
gambe e braccia a dismisura.
Se chiedi come mai? dice niente mezze misure.
Amore e solitudine qui coincidono: il gesto della totale apertura più che preludio all’accoppiamento, quindi all’accoglienza, sembra essere una mera produzione di vuoto. Più si allargano le gambe e le braccia, più ci si mostra disponibili all’arrivo dell’Altro, più apparirà palese la sua assenza. Il desiderio amoroso genera nuovi corpi attraverso il sesso ma, quando l’altro manca, arriva a logorare, attraverso un processo di sfilacciamento, i corpi già esistenti.
Generazioni
Nonostante la preponderanza del tema del corpo, il tema dell’erotismo non viene toccato. Questi sono corpi che non hanno più nulla a che fare col piacere. L’assenza della dimensione sessuale rende questi corpi impotenti, incapaci di generare il nuovo. Per tale motivo, la tensione narrativa presente nel Quaderno è tutta rivolta all’indietro, alla ricerca dell’origine, come è già apparso evidente nella poesia di Modeo.
In Corbetta e Nagy il tema che qui si vuole analizzare si concretizza in scene in cui si rappresenta il rapporto dei protagonisti con i genitori, in special modo con la figura del padre. In Corbetta, la figura maschile si sdoppia in due entità: il Padre e il Maestro. Il primo viene evocato sin dall’inizio della narrazione della storia della bambina C., che si apre con questi versi:
Il Padre ha praticato il silenzio
e messo un vuoto nella bambina.
Adesso lei sa distinguere ogni suono
e muoversi senza fare rumore.
In un angolo del bosco la costringe
a non muoversi più, a non piangere mai.
Lei si morde la lingua, trattiene le gambe
ma la testa resiste, si oppone al comando (p. 139).
Il Padre è una figura silente: senza la parola, non è capace di emanare una Legge, cioè di dare un senso alla vita discernendo ciò che si può fare da ciò che non si può fare. In questa assenza di senso, il Padre può solo punire: la bambina viene immobilizzata, ma senza sapere perché. Pertanto, si può dire che il vuoto evocato nella prima quartina sia proprio questa assenza di senso, che innesca la macchina del desiderio: l’intero poemetto si fonda, anche da un punto di vista formale, sull’assenza di una logica coerente, quindi di una sorta di “legge dei rapporti di causa ed effetto”, pur non rinunciando al movimento, a una spiccata vena narrativa che cerca di arrivare a qualcosa, a una fine e a un fine, nonostante tutto.
Se il Padre è la figura del vuoto, il Maestro, al contrario, è la figura del pieno:
Il Maestro dice di conoscere la verità
perché la verità piace molto alla bambina.
Lei lo ascolta senza fare domande,
annuisce come si fa di fronte al vero (p. 141).
Da notare la logica: il Maestro non espone la verità per insegnare qualcosa alla bambina, ma solo per compiacerla. Infatti, il poemetto continua affermando: «Nessun compenso per il Maestro/ a lui basta uno sguardo ammirato». In entrambe le figure, si assiste a un fallimento della parola: nel primo caso, la punizione esiste senza prescrizione, quindi la conseguenza esiste senza una causa e la normale crono-logica sociale si sfalda; nel secondo caso, la parola esiste, ma senza alcun contatto con la realtà, poiché a contare non è l’aderenza col referente, ma la capacità di attrarre l’attenzione del destinatario del messaggio. Anche qui, le connessioni logiche si sfaldano, come se si agisse in maniera assoluta, prescindendo dal prima e dal dopo.
Nella parte finale della storia, la bambina uccide il Maestro:
La bambina prende la mira con l’arco
e con molta destrezza scocca una freccia.
Mentre il Maestro traccia altri sentieri
lei lo colpisce e il cuore gli spacca (p. 145).
L’arco è un’arma che usa le frecce, simbolo per eccellenza della direzione: la bambina può fare a meno del Maestro nel momento in cui diventa capace di dare una direzione precisa alle proprie azioni, staccandosi dalla logica franta delle figure paterne. Il poemetto, più che rappresentare un nuovo senso, si preoccupa di definire quali debbano essere le condizioni per poterlo costruire: allontanarsi dal senso espresso dalle vecchie generazioni. Una ribellione totale, che mostra la storia non più come una linea, ma come una serie di strappi:
Sa cos’è giusto la bambina
ma non quando e dove lo sia.
Per questo nell’Amato cerca la verità
una traccia della sua esattezza (p. 144).
La comprensione del giusto avviene prescindendo dal tempo e dallo spazio. Il giusto non appartiene alla storia, ma esiste in sé e per sé. Pertanto, la bambina, la nuova generazione, può agire staccandosi in maniera netta dal passato. Questa poesia, più che esprimere un bisogno di Rivoluzione, mette in scena un acceso desiderio di Apocalisse: un finale definitivo per il prima, un inizio che sia davvero nuovo per il dopo.
In Nagy, la prima parte della raccolta, Atlante, è il racconto della fine di una crisi medica: il padre ha lottato per la vita e ha vinto:
Ha espulso i liquidi, mi spiego? l’infermiere: stavolta è andata.
Il giorno dopo lo chiamavano sopravvissuto
nel reparto ridevano tutti e lui a provarci con la dottoressa
Come sta? non l’ultima, una nuova: perde il conto.
Male grazie! A una certa finiranno pure loro
dell’edificio finalmente vuoto non resteranno che detriti
macchinari dismessi, piaghe da decubito
contornate prima, poi meno e alla fine (p. 259)
Il Padre, nonostante sia stato vicino al punto di morire, conserva un certo vitalismo: i suoi tentativi di flirt, seppur dai tratti comici, mostrano come la vecchia generazione, nonostante tutto, continui a conservare un certo grado di erotismo, a dispetto di quanto visto per l’io poetico delle generazioni di oggi nel paragrafo precedente. A conferma di questo contrasto netto tra vecchie e nuove generazioni, le altre parti della raccolta di Nagy presentano un io poetico che rievoca molto spesso la dimensione del suicidio. Ai fini del presente discorso, la seguente poesia risulta piuttosto interessante:
A una, in ginocchio ai piedi del Padre
in croce la luce cade su entrambe le spalle
mentre ci guarda con occhi da statua
segnandosi la fronte sorride: non è qui
la morte è altrove
Sfuggire alla vertigine penso è già qualcosa
da una prima comunione
come potendosi più facilmente suicidare
tornare a casa ancora interi.
Uscendo, l’altra scassata sul selciato
si è buttata ora le tengono ferma la schiena.
Sul punto d’impatto, all’ingresso della chiesa
chiede per favore di finirla.
«Altrove» certo, e i morti? Loro sono qui
sotto lo sguardo dei vivi, tangibili
Real Bodies Experience a lato della strada (p. 280)
Il tema di questo paragrafo non è presente in maniera diffusa in Bordoni e, tuttavia, compare in maniera significativa, seppur come un inciso, in una poesia in cui si trova il termine “suicidare”, appena incontrato in Nagy:
Magritte
La Chambre d’Écoute, la mela di Magritte
appesa sopra al tavolo nella cucina
di casa, enorme quando invece è piccola
e più verde al Museo di Belle Arti di Bruxelles,
incassata com’è nel suo nero di parete,
quasi prensile guardata dall’altra
estremità della luce, con qualche macchia
marrone che la rende più matura.
. La camera d’ascolto
racconta il cartellino; l’immagine
mangiata dal suo nome si inabissa in un udito
fatto cibo colazione pranzo cena
e lacrime e segreti urlati a tavola
– quella volta che dissi di volermi
suicidare, mia madre e mia sorella
scomparse dentro al verde della mela –
ascolto senza possibilità di voce
pittura deprivata di parola,
silenzio che si incunea nella sala e splende
nel verde di smeraldo, bocca
chiusa, morso non dato al mondo fuori
che dentro il vuoto di finestra aperta
nel grigio di mattoni lì a sinistra
racconta del mare (p. 49).
In una poesia incentrata sulle difficoltà del dire, la madre compare nell’unico punto in cui un atto comunicativo è andato a buon fine, solo per affermare il fallimento di qualsiasi forma di scambio umano, passato e futuro. L’unica cosa che si riesce a dire è la propria volontà di suicidarsi, cioè di porre fine a qualsiasi forma di comunicazione: significativamente, la madre è insieme alla sorella, sintomo di come il profondo disagio del dire coinvolga non solo il dialogo tra generazioni, ma anche tra pari.
Se in Bordoni si tratta ancora di incomunicabilità, in Milleri si assiste a uno scontro profondo tra generazioni:
L’uomo che dorme conquista
e poi scompare
si duplica e scappa.
Restano oggetti le persone,
se ne circonda e le maneggia
come fa con il computer, la TV.
La figlia è remissiva:
quando è lontana l’ombra
gioca timidamente.
Perde il sonno l’accenno
di un ritorno,
il nascondino la logora.
I figli della figlia-madre
giustificano e bastonano
chiedendo un parricidio
che investa tutto il futuro,
tutto il passato (p. 170).
La lotta con la figura del Padre è un grande tema del Novecento, soprattutto dopo Freud e il Sessantotto: la necessità di ribellarsi a quanto ereditato dalle vecchie generazioni per poter trovare la propria strada, nuova e non già tracciata. Il dato qui interessante è che il parricidio non sgombra soltanto il futuro, ma anche il passato. Lo scontro con le vecchie generazioni non è, allora, un rifiuto di ciò che è stato prima, ma delle narrazioni di quanto è accaduto. Non si sente la necessità di fare il vuoto per poter costruire qualcosa di totalmente altro rispetto al passato, ma di guardare al passato senza le lenti interpretative delle vecchie generazioni, poiché il passato, nel bene o nel male, è un contenitore prezioso di conoscenze ed esempi. Di fatto, più avanti si legge: «[…] ogni rimorso/ si oscurerà così che il bimbo possa lanciare calmo i missili, spargere il sale/ sui modelli per sempre» (p. 171).
In Perozzi e Modeo si deve parlare, più propriamente, di rapporto con l’origine. Tale tema è trattato da un punto di vista spaziale. Il luogo da cui si proviene è un legame che non può essere reciso, a differenza di quello con i padri. In Modeo si legge:
Diario dell’inconscio
Quando saltava
. sulle boe,
noi sulla spiaggia
restavamo a guardare
. il pesce morire e volare
una vita a uccidere il mare.
All’orizzonte minuscole vele
procedevano lente come coltelli.
. Quest’unica forza
. in una cornice.
Vorrei morire sotto i tuoi colpi
perché non riesco ad amarti come un soldato.
So che qui le parole non corrono
come in una grande città.
. Dal margine
è più semplice immaginare di andarsene (p. 206).
Il mare è la patria dell’io poetico, o meglio: tale dimensione patriottica viene evocata per essere subito negata, poiché chi parla rifugge dall’immaginario guerresco, non riesce ad amare “come un soldato” il proprio mare. L’io non sta lì a difendere la propria origine, anzi: essa è il luogo che spinge verso l’altrove: questo mare non è capace di produrre immagini di idilliaca nostalgia, il quadro si tinge di inquietudine e le navi, che si muovono lente su un mare presumibilmente sereno, anziché suscitare un senso di quiete, nascondono in sé l’immagine dei coltelli, di qualcosa che ferisce la carne nel profondo. E questo mare diventa la metafora dell’inconscio: l’origine è qualcosa che fonda la propria psiche, impone il suo linguaggio del desiderio, ma allo stesso tempo è qualcosa che deve essere tenuto a bada, da cui allontanarsi, per essere pienamente liberi, per non farsi “ferire” dalla promessa di placida quiete.
Il luogo di origine come forma della psiche è presente anche in Perozzi:
Stanze II
Radicati nella mia psiche sono i bracci delle gru
che asportano materiale, intagliano una fossa
qui dove una volta c’erano lamiere.
E se le nascite si riconoscono dagli strappi
(non avrei mai il coraggio di farmi aprire
con un taglio sull’addome) questa è una nascita:
i miei che dirigono gli operai, gli operai
dentro le ruspe che compattano il suolo,
i buchi con tubi gialli nel terreno,
le interiora del futuro. Casa mia
– l’unica che in testa chiamo così –
è arrivata da questo scavo, dalle turbe
della memoria. Negli anni a venire
dormirò dappertutto, ma le planimetrie
avversarie parleranno da sole
di scale che non trovo, voci di mia madre,
stanze in cui il mio scheletro è diviso (p. 312).
Se in Modeo il luogo d’origine spinge verso l’altrove, in Perozzi è un’assenza che produce mancanza. L’io poetico qui è in movimento, ma non riesce a trovare una sua definizione poiché non ritrova i punti fermi della casa natia. Se in Modeo l’origine è l’inizio di una precarietà che porta l’io, nel bene o nel male, ad aprirsi, in Perozzi l’origine è il luogo della certezza e allontanarsi da esso è l’inizio di una precarietà che è inequivocabilmente una caduta dell’io, che si frammenta fin nelle ossa.
In Ciaco il tema di questo paragrafo è trattato da una prospettiva rovesciata rispetto a quella degli altri autori. Qui non si guarda all’indietro, ma in avanti: è la vecchia generazione a ragionare sulla nuova:
Sta aspettando fuori dal bar, nell’attesa che la fila si sfoltisca e possa prendere il suo caffè. Una donna con un abito rosa confetto e metà viso tempestato di pailettes dorate osserva il figlio muovere avanti e indietro un tir in miniatura sull’asfalto. «Mi ha lasciata sola con lui, non mi paga più neppure gli alimenti». Mentre la donna parla con due uomini, il bambino corre verso l’aiuola situata al lato opposto del viale. La donna lo insegue urlando e lo afferra per una mano, lui ride e lei è sul punto di piangere, continua a parlare con i due uomini. Il suono della voce è attutito dalla barriera di pailettes e nonostante i toni concitati appare molto più calma. Si parla con gli occhi, è indispensabile adesso, e lancia impercettibili segnali di fumo dalle pupille che si confondono con quello della sigaretta lasciata da qualcuno a consumarsi. Adesso sarà tutto più luminoso, pensa A., è nata una nuova specie (p. 103).
La generazione matura è completamente inerme ed è definita da ciò che le manca: una stabilità economica e affettiva. La nuova generazione, incosciente, possiede la forza di correre, senza un particolare senso, senza voler raggiungere necessariamente una meta precisa. In questo correre la vecchia generazione trova la speranza: non per se stessa, ma per l’umano, anzi, per la vita in generale, che può proseguire in qualcosa di nuovo, che ancora non è possibile definire, una “nuova specie”.
Anime spirate
In quest’ultimo paragrafo non analizzerò poesie, ma cercherò di trarre una sintesi da quanto appena visto, al fine di delineare una sorta di ispirazione condivisa che attraversa le menti di questo Quaderno e, forse, di un’intera generazione, di cui anche io faccio parte.
Franco Buffoni afferma che la parola “disincanto”, che egli riprende dal titolo della sezione di Ciaco, può essere considerata quella che al meglio sintetizza l’intero Quaderno. Tuttavia, al contrario, qui si sostiene l’idea che tale termine, anziché illuminare, getti fumo su questi versi, rendendoli più ovattati, forse anche più morbidi, ma sicuramente non più chiari.
Se il disincanto è la peculiarità di queste poesie, allora questa caratteristica dovrebbe distinguerle da quanto scritto in passato. Ma allora, chiedo a tutti voi: quando la poesia italiana, soprattutto la novecentesca, è stata incantata?
A mio parere, da Leopardi in poi, la poesia italiana ha guardato oltre la siepe non per scorgere la magia, ma per osservare, come di fronte a un abisso, un Essere che si mostrava sempre più per quel che era: una pura indifferenza. Il Novecento, con le sue catastrofi tecnologiche, ha reso evidente come il pulsante dell’Apocalisse sia passato dalle mani di Dio a quelle degli uomini: due autori come Montale e Ungaretti hanno descritto tutto il mal-Essere derivante da questa condizione. E anche chi ha creduto nella realizzazione di un’utopia, come i Novissimi, non ha mai ceduto all’incanto, per poter osservare e descrivere l’Essere in maniera sempre più lucida.
Questi del Quaderno sono versi de-pressi.
Ecco: credo che il termine “de-presso” possa aiutarci a comprendere meglio quanto aleggi tra le poesie di questa generazione. Non lo uso in maniera clinica, bensì più sociologica, pensando principalmente agli studi di Hartmut Rosa: letteralmente, de-pressione indica uno stato che cerca di diminuire la pressione. In una società sempre più accelerata, che richiede agli individui di dare il massimo in ogni campo, la depressione non è semplicemente una malattia, ma un pericolo per il sostentamento del sistema stesso. Gli autori del Quaderno sono vittime dell’illusione neoliberale, della sua capacità “incantatoria”, è il caso di dirlo, di far credere che la storia sia finita e che questo, nonostante tutto, sia il migliore dei mondi possibili.
I poeti del Quaderno sono vittime disincantate della promessa di ricchezza degli anni Ottanta, un vero e proprio incantamento, nel senso più infingardo e truffaldino del termine.
Sì, è importante rimarcare questo aspetto: i poeti del Quaderno sono lucidi, ma sono vittime. E, come dice Giglioli nel suo testo dedicato al tema, la vittima non agisce, ma patisce. La si definisce solo attraverso ciò che subisce.
Gli io poetici che emergono dal Quaderno sono anime spirate. Contro l’io stressato, cioè ad altissima pressione, del contemporaneo contrappongono un io de-presso. Bisogna immaginare i loro corpi come bucati e in quel buco vedere uno sfiatatoio capace di decomprimere. Ebbene: loro non si posizionano nel corpo svuotato, ma in quell’aria che esce, che si pone intorno al proprio sé, abbandonando l’in sé. Si guardano nella loro depressione. Si studiano. Sono i-spirati dalla loro incapacità ad agire. Addirittura, in Perozzi, la poesia la si scrive nonostante non si sappia cosa dire:
Generico
Qualche volta esco di casa
alle nove. L’impegno che mi prendo
è di schiacciare il pensiero – qualunque pensiero
– sulla scorza interna del cranio, o dei neuroni, non so.
Così il bidone mi appare bello solido,
il cemento battuto, il giorno caldo.
Mi viene anche automatico
legare questa roba piatta all’universo
– come se l’universo fosse piatto, o schiacciato
le teorie, e oggi sono solo io
che mi trattengo.
Vorrei spiegare in che senso ma non posso (p. 295).
Ed è questo, tuttavia, il punto debole del Quaderno. Il lettore osserva ciò che resta di questi corpi de-pressi, però ormai, ancora con Perozzi, «niente è più traccia di niente» (p. 293). La macchina del simbolismo si è inceppata: la parola mostra, ma nulla più. Il mal-Essere di questo mondo deve attraversarci e queste poesie aumentano soltanto il grado di radioattività, per accelerare il processo di intossicazione e renderlo così più evidente. Più allarmante, forse più urgente. La mutazione antropologica di cui si sente il bisogno, l’ergersi di quella “nuova specie” evocata da Ciaco, non deve avvenire tramite una rivoluzione culturale, bensì tramite una mutazione di tipo carnale, proprio come accade nei romanzi di fantascienza a chi è sottoposto a un eccesso di radiazioni. E, a questo punto, trasformo il caso in un senso, studiando la poesia che conclude la raccolta, ma che si trova lì perché è sì il punto di chiusura della raccolta di Perozzi, ma lo è anche dell’intero libro per mere questioni di ordine alfabetico:
L’algoritmo ci ha lasciato in dono
gli stessi sogni, dalle sponde del letto
facciamo tutti gli stessi sogni:
l’inquadratura è sovraesposta, tagliata male,
e ognuno si riconosce in sé, e dappertutto,
si riconosce in ogni altro, è il centro del sogno.
Questi che vengono sono invece Evangelion,
armature che brillano alle scaglie del sole,
ma che sappiamo contenere umani in sintonia
con loro. Tali umani vorremmo essere noi –
ognuno lo sente in sé e nel sogno –
anime finalmente dotate di una struttura
in ferro. E allora quanto più si approssimano
alle nostre facce li guardiamo negli occhi robot
vedendo il completo al di là, siamo intrappolati
nel loro talento e dormendo preghiamo
che l’algoritmo stavolta si scordi di noi (p. 332).
L’umanità che questi versi paventano è un’umanità in totale simbiosi con la tecnologia. Un’umanità con un corpo non più fragile, ma capace di resistere in questo mondo o, addirittura, di assorbirne la potenza. Un’umanità che accelera se stessa: all’eccesso di pressione si risponde con un potenziamento della nostra struttura fisica. Una visione mostruosa, ma per questo ambigua: può essere sia un prodigio che un orrore.
L’operazione
Il focus di questa seconda parte è il paratesto del Quaderno. Vale la pena analizzarlo perché permette di comprendere quale immagine del poeta si voglia proporre al pubblico e, soprattutto, quale debba essere il suo posizionamento. Ho già preannunciato che questa parte avrà un taglio più polemico, qui ci tengo a dire che, però, non sarò affatto ironico, bensì estremamente serio. Questa immagine del poeta mi ri-guarda e, quindi, ciò che potrò dire sugli altri non è qualcosa che posso affrontare dall’esterno, con distacco, ma è qualcosa in cui io mi sento di essere invischiato.
Un Quaderno di professionisti
Le biografie dei diversi autori sono dei CV. Di Bordoni, Ciaco, Corbetta e Nagy si dice, fin da subito, che hanno conseguito o stanno per conseguire un dottorato. E si elencano i loro interessi di ricerca, con annesse pubblicazioni. Anche in Milleri e Modeo la prima informazione che compare dopo il nome è un “titolo”: il primo ha conseguito un diploma in chitarra classica, il secondo è un insegnante (mi incuriosisce molto il fatto che in un Quaderno di poeti, quindi di artisti, Milleri non sia stato presentato come “chitarrista”, ma come possessore di un titolo sulla chitarra). Colpisce, così, la biografia di Perozzi, ma per quello che non c’è: non si fa accenno ad alcun tipo di certificato, né di professione. A conclusione delle biografie, invece, spiccano le numerose collaborazioni con riviste o attività di stampo culturale. Ma sono elenchi, non si fa minimamente accenno alla natura di tali collaborazioni: si tratta di lavori militanti o accademici? Si è amanti dell’ordine o dell’avanguardia? L’importante è dire che si fa e anche tanto, ma non come.
Questi poeti sono dei professionisti della parola (d’altronde, lo stesso Buffoni, nella Premessa, parla di «call for papers», p. 7, l’espressione che si usa, in ambito accademico, per indicare un bando di selezione dei migliori articoli su un determinato tema, in vista di una pubblicazione). L’unica menzione di una dimensione esterna a quella dei letterati la si fa nella biografia di Corbetta: la poetessa collabora anche, ma non esclusivamente né principalmente, con un’azienda informatica. Non si parla di un loro posizionamento artistico, né di una dimensione passionale dell’esistenza: a spiccare è la competenza e, in alcuni casi, il sapere specialistico. Da questo punto di vista, è sintomatica la presenza, in ben tre autori (Bordoni, Milleri e Nagy) di note alla fine della raccolta, per spiegare il significato di alcuni termini. O perché si tratta di colti riferimenti storici (Bordoni) o di linguaggio tecnico, appartenente a campi che non riguardano direttamente quello delle belle lettere (Milleri e Nagy), al punto da scrivere un vero e proprio glossario. Non solo sono poesie scritte da specialisti, ma si rivolgono anche ad altri specialisti che, in quanto tali, devono essere aiutati a cogliere riferimenti oltre il proprio campo. Si potrebbe dire che ci troviamo di fronte a un postmoderno cortese: si strizza l’occhio al lettore, ma se questo non coglie, lo si aiuta con i sottotitoli. Oppure, un’altra interpretazione potrebbe andare in una direzione esattamente contraria alla precedente (discorso che, però, vale solo per Milleri e Nagy): vedendosi rinchiusi nel mondo dei letterati, i poeti sentono il bisogno di uscire, di essere sì degli specialisti, ma anche dei curiosi, che vanno a vedere cosa c’è oltre la soglia del proprio studio professionale. Ma lo fanno in maniera scolastica, con le note, come se si volesse mostrare di aver fatto bene i compiti.
L’esigenza di essere compresi spicca ancora di più, se si tiene conto che questo Quaderno viene pubblicato nel 2023, cioè in un momento in cui, almeno in Occidente, quasi la totalità delle persone possiede costantemente uno smartphone accanto a sé, con un collegamento internet. Anche il lettore a corto di vocabolario tecnico può, con un semplice comando vocale, trovare il significato della parola oscura. La necessità di un glossario è traccia di una certa debolezza poietica: in queste poesie non è presente un linguaggio che si carica di senso nella raccolta, poiché resta ancorato a quello dei vocabolari, alla realtà oltre i versi. Si tratta di autori che non creano un proprio mondo, ma subiscono quello in cui vivono: schiacciati da esso, spirano la propria voce compressa, mostrando in essa la costante traccia dell’oppressione, quindi del potere che li sovrasta. Una poesia distopica, nel senso di Karl Mannheim, in cui si mostra un io poetico che è parlato dal linguaggio della classe dominante.

Gerardo Iandoli
La mia biografia: Gerardo Iandoli (Avellino, 1990) si è laureato a Bologna e dottorato all'Università di Aix-Marseille, entrambe le volte in Italianistica. Si occupa di teoria letteraria e rappresentazioni della violenza nella letteratura, nel fumetto e nelle serialità televisiva italiana degli anni Duemila. Scrive per la rubrica UniversoPoesia di Strisciarossa. Ha pubblicato un libro di poesie, Arrevuoto (Oèdipus 2019).