Concerto per esuli e meduse ⥀ Sulla poesia di Minardi e De Falco
Le due nuove raccolte di poesia di Roberto Minardi, Concerto per l’inizio del secolo, e Carmine De Falco, Meduse di Dohrn, a confronto
Ci sono letture che si rincorrono continuamente, anche se la parentela tra i testi rimane, di fatto, piuttosto esile. Per quanto mi riguarda, questo è accaduto e continua ad accadere con due libri usciti l’anno scorso: Concerto per l’inizio del secolo (Arcipelago Itaca, 2020) di Roberto Minardi e Meduse di Dohrn (Bertoni, 2020) di Carmine De Falco.
La prima risonanza – con ogni probabilità, in mancanza di ulteriori approfondimenti, la più superficiale e banale – riguarda il luogo della scrittura, collocabile fuori dai confini italiani: Roberto Minardi, originario di Ragusa, vive ormai da tempo a Londra; Carmine De Falco si è trasferito, in anni più recenti, dalla Campania a Copenhagen. Entrambi hanno provato – senza per questo volersi autodefinire esplicitamente come esuli – «come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale»: le parole di Cacciaguida per Dante sembrano valere anche per i discendenti contemporanei di quella tradizione poetica, e in particolar modo per quel gusto dell’invettiva che talvolta si accompagna alla lingua salata. La terza strofa di quel Tema della fine che, ironicamente, è posto fra i testi di apertura del libro di Roberto Minardi recita, ad esempio: «Ci si aspettava l’avanguardia invece / gonfiamo il centro commerciale / nostro adultero Paese dei Balocchi / faremmo meglio a non pensare al figlio pinocchiesco / lucignolesco o peggio adorato dalle maestre» (Concerto, p. 19). Ed è su tonalità e a proposito di temi non troppo dissimili che nel libro di De Falco si legge di «un paese molesto, la sua inettitudine», in un testo che ribadisce la subalternità culturale del popolo – nuovamente, un po’ Pinocchio un po’ Lucignolo – che lo abita, sin da questo incipit metalinguistico:
«Bisognerebbe abolire l’avversativa, la sua pretesa di innocenza / Congiunzione preferita di un popolo subordinato, ma» (Meduse, p. 53).
La presa di distanza dall’Italia – nonché dai suoi circoli e circoletti culturali, spesso inconsapevoli, e non di rado con un pizzico di malafede, rispetto a ciò che viene pubblicato da autori italiani fuori dai confini nazionali – non è però una semplice conseguenza della distanza fisica, socio-culturale e politica, né tantomeno l’espressione di un risentimento piccolo-borghese o provinciale (che risulterebbe tanto più lineare, quanto più sterile rispetto alla situazione di invisibilità appena menzionata). Se Minardi e De Falco si ritrovano spesso a calcare la mano – ricorrendo talora a costruzioni bruscamente interrotte (sia sul piano sintattico che su quello ritmico-prosodico), talora a immagini piuttosto violente – ciò non si limita a riprodurre e anzi, spesso, trascende le dinamiche qui accennate per farsi esposizione, talora brutale, non tanto dell’io lirico quanto, più in generale, della parola poetica – passaggio fondamentale, tra l’altro, per evitare il più sterile confessionalismo.
Invettiva ed esposizione – attacco e ritirata, se si vuole – sono successivamente da calare in contesti stilistici e poetici ben più stratificati e complessi, che segnano l’effettiva distanza tra i testi di Minardi e quelli di De Falco: dove il Concerto per l’inizio del secolo si segnala per una partitura inizialmente musicale (costellata di testi intitolati come Temi, Anticipazioni e Contrappunti, conseguentemente numerati in serie) che sembra a un certo punto sfaldarsi nelle sommesse tonalità di una preghiera per poi tornare stentorea nell’epica conclusione intitolata Materia per aperture alari, De Falco sceglie una via che incrocia una voce chiaramente post-lirica con gli stilemi di certa poesia post-generica, ulteriormente articolata, tramite una serie di QR code, con un piano virtualizzato e navigabile in Rete che espande, o talvolta restringe ironicamente, l’orizzonte del testo. Inoltre, anche la lingua di De Falco è assai stratificata, includendo registri tecnico-specialistici, vari anglismi, ma anche una personale rielaborazione in chiave contemporanea del dialetto campano (si veda questo esempio di pastiche estremamente, quasi parossisticamente, ibridato: «Anytime I look into all’uocchie tuoje / A wrong vrangat / ‘E sentimiente e feelings / ‘O filo ca s’arrevoglia […] / Copenapole that doesnt exist…», Meduse, p. 46), nonché una predilezione per l’inciampo sintattico (ad esempio: «Tribù omologata per questo / Il popolo tende / Ignoranza. Sdoganare improvviso / Ciò che non sappiamo / Liberi i corpi di sguazzare», Meduse, p. 11).
In questa netta divaricazione tra gli stili, pare opportuno sottolineare come permangono, in entrambi i casi, chiari echi montaliani, per quanto opportunamente appropriati e rielaborati: se Minardi sembra effettuare una sorta di remix montaliano in una strofa di Tema della fine – «non dovremmo essere là, dove non siamo / riposare i pollici e gli indici sulla guancia / per valutare le vie di mezzo / ma ammutolire davanti alla burrasca, urlare / massacrati dagli schizzi della fanghiglia / non azzerare la foga / a colpi di famiglia, per mal di testa / per insufficienza di glorie» (Concerto, pp. 19-20) – De Falco intitola Sature la terza e conclusiva sezione del suo libro.
Inizialmente concordanti, ma in ultima analisi divergenti, sono anche le implicazioni politiche dei due testi: se la sofferenza animale che fa spesso capolino nei testi di Minardi rinvia alla bestialità umana ma apre anche, di converso, alla «fede per la vita come forza biologica che prefigura l’emancipazione sociale» delineata da Davide Castiglione nella sua puntuale prefazione al volume (Concerto, p. 8), le presenze animali nel testo di De Falco – sin dal titolo, che si riferisce all’unica specie, insieme alla medusa immortale, capace di regredire a uno stadio pre-sessuale, nel corso della sua vita – recano inquietanti segnali di crisi dell’Antropocene:
«Le formiche argentine hanno invaso da decenni l’Europa. Qualche / entomologo sostiene che ci sia un’unica grande colonia / imparentata che va dalla Liguria al Portogallo…» (Meduse, p. 80)
In termini più generali, entrambi i libri aprono uno squarcio su prospettive politiche più o meno nichiliste. A questo proposito, nella prefazione al libro di Minardi, Davide Castiglione istituisce un’opposizione piuttosto netta tra i prodromi di una epica emancipatoria, nel Concerto per l’inizio del secolo, e un libro «cupo e definitivo» (Concerto, p. 8) come La pura superficie (Donzelli, 2017) di Guido Mazzoni; su questa dicotomia, si è successivamente espresso, tra gli altri, Gabriele Del Sarto, in questo intervento per La Nuova Ciminiera, smussando l’apparente polarizzazione: dopo aver ripercorso il libro di Mazzoni (sul quale possiamo forse concordare un po’ di più con Castiglione che non con Del Sarto, in termini di tendenze generali), Del Sarto rileva comunque lo scarto che Minardi tenta di operare, rispetto ai territori della Pura superficie, sottolineando, molto giustamente, anche l’esibizione stessa dello scacco, nell’operazione minardiana:
Diversamente da Mazzoni (e qui sì, siamo agli antipodi) il poeta di Ragusa dedica molta energia a raccontare quello che Mazzoni ha volutamente lasciato al solo ultimo componimento (e in particolare all’ultimo verso) della sua raccolta. Minardi invece si sforza di dire tutto, agonisticamente cerca la luce, ammette l’esistenza mai banale di un lato soleggiato dell’esistenza. La sua, mi pare, è una vera lotta per poterlo contemplare, anche se talvolta si resta al di sotto della linea del confine con la rivelazione.
Linea di confine che diventa linea di galleggiamento oltre la quale non ci si può elevare nei versi finali del libro di De Falco: «Ed è sempre lì che torni il giorno che vuoi sentirti eterno / a rilasciarti spolpare e disossare, per fare il morto sereno sulle / onde…» (Meduse, p. 108).
Ed eccoci, insomma, pur nella problematicità e nella consistenza dialettica di queste immagini, a doverci confrontare, ancora e ancora, con il possibile esito a nero, e al tempo stesso sempre duplice e bifronte, di una poesia che nasce al di là dei confini, nell’apertura e nell’esposizione, e più precisamente, usando i versi di De Falco, dove «[n]on si può vivere il luogo che vogliamo / se la somma della sua desiderabilità / è data dalla distanza per la differenza» (Meduse, p. 57).
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da Roberto Minardi, Concerto per l’inizio del secolo:
Anticipazione n. 2
Doveva essere terra iberica e tutt’intorno pullulava una comunità di magrebini. Dai loro sguardi era come se ci prendessero in giro. Stranamente c’era il sole anche di notte e io non riuscivo a spiegare il fenomeno a mio figlio. Dovetti litigare con lui per impedirgli di entrare in mare, dove galleggiava diversa merce da vendere, in bella vista. Per sedare sia il pianto del bambino che il mio impaccio acquistai un cubo di metallo grezzo.
Motivo per una nuova vita n. 4
Le folate muovevano rami alti venti e più metri,
annunciavano l’inizio della gioia fino a potersi dire
che era rivoluzione e era solfeggiata ed era serio,
ma anche dimesso, il vento, e imprevedibile.
In vista l’albore di una grande avventura, un’epica, sì,
ma anche una condotta umile e se ascoltassimo,
potremmo sentire la canzoncina che aggrada i pensieri
dell’ausiliaria che sorride con la potenza del rossetto.
Uno dalla barba ispida lo condussero nella selva
dove li aiutò a resistere e le spine si conficcavano
e resistere è un’idea onorabile ma è anche fango.
E lì dove la testolina del figlio attende e fa pressione,
lì piange il papà e canta e vi apre le braccia, le tende,
vi vuole bene tutti, in una frazione, escluso taluni bastardi.
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da Carmine De Falco, Meduse di Dohrn:
È attraverso queste azioni di biohacking
che impari la superficie permeabile
delle tue dita che mi crescono.
Ma è molto inutile tutto ciò che non aggiunge
nulla se non un altro senso, un altro modo
di stimolare la stessa vecchia pelle d’oca.
Le formiche argentine hanno invaso da decenni l’Europa. Qualche
entomologo sostiene che ci sia un’unica grande colonia
imparentata che va dalla Liguria al Portogallo. E che questa sia in
lotta con una colonia rivale della stessa specie che si è insediata in
Catalogna. Dicono che la natura insegni sempre qualcosa.
I formicai della stessa colonia sono lontanissimi tra loro, e non sempre si somigliano.
Sparsa genia, che si moltiplica sulla terra. A una velocità impressionante.
E qualcosa di inspiegabile lega tutte a un vincolo di sangue che sembra ultraterreno.
Forse avranno un loro Dio,
un messaggio chimico indecifrabile da tramandarsi
fino all’estinzione, una parola chiave che si passano
silenziose da schiena a schiena.
Noi umani siamo molti di meno.

Lorenzo Mari
Lorenzo Mari vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali gli ultimi sono Querencia (Oèdipus, 2019) e la plaquette Tarsia/Coro (Zacinto, 2021). In prosa, ha pubblicato il racconto Via Mascarella alta e bassa (autoproduzioni Modo Infoshop, 2019) e ha ottenuto il XXXV Premio Teramo Giovani - Giacomo Debenedetti per il racconto Un percorso sicuro.
Traduce dallo spagnolo (Agustín García Calvo, Sonetti teologici, L'Arcolaio, 2019; César Vallejo, Trilce, Argolibri 2021) e dall'inglese (David Keenan, Memorial Device, Double Nickels, 2020, insieme a Matteo Camporesi).
Ha curato l'edizione italiana di ZURITA. Quattro poemi del poeta cileno Raúl Zurita (Valigie Rosse, 2020), nella traduzione di Alberto Masala.
Collabora con varie riviste online (Pulp Libri, Fata Morgana Web e Jacobin Italia).