La poesia è secondaria ⥀ Conversazione con Aleksandr Skidan
Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, un estratto dell’ebook La poesia è secondaria. Poesie scelte di Aleksandr Skidan, tradotto da Elisa Baglioni, pubblicato da Quodlibet nel 2022
Nuova poesia russa. Conversazione con Aleksandr Skidan
Vorrei cominciare la nostra conversazione sulla poesia volgendo lo sguardo al periodo sovietico. Ad un certo punto di quel passato la letteratura si è organizzata attorno a due poli, l’uno pubblico e ufficiale, l’altro privato e non ufficiale, il cosiddetto samizdat. Quali sono state, a tuo parere, le esperienze poetiche più significative di quell’epoca? Quale eredità hanno lasciato gli autori sovietici alle generazioni successive?
È una domanda molto difficile poiché considero sovietici nel senso più nobile del termine alcuni poeti come, ad esempio, Mandel’štam dell’ultimo periodo con i suoi Quaderni di Voronež o con il Poema sul milite ignoto; o Arsenij Tarkovskij, penso alla poesia Vita, vita declamata nel film Lo specchio del figlio Andrej, mentre scorrono le immagini dei soldati in marcia, «Non credo ai presentimenti, non temo / i presagi. Le calunnie e il veleno / io non fuggo. Al mondo non c’è morte. […] Il futuro si compie ora…». Per me quelle opere rappresentano la quintessenza di un certo modo di intendere il concetto di «sovietico». Non mi riferisco alla dimensione ufficiale, che dominava e distruggeva tutto ciò che era vivo, bensì alla tradizione universalistica e umanistica meta-sovietica, che intendeva abbracciare l’intera cultura mondiale. Sempre nello Specchio, c’è una sequenza che esemplifica quella tradizione, quando i bambini spagnoli repubblicani vengono tratti in salvo durante la Guerra civile e il montaggio li mette in relazione con il lancio di un pallone aerostatico, con il Cosmismo russo e il libro su Leonardo che sfoglia Ignat.
Arsenij Tarkovskij è ritenuto l’ultimo acmeista, l’ultimo rappresentante dell’età d’argento, ma quando tutto il risentimento verso ciò che chiamiamo sovietico sarà passato, tra dieci o quindici anni, in parte è già iniziato a defluire, lo valuteremo in modo diverso. Capiremo che quell’universalismo, quell’umanesimo sacrificale tipico della cultura sovietica è rappresentato innanzitutto da Mandel’štam, da Arsenij Tarkovskij, dall’ultimo Pasternak. Le poesie di Živago, ad esempio, sono molto sovietiche in quanto mettono insieme un sentimento religioso laico, in altri termini il secolarismo, e lo spirito di sacrificio alla base dell’ideologia sovietica.
Durante l’infanzia e l’adolescenza, ho amato le poesie del primo Evtušenko e di Voznesenskij, ora le reputo poesie mediocri. Bulat Okudžava, ad esempio, nella sua ipostasi di poeta e di bardo è molto sovietico, anche lui esprime una sorta di quintessenza sovietica, quella stupenda, commovente dell’intelligentnost’.
Abbiamo a che fare con un paradosso quando cerchiamo di definire cosa sia sovietico, poiché viviamo ancora in un periodo nel quale non abbiamo acquisito tutti gli strumenti analitici o la dovuta distanza per poter lavorare su certi concetti.
Parlando invece dei poeti che hanno dato vita al circuito parallelo e indipendente di diffusione della letteratura negli anni Sessanta e Settanta per eludere la censura, quali hanno maggiormente influenzato le generazioni successive?
Diverse tradizioni poetiche si sono sviluppate e hanno influito sulle generazioni successive. Volendole descrivere in modo sintetico, potremmo raggrupparle intorno a tre figure principali, che hanno costituito i poli di attrazione soprattutto per lo sviluppo del verso libero, Vsevolod Nekrasov, Gennadij Ajgi, Arkadij Dragomoščenko. Questi poeti rappresentano tre alternative, tre diversi tipi di versi, potremmo persino dire tre sistemi versificatori. La poetica di Nekrasov nasce dall’oralità e si caratterizza per un verso ritmicamente formalizzato, ricco di allitterazioni e ripetizioni, ma irregolare dal punto di vista metrico. La parola è mormorata, la poesia rimanda a situazioni comunicative concrete, al «qui e ora», e si chiede al lettore di ricostruire il contesto. Il testo è costruito in un modo paradossale per cui, sebbene si tratti di scrittura, è rivolto alla dimensione orale ed è come se tra le righe potessimo cogliere una conversazione. La poesia di Nekrasov è un fenomeno unico nella poesia mondiale, a mio parere, e ancor più in quella russa. Tra l’altro, Nekrasov stimava autori sovietici come Boris Sluckij e Bulat Okudžava, e il suo conflitto con i poeti concettualisti derivava, tra le altre cose, dal loro rifiuto della poesia sovietica. Per i concettualisti «sovietico» voleva dire editoria ufficiale, dunque dilettantismo, inefficienza e corruzione. Nekrasov era diverso, era una persona interiormente aperta e democratica e aveva sempre nutrito interesse per un certo pathos sovietico. Per lo stesso motivo apprezzava i cosiddetti poeti di guerra.
Gennadij Ajgi, originario della Repubblica dei Ciuvasci, si situa al confine tra la tradizione orale e i canti popolari ciuvasci, la semplicità dell’ultimo Pasternak e l’avanguardia europea. Per molti poeti orientati alle forme classiche, perfino per alcuni poeti non ufficiali, quella di Ajgi è una poesia non-sense, brutta o perfino non poesia.
Arkadij Dragomoščenko, partendo dal barocco ucraino, dagli Inni di Hölderlin e dalle Elegie duinesi di Rilke elabora un verso libero ritmicamente ricco, non esattamente narrativo, poiché la tessitura musicale è complessa e carica al suo interno di riferimenti filosofici a Wittgenstein, Derrida, Kristeva, Platone. Potremmo fuggire su un’isola deserta con una sua poesia e a partire da quella ricostruire la civiltà mondiale defunta, poiché è tutto concentrato lì. Allo stesso modo, a partire dalle poesie di Nekrasov potremmo ricostruire la civiltà sovietica, fatta di censura interiore e di silenzi, di quello che può e non può essere detto in base alla persona con cui parliamo. Attraverso Ajgi ricostruiamo una metafisica del mondo postbellico delle avanguardie. Come Stochausen compone una musica del dopo Auschwitz, così Ajgi, dopo Celan, dopo Stochausen, cerca di tornare al canto. Sono tre fari alternativi per le giovani generazioni, ma ciò non vuol dire che poeti più tradizionali come Viktor Sosnora e Elena Švarc o Michail Ajzenberg perdano il loro significato. Loro rappresentano un’altra linea, un’altra arteria, perfino un diverso campo poetico, uno dei tanti.
Una peculiarità della poesia russa rispetto a quella occidentale è stata la persistenza delle forme tradizionali. I poeti russi dell’epoca sovietica continuano a frequentare le forme chiuse, trovano questa una tradizione ancora viva. Quali fattori secondo te hanno determinato una persistenza delle forme tradizionali, a differenza di quanto è avvenuto in Europa con l’introduzione del verso libero?
Nella tradizione americana ed europea la frattura si realizza all’inizio del Novecento, ma andrebbe vista come l’esito di un fenomeno inaugurato in primis da Rimbaud e da Lautréamont in Francia da un lato, e dall’altro dall’americano Whitman. È un discorso articolato, perché spesso quello che viene chiamato acriticamente verso libero prende a modello il verso biblico e la metrica classica, ovvero una forma piuttosto complessa. Non erano metri regolari per come li intendiamo noi oggi, ma avevano comunque un ritmo, come spesso avviene oggi nella poesia americana ed europea. Inoltre la frattura non si lega unicamente a questioni di poetica, bensì a istanze di carattere culturale più generali. Le società stavano approdando a una nuova fase culturale e industriale, i supporti della mnemotecnica cominciavano a soppiantare la mnemotecnica umana nella vita quotidiana grazie agli apparati che consentivano di immagazzinare le informazioni: inizialmente il grammofono, poi la radio, la televisione, il registratore. A ciò si è aggiunto l’abbassamento dei prezzi di stampa dei libri, che prima dell’epoca modernista erano rimasti tutto sommato uno strumento aristocratico, accessibile solo a una parte della popolazione. Quando si riuscì a ridurre il costo della stampa e la tecnica di riproduzione su carta si diffuse su larga scala, la tradizione orale, insieme alla necessità di imparare a memoria alcuni testi fondativi, venne meno. La Russia, a causa di una situazione storica legata alla tardiva modernizzazione, fu investita da questo processo con grande ritardo. Inoltre in quegli stessi anni il paese dovette affrontare le devastazioni causate dalla Prima guerra mondiale, dalla Rivoluzione e dai cinque anni di Guerra civile. Il primo compito che si posero i bolscevichi fu quello di alfabetizzare la popolazione. Non sto parlando di istruzione universitaria o specialistica, o superiore, ma del fatto che milioni di persone, escluse da un grado di alfabetizzazione elementare, dovettero semplicemente imparare a leggere e a scrivere. In questa situazione la mnemotecnica e la tradizione orale hanno svolto un ruolo fondamentale, non solo culturale ma anche politico.
Dall’altro lato la censura ideologica aveva costretto le persone a memorizzare un certo numero di testi importanti, poiché, oltre ai canali ufficiali di circolazione del testo, servivano strumenti alternativi di diffusione delle opere. Così la memorizzazione, il battere a macchina o la trascrizione a mano vennero in soccorso della letteratura non ufficiale. Le persone memorizzavano un numero incredibile di testi. Nei lager sovietici, ad esempio, i detenuti, in particolare chi aveva una formazione umanistica o aveva svolto un lavoro intellettuale, non sarebbero forse sopravvissuti se nelle loro menti non avessero risuonato i versi dei poeti amati, che davano loro la forza di andare avanti.
Un’altra ragione della permanenza del verso tradizionale risiede probabilmente nel metodo di istruzione di base sovietico, che prevedeva la memorizzazione di un enorme numero di testi. Dovevamo imparare a memoria tutti gli autori presenti nei programmi scolastici, Deržavin, Puškin, Tjučev, Nikolaj Nekrasov, Blok. Io stesso ricordo di esserci passato. Ad esempio, per potermi iscrivere alla scuola inglese ed essere ammesso alla prima elementare avevo dovuto sostenere un esame preliminare; non che la scuola fosse particolarmente elitaria, ma richiedeva requisiti un po’ superiori alla norma. Prima di cominciare la scuola avevo già imparato, con l’aiuto dei miei genitori, i poemi Ruslan e Ljudmila di Puškin e Borodino di Lermontov, il poema Gelo, naso rosso [Moroz, krasnyj nos] di Nikolaj Nekrasov e altre cose, che ancora oggi ricordo. Ma con la Perestrojka, con la scomparsa della censura ideologica e con il fatto che gli apparati di riproduzione, questa sorta di protesi tecniche, si sono riversati sul mercato, è avvenuta una svalutazione di quelle conoscenze e di quella tradizione. Il colpo decisivo è stato sferzato da internet, da wikipedia e dalle enormi risorse elettroniche a nostra disposizione. Digiti una parola sul motore di ricerca e in un attimo compare tutto il corpus di poesie di Mandel’štam o di Brodskij. Che senso può avere memorizzarle?
Per questo credo che siamo di fronte a una frattura generazionale. La mia generazione, nonostante la diffusione di internet, considera il bagaglio di testi a memoria una parte importante della cultura quotidiana delle relazioni. Citare versi di poeti conosciuti è ancora parte del codice comunicativo per noi.
E questo ha determinato un cambiamento in direzione del verso libero…
Se osserviamo la tendenza delle generazioni più giovani, ovvero dei nati tra la metà degli anni Ottanta e gli anni Novanta, il numero di coloro che scrivono in versi regolari, rimati, si riduce in favore di coloro che scrivono in versi liberi, o quantomeno che adottano entrambe le possibilità. Per la mia generazione e le precedenti la proporzione era completamente diversa, il verso libero era un’eccezione.
Tornando alle ragioni che individui per spiegare la permanenza del verso regolare in terra russa, è interessante osservare come tu istituisca un legame indissolubile tra la ricerca poetica e il supporto preposto a contenerla e diffonderla, mettendo in luce l’influenza che il progresso e la tecnica hanno sulla poesia e la capacità della poesia di registrare i cambiamenti sociali e antropologici che ne derivano.
Certo, in primo luogo parto dal platonismo, dall’idea della memoria dell’anima. Platone criticava la scrittura, da quali posizioni? Dall’idea che il dispositivo tecnico avrebbe distrutto la memoria dell’anima. E la scrittura è stata effettivamente il primo simulacro o, come lo chiama Derrida, pharmacon, a un tempo veleno e medicamento, salvezza. Da un lato aiuta a ricordare, dall’altro distrugge la capacità della memoria di ricordare e riprodurre. Allo stesso modo altre invenzioni della tecnica uccidono certe capacità psichiche e, in un certo senso, le stimolano. C’è un’ambivalenza, ma nel complesso, osservando le generazioni più giovani, mi rendo conto che l’uso di internet rende superfluo lo studio dei testi a memoria.
Ricordo che nel periodo tardo-sovietico un enorme valore simbolico, da cui dipendeva il prestigio sociale stesso, veniva attribuito alla conoscenza enciclopedica, alla capacità di parlare attraverso citazioni. Adesso invece risulta una maniera antiquata, a tratti elitaria. Ho molti amici, poco più giovani o vecchi di me, che conoscono a memoria l’intera opera poetica di Brodskij. In epoca sovietica non era possibile avvicinarsi alle sue opere in altro modo se non imparandole a memoria, i suoi libri erano proibiti e leggerli voleva dire andare incontro a grandi guai. Ora tutto è accessibile.
Ho tirato in ballo alcuni aspetti sociologici della questione, ma mi sembra che i loro effetti siano fondamentali, poiché la loro influenza modifica la percezione che noi abbiamo del passato e del canone culturale. Oggi la distanza con il passato viene annullata in un click e questa accessibilità immediata disintegra l’aura e l’ossequio nei confronti dei classici. Il cambiamento che ha investito la struttura di percezione del mondo, del testo e della cultura si rivela nella poesia più che in altri ambiti, poiché la poesia è da sempre il primo territorio nel quale si ricerca una nuova lingua e si sperimentano nuovi codici culturali, politici e sociali. Vediamo, ad esempio, come l’adozione del verso libero, oggi, abbia a che fare con l’amore per la libertà in reazione al carattere repressivo e obbligatorio che legava il verso regolare all’apparato ideologico dello Stato sovietico. E allo stesso tempo, a uno stadio dialettico successivo possiamo affermare che un qualche impulso alla libertà e all’indipendenza è presente anche nel fatto che non dimentichiamo il verso regolare poiché in esso, come nella celebre ampolla sigillata di Duchamp, L’aria di Parigi, è sigillata un’aria di libertà. In un certo periodo storico la forma chiusa ha limitato e ha sottratto qualcosa ma allo stesso tempo ha offerto la possibilità di agganciarsi a una tradizione. Ora ci colleghiamo a una supposta tradizione globale, ma perdiamo qualcosa di importante.
Parli di liberazione della poesia dalle strutture ideologiche nel caso del passaggio dal verso regolare al verso libero, ma la liberazione è un processo in continuo divenire e un alternarsi di movimenti di deterritorializzazione e riterritorializzazione, direbbe Deleuze. Quale fase stiamo attraversando ora? C’è un’ambivalenza nella nostra presunta libertà.
In un certo senso sì. Ora c’è una nuova ideologia, quella del capitalismo e del consumo, che tendiamo a considerare come non-ideologia, ma in realtà lo è a livello di pratiche quotidiane e di habitus. Se è vero che ci liberiamo dalle forme rigide, è anche vero che inneschiamo un processo di mimetismo in relazione a quella libera e democratica “scelta”, la cultura come supermercato, nella quale scegliamo forme già pronte. Parlare di passaggio dall’ideologia alla libertà pura è ingenuo e falso. Da una libertà limitata approdiamo a un’altra libertà non meno limitata, o addirittura più della precedente. Se non restringiamo il discorso alla poesia, ma lo allarghiamo alla letteratura e alla cultura, io non so cosa sia più repressiva, la censura ideologica o la censura cosiddetta del libero mercato, all’interno del quale il commercio e il profitto dettano le nostre scelte esistenziali. Non sono sicuro che sia migliore. Mi sembra che qui la scelta sia tra due mali e individuare il minore è difficile, non c’è molto da scegliere.
Hai parlato di censura ideologica e di censura del libero mercato, mi viene in mente che il modo per contrastare la prima sia stata la creazione di una letteratura del sottosuolo, la letteratura del samizdat. Si può parlare dell’esistenza di una letteratura podpol’naja (del sottosuolo) oggi in relazione alla censura del libero mercato?
Non si può parlare di podpol’naja letteratura oggi, sarebbe un’affermazione troppo forte, ma di una letteratura sperimentale e marginale sì. Marginale lo è per definizione, a causa della debolezza delle istituzioni che la sorreggono, della politica dei mass media in genere e dei canali d’informazione statali che, come napalm, incendiano tutto ciò che è sperimentale, problematizza e muove il pensiero. Aleksandr Il’janen, ad esempio, un autore che propone una scrittura di ricerca, è pubblicato dalla piccola casa editrice «Kolonna publications – Mitin Žurnal», poiché altre case editrici non lo pubblicherebbero. È una fortuna che una tale letteratura e poesia esistano. Il discorso non riguarda solo l’organizzazione del mercato librario, ma quello che Adorno aveva chiamato industria culturale. Non è solo il formato commerciale, la televisione, lo show-business a rappresentare il problema, c’è qualcosa di più profondo. La cultura dell’intrattenimento è inserita all’interno degli apparati ideologici di Stato, ovvero all’interno delle strutture nelle quali si forma e si riproduce la nostra soggettività, costituita di abitudini, passioni, predilezioni per un certo tipo di letteratura, di cinema e di arte. La soggettività, in altre parole, si modella sui prodotti offerti dall’industria culturale. Oggi è in primo luogo costituita dallo show-business, dal cinema hollywoodiano, dalle serie TV e in generale dall’industria Netflix. Il problema è come resistere e come opporsi. La poesia e la letteratura sperimentali sono una sorta di squadre volanti partigiane, a mio avviso, disorganizzate ma capaci di compiere incursioni negli avamposti dell’ideologia dominante. Le squadre partigiane si nascondono nei boschi, non vivono una vita parallela nel sottosuolo, di tanto in tanto escono allo scoperto per poi scomparire. L’unico modo per renderle unità di guerriglia regolari [sorride al paragone] è fondare nuove istituzioni, nuovi premi, nuove case editrici, associazioni letterarie, centri internazionali di poesia, oppure tradursi, organizzare seminari e promuovere un altro tipo di letteratura.
Il premio Arkadij Dragomoščenko, istituito nel 2014, si occupa di questo. È un premio di poesia rivolto ai giovani fino ai 27 anni, che intende individuare le nuove direzioni e pratiche della poesia contemporanea. Nel periodo in cui ho preso parte alla giuria ho potuto osservare alcune tendenze.
Oggi la zona più calda del discorso è legata alla sessualità e alle identità sospese e problematizzate. Nella poesia dei giovani la presenza di questi temi è evidente, ma anche la politica è orientata verso il genere.
Com’è affrontata la questione della soggettività dai giovani poeti? Da un punto di vista collettivo e politico o intimista e personale?
Dipende dai poeti. È interessante l’esempio di Alexandra Petrova, una delle prime nella poesia russa a far scomparire la marcatura di genere a livello grammaticale. Oggi ci sono poeti che si posizionano come eterosessuali ma scrivono poesie adottando un’identità omosessuale. Per loro è un gesto politico, un gesto di solidarietà verso gli oppressi e i perseguitati, poiché dopo la legge del 2013 sulla propaganda gay, gli omosessuali e gli attivisti LGBT sono diventati lo strato sociale più stigmatizzato e vulnerabile.
Esistono molte realtà che si oppongono al sistema dominante e portano avanti un discorso politico di protesta, ma queste realtà sono frammentarie e scisse al loro interno da tante contraddizioni. È dall’inizio degli anni Duemila che io e gli amici appartenenti alla sinistra anti-autoritaria ci scontriamo con queste contraddizioni. Ora capisco che nelle condizioni di un regime statale molto repressivo come il nostro, che perseguita ogni forma di dissenso, la cosa più importante sia mostrare solidarietà, per questo occupo una posizione di compromesso, l’esperienza mi ha portato a pensarla così. I giovani, invece, sono molto più radicali e intransigenti, e lo stesso atteggiamento, tra l’altro, lo manifestano sul piano poetico, che è ugualmente frammentato, smembrato e contraddittorio. Poche figure, come ad esempio Danila Davydov, occupano una posizione di compromesso e tentano di vedere l’uno e l’altro, di apprezzare sia i poeti tradizionali che quelli radicali. E tornando alla funzione della forma metrica rigida, la questione è molto ambivalente, ma non si può fare a meno del discorso sull’ideologia, se si affronta il discorso sulla forma.
Il filosofo italiano Giorgio Agamben, ad esempio, adotta un punto di vista molto profondo. È contenuto nel libro Il tempo che resta, pubblicato nel 2000, un commento alla Lettera ai Romani dell’apostolo Paolo. C’è un capitolo dedicato alla rima, nel quale ricostruisce il testo greco di Paolo e mostra come sia organizzato secondo un principio poetico, individuando i parallelismi, il tessuto non solo ritmico ma anche sonoro, attingendo a Jakobson, ma non è questo su cui voglio soffermarmi. Agamben mostra che la rima in Europa scompare per la prima volta nel tardo Hölderlin, contestualmente alla riflessione di Hölderlin sul congedo degli dèi. La poesia in passato ha rappresentato il congegno teologico della soteriologia, della salvezza, modello dell’epoca messianica. La poesia è stata da sempre una macchina con un inizio e una fine, anche per le forme lunghe esiste un ultimo verso, e si sa fin dall’inizio che a un certo punto ci troveremo di fronte a un’inevitabile conclusione. Ogni poesia tende verso la propria fine, ha la sua escatologia. Nel verso libero quella macchina smette di funzionare. È una modalità di ragionamento fondamentale, non sempre applicabile alla tradizione russa, poiché in essa è da sempre presente una potente coscienza millenaristica, che attende un salvatore, ma se parliamo della tradizione europea è un’osservazione acuta, come molte altre riflessioni di Agamben dedicate alla poesia. La fine del poema contiene alcuni saggi illuminati su Dante. Agamben mi colpisce per la straordinaria conoscenza della scolastica medievale e della poesia, della filosofia antica e contemporanea, di Foucault, Heidegger e Benjamin, di Abi Warburg…
In generale la filosofia italiana, il post-operaismo hanno un ruolo rilevante nel dibattito contemporaneo russo. Alexandra Petrova ha tradotto La grammatica del molteplice di Paolo Virno, io stesso ho tradotto un saggio di Paolo Virno sul neofascimo per un opuscolo antifascista che progettammo di pubblicare circa quindici anni fa. Mi sono fatto aiutare da Alexandra perché non conosco l’italiano. Ho anche lavorato su un testo di Maurizio Lazzarato.
Passando alla tua pratica poetica, come ti misuri con la forma metrica, quali principi compositivi ti guidano e quali sono i tuoi modelli?
Nella mia pratica poetica preferisco adottare forme ibride di verso, o polimorfiche, come le definiscono i critici, combinando verso libero e regolare in un unico componimento. Mi piacciono le grandi composizioni, poiché mi permettono di variare tra diverse forme compositive. La mia operazione deve molto alla radicale rottura compiuta dagli Oberiuty, in primo luogo da Aleksandr Vvedenskij, ma anche da Daniil Charms. Nella metà degli anni Venti gli Oberiuty approdarono alla forma drammatica, introducendo personaggi concettuali prima dei concettualisti e di Beckett. I loro testi poetici accolgono una pluralità di voci e allontanano da sé la posizione monologica soggettiva a cui siamo abituati, la lirica non è più espressione di forze, desideri, pensieri soggettivi e così via. Si forma un quadro più oggettivo e distanziato, un conglomerato, una polifonia di punti di vista, come ha sostenuto Bachtin per la prosa di Dostoevskij, quando ogni personaggio ha la propria voce e la propria posizione. Sono stati gli Oberiuty per la prima volta a compiere questa svolta e a realizzare il passaggio da una lirica soggettiva a una oggettiva e drammatica in Russia. Nelle loro opere si mescola prosa, teatro, verso libero e verso regolare classico. Li considero il vertice della poesia russa da un punto di vista formale. Be’, certo, il terreno per una simile svolta era stato preparato dalla rivoluzione di Chlebnikov, che nei grandi poemi già praticava la poliritmia e adottava tipi polimorfici di versi. Anche Sinfonia di Andrej Belyj è un esempio di prosa ritmica, i suoi romanzi sono costruiti secondo un principio poetico con assonanze, allitterazioni e rime interne. In realtà la tradizione russa è piuttosto ricca e aperta e, tuttavia, ha dominato la tradizione del verso regolare poiché effettivamente recava, per dirla in modo schiettamente politico, quel potenziale di mobilitazione ideologica di cui abbiamo parlato.
Lo spostamento verso il rosso è il titolo di un tuo testo poetico ed è anche il titolo dell’intera raccolta. È un termine della fisica che usi per descrivere un mutamento personale e storico-culturale in atto, un cambiamento di paradigmi. Cos’è lo spostamento verso il rosso, verso dove ci stiamo spostando?
Dando come titolo Lo spostamento verso il rosso a un mio componimento del 2002 e poi all’intero libro facevo riferimento sia allo spostamento verso il rosso cosmologico per effetto dell’espansione dell’universo, che alla “svolta a sinistra” nella mia visione politica agli inizi degli anni Duemila. Forse il contesto biografico è ancora più importante: nel 2002 ho lasciato il lavoro di caldaista, che avevo svolto per 17 anni, e sono entrato stabilmente a far parte della redazione della rivista «Krasnyj» [Rosso]. Era una rivista patinata pietroburghese per intellettuali, per la quale curavo la pagina dedicata ai libri scrivendo articoli sulle novità editoriali, sui premi letterari etc… La rivista ha chiuso nel 2005. L’epiteto krasnyj rimanda politicamente agli anni rossi della Guerra civile, ma è anche una parola del russo antico che significa «bello». Ho poi pensato al Poema sul milite ignoto di Mandel’štam che contiene i seguenti versi:
Chiarore di frassino, vista lunga d’acero montano
di un rosso lieve si affrettano verso casa,
come se ammucchiassero cataste di deliquio
su entrambi i cieli col loro fuoco scialbo.
Nell’interpretare questa quartina si è spesso fatto riferimento all’effetto Doppler, ovvero, ancora una volta, troviamo un rimando all’espansione dell’universo. Insomma, un groviglio di significati. Nel complesso, Lo spostamento verso il rosso è in larga parte costruito sul contrasto tra il metalinguaggio scientifico e il linguaggio colloquiale, letterario (poetico) e dei nuovi media. È un collage di diversi tipi di discorso, o, come direbbe Bachtin, di generi del discorso. Inoltre il collage è una miccia permeata di antagonismo, il riflesso del mutamento culturale e storico-politico a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila e il nuovo tecno-ambiente urbano creatosi nelle megalopoli. Attraverso il contrasto tra diversi discorsi, la polifonia, «la guerra dei linguaggi» ho tentato di restituire «l’universo in espansione» dell’esperienza contemporanea, il catastrofico, se vogliamo, abisso di Pascal (Baudelaire). Forse, una formulazione più precisa l’ho fornita nel breve saggio-manifesto dal titolo Verbale di poetica negativa.
* Di Elisa Baglioni, si veda anche l’articolo su Sergej Gandlevskij pubblicato in occasione dell’incontro con il poeta ucraino Boris Chersonskij nella cornice del Festival La Punta della Lingua 2022 (qui).