Sulle poetesse italiane del Trecento (con un saggio di commento) ⥀ Matteo Veronesi

Giovedì 6 marzo 2025 Franca Mancinelli e Valerio Cuccaroni presenteranno presso la Fondazione I Lincei per la Scuola a Trieste, insieme alle poetesse Mariangela Gualtieri e Antonella Anedda, il libro Tacete, o maschi. Le poetesse marchigiane del ‘300, edito da Argolibri (qui il link per chi volesse collegarsi al corso). Pubblichiamo in quest’occasione un saggio di Matteo Veronesi (qui la sua pagina) sulle poetesse italiane del Trecento, a dimostrazione dell’autenticità della loro testimonianza

 

«Me ne dispiace per il bel sesso: ma di cotesta nidiatella di gentildonne poetesse non c’è memoria veruna del secolo XIV o del seguente, non c’è vestigio nei codici»; «tutti quei puliti sonetti» non sarebbero dunque che «un bel pasticcio di un cinquecentista».
Così, con il suo caratteristico, fermo e brusco piglio polemico, Carducci liquidava, nella sua edizione delle Rime di Petrarca, del 1876, la questione delle poetesse marchigiane del Trecento; le quali pure erano riemerse dall’oblio in un’opera autorevole (elogiata dal Possevino nella sua Bibliotheca selecta, e sovente citata dagli studiosi dell’età controriformistica) come la Topica poetica di Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, del 1580, e avevano attratto l’interesse di un erudito di prima grandezza come Gilles Ménages, cui certo non mancava il discernimento critico, nei suoi Miscellanea; per ricomparire nel Petrarcha redivivus di Giacomo Filippo Tomasini, che citava, come custode dei preziosi manoscritti, una fonte autorevole quale Torquato Perotti, e poi, parzialmente e fugacemente, nel 1816, tra i Vestigi della storia del sonetto italiano ripercorse da Foscolo.
Quest’ultimo, è interessante notare, indicava la forma tronca «ir» come inusitata nel Trecento, e indizio di una lingua e di uno stile più moderni. «V’è certa lindura che pare posteriore a quella età: – ir troncatura d’ire, com’è nel verso ottavo, dicesi anche oggi in poesia invece di andare»1.
Foscolo avrà avuto nell’orecchio il «per diversa gente ir fuggitivo» dei Sepolcri; e già delineava uno dei principali e ricorrenti argomenti contro l’autenticità, ossia quello del presunto anacronismo linguistico e stilistico.
Sennonché sfuggiva perfino ad un così profondo conoscitore della Comedìa che la forma tronca «ir» è già dantesca (Purg. VII, 42: «per quanto ir posso, a guida mi t’accosto»; Purg. XX, 119: «secondo l’affezion ch’ad ir ci sprona»). Illustri sviste come questa dovrebbero indurre alla cautela chiunque invochi presunti anacronismi formali e linguistici come prova di falsità.
Parebbe peraltro, tornando al Gilio, singolare che una diabolica falsificazione, da picaresco, barocco e beffardo ingegno erudito, trovasse spazio in un’opera limpida, rigorosa ed articolata come la Topica poetica, in cui la logica aristotelica e la retorica ciceroniana si fondono per dar luogo ad una pacata, a tratti quasi pedantesca sistematicità di classificazione degli strumenti espressivi (specie sul piano delle figure di pensiero) del discorso poetico; un’opera in cui, fin dal proemio, si raccomanda che il poeta temperi il furor dell’ispirazione con il raziocinio classificatorio dei topoi retorici; senza però ch’egli, «mentre attende al genere, e a le figure, perda quel calor poetico, che fa bella l’opera, onde riuscisse in mostro»; ma facendo sì, d’altro canto, ch’egli padroneggi la «poetica scienza» così da «saper rendere ragione de le cause, de gli effetti, e d’altre particolarità». Del resto, la Topica poetica è considerata testimone attendibile, e prezioso, ad esempio, per il sonetto di corrispondenza Messer Francesco, con Amor sovente, oggi attribuito a Geri Gianfigliazzi.
A proposito, ancora, di presunti anacronismi stilistici, si è osservato che il cerebrale artificio delle due sole parole-rima insistentemente reiterate farebbe pensare ad un manierista del secondo Cinquecento, più che ad una mano trecentesca.
Eppure, esso fu già attuato, estesamente, nientemeno che da Dante in Amor, tu vedi ben che questa donna, e da lui teorizzato in De vulgari eloquentia, II, XIII, 12 («aequivocatio, quae semper sententiae quicquam derogare videtur»); e, nel sonetto, dallo stesso Petrarca (Canzoniere, XVIII: «Quand’io son tutto vòlto in quella parte / ove ’l bel viso di madonna luce, / et m’è rimasa nel pensier la luce / che m’arde et strugge dentro a parte a parte»).
Al sonetto lo applicò inoltre, nel secondo Trecento, perlomeno Cino Rinuccini («Io porto scritto con lettere d’oro, / Nella mia mente delle donne donna, / Il perché d’esser servo a cotal donna / Assai m’è caro, più che tutto l’oro. / Quando i biondi capelli in lucent’oro / Veggio annodati da man di tal donna, / Lieto ardo tutto per biltà di donna, / E più m’affino che nel foco l’oro»); che fu, per inciso, con il suo perpetuo inanellarsi, nella visione come nel lessico, di oro argento gioie smeraldi gemme corone, e con la sua variegata contaminazione di Stilnovo Dante Petrarca, un manierista ante litteram (o forse un “manierista” nell’accezione metastorica che al termine dava Gustav René Hocke).
Né regge l’argomento carducciano, anch’esso spesso riaffiorante, della mancanza di una tradizione manoscritta antica, e della prima apparizione di queste autrici in una stampa cinquecentesca. Vale lo stesso per Dante da Maiano (e, appunto in materia di poesia femminile del Medioevo, della sua corrispondente Nina, siciliana o meno), i cui versi non compaiono prima dell’edizione Giuntina (Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani in dieci libri raccolte), del 1527, ma della cui storicità ed autenticità (diversamente, va detto, da ciò che accade per Monna Nina) oggi nessuno più dubita, e al quale si è anzi autorevolmente proposto addirittura di attribuire (anziché all’Alighieri) il Fiore.
Del resto, per non fare che un esempio, neppure la canzone di Stefano Protonotaro (anch’egli figura evanescente nei tratti biografici) Pir meu cori alligrari (che ha anche, com’è noto, la singolare peculiarità di essere l’unico testo della Scuola siciliana ad aver mantenuto la veste linguistica originaria, restando immune da toscanizzazioni) compare prima del pieno Cinquecento, sotto la penna di Giovanni Maria Barbieri nell’Arte di rimare conservata all’Archiginnasio.
Federico Condello, in un saggio fin troppo minuzioso volto a negare nuovamente l’autenticità delle poetesse marchigiane2 (riedite, in dialogo con la poesia femminile odierna, nel 2020 da Argolibri, nel volume, graficamente splendido, Tacete, o maschi. Le poetesse marchigiane del Trecento), nota come le discrepanze fra le prime edizioni inducano a pensare che una tradizione manoscritta ora scomparsa (oscillante, diversificata, non immune da lacune, e dunque, aggiungerei io, potenzialmente stratificata lungo un lasso di tempo difficile da delimitare) abbia preceduto la stampa.
E non si vede perché un falsario avrebbe dovuto disseminare a bella posta versioni divergenti della propria mistificazione, anziché crearne un solo archetipo; per di più in un’epoca in cui ancora non esisteva il metodo lachmanniano, e in cui dunque ben difficilmente un falsario sarebbe potuto essere così sottile e preveggente da predisporre, per lo sguardo dei posteri, l’illusione di una tradizione ramificata.
Si è accennato agli argomenti fondati sugli anacronismi di lingua e di stile. «Presunte coetanee di Petrarca, intorno alla metà del Trecento, nella periferica Fabriano, queste poetesse scrivono in una lingua letteraria del tutto aliena da dialettismi,  e aliena altresì da
quel polimorfismo linguistico (fatto di fiorentinismi, toscanismi occidentali, provenzalismi, sporadici meridionalismi, latinismi, etc.) che caratterizza Petrarca». Sic.
L’idea che Condello ha dello stile di Petrarca è piuttosto singolare. Basta un qualsiasi manuale, senza bisogno di scomodare Contini, per sapere che Petrarca è il poeta, per eccellenza, del monolinguismo, del monostilismo. del «fiorentino trascendentale».
E che, anche per questo, cioè in quanto modello cristallizzabile e codificabile, ispirò assai presto fenomeni di aemulatio (da Cino a Sennuccio al Dondi al Vannozzo, da Ricciardo da Battifolle al citato Rinuccini, senza tralasciare autori che solo oggi si vengono riscoprendo, come Alberto degli Albizi).
Come osservava Dante Bianchi, «il petrarchismo cominciò vivente ancora il Poeta e in modo tale, che riesce persino difficile sceverare ciò che gli appartiene da ciò che gli viene apposto»3.
Condello sembra quasi confondere Petrarca con Dante. Ma in fondo, paradossalmente, questa contaminatio può essere utile ad inquadrare le poetesse marchigiane.
Già nel tardo Trecento, «nelle rime dei minori si assiste frequentemente a un’imitazione di sutura tra Dante e messer Francesco. Ne risulta un intricato corpus di rime scritte alla maniera del maestro. Proprio lo studio di questa precoce koinè petrarchista è fondamentale per una comprensione della prima ricezione del Petrarca lirico»4.
Altro argomento cui Condello ricorre per dimostrare il presunto anacronismo, e dunque la falsità, delle poetesse è l’elevato numero di consonanze lessicali con la poesia cinquecentesca. Si tratta invero, perlopiù, di generiche concordanze esteriori, del tutto banali e casuali (sembianza d’uomo, ambe le sponde, il pregio e la corona, gigli e viole, verdi allori, al fuso all’ago, la greggia divorata dai lupi, chieder pace, il sangue corre, saette e spade, la croce di Cristo, il sangue sparso, et similia), che non investono la sostanza del pensiero, e che, in ogni caso, trovano paralleli anche medievali (rinvio, per questo, al commento).
Semmai, l’accertamento delle più plausibili e prossime concordanze non solo esteriori, ma profonde, non meramente lessicali, ma concettuali, pare confermare la natura e l’origine medievali dei testi. E, più precisamente, sembra ribadire i contorni e i confini della cultura in cui le poetesse si muovevano: l’affermazione limpida e decisa della dignità della donna (anche sulla base di antecedenti maschili come quello di Guittone d’Arezzo, devoto ammiratore di Compiuta Donzella – che pure in passato qualcuno cercò di cancellare dalla storia), la confutazione dei topoi della misoginia medievale (uno degli impliciti bersagli polemici è forse Cecco d’Ascoli, contro cui si scaglierà, per gli stessi motivi, Christine de Pizan), il dialogo a distanza con le trobairitz e quello, più ravvicinato, con le grandi mistiche (trasparenti i richiami a Caterina da Siena, per i quali rinvio alle note ai testi).
La minuziosa indagine intertestuale (che non pretendo di avere esaurito) sembra confermare ciò che osserva Mercedes Arriaga Flórez: «Separadas por más de un siglo, me parece importante resaltar que el tema de una espiritualidad poco canónica está presente, desde Compiuta Donzella, hasta Elisabetta Trebbiani. Lo que emparenta a las poetas de estos dos siglos con los movimientos de renovación espiritual y con las autoras místicas en prosa»5.
Resta il problema della metrica, che risulterebbe, per l’accentazione dei versi, tipicamente cinquecentesca. Ma (anche a prescindere dal fatto che la scansione dell’endecasillabo, e in particolare la distinzione fra accenti principali e secondari, nonché la collocazione delle cesure, non sono sempre univoche) ogni indagine statistica su un corpus così limitato può difficilmente essere risolutiva. E non è necessario scomodare Fubini per sapere che un’indagine puramente quantitativa della struttura metrica, che prescinda dal fondamentale nesso tra metro e significato, tra ritmo ed espressione, finisce per avere un valore limitato. «Altro è il metro dei trattatisti, altro il verso nella sua concretezza, la cui vita è data dalla varietà che il poeta porta nel suo discorso»6.
Delle poetesse marchigiane andrà semmai riconosciuta la peculiare sensibilità metrico-ritmica, aderente ad un vissuto intimo e fervido; la quale chiamerà in causa, inevitabilmente, la soggettività del lettore.
E si noterà allora come enjambement, monosillabi e forme tronche possano sottolineare la tensione all’immortalità («Io vorrei pur drizzar queste mie piume / colà, Signor, dove il desio m’invita»), e poi il ritmo spedito, la rima al mezzo, le vocali aperte e sottili enfatizzate dagli ictus metrici, evocare la levità dell’ascesa («Dimmi tu ormai che per più dritta via / a Parnaso ten vai»), o come la stessa scansione metrica calchi la feroce durezza delle dentali e delle rotanti («Ecco, Signor, la greggia tua d’intorno / Cinta di lupi a divorarla intenti»); indugiare sulla pesantezza calibrata e la vigoria dei bisillabi («La speme i colpi suoi tutti rinforza»), o cogliere, nell’enjambement e nel contrasto fra pausa sintattica e sinalefe, la tensione fra pensiero e metro, quasi come fra spirito e corpo («Ch’entro m’accende, alteramente poggia / A Dio; ed altro pensiero non m’ingombra»); o, ancora, notare la pregnanza semantica degli ictus che incidono, in rispondenza isometrica, i mots clefs («Tacete, o maschi, a dir che la Natura / A far il maschio solamente intenda»); o certi solenni e pensosi rallentamenti del ritmo, che, al di là del semplice computo sillabico, la sinalefe non può dissimulare («Che per farli un celeste almo lavacro»; «Che per poter morir già si fece huomo»; «Uomini, appresso loro. Uomo non fora»), e che un orecchio cinquecentesco (ma forse già quello dello stesso Petrarca) non avrebbe potuto che avvertire come grevi e faticosi, benché dettati da un‘ispirazione autentica, intima e necessaria come quella di donne che cercavano di far affiorare la propria voce in un mondo di uomini.
Ci si potrebbe spingere fino a scorgere, in questa continua dialettica di pesantezza e levità, in questa verticalità sostenuta e tesa, in questo anelare della carne al cielo attraverso gli spasimi di un sacrificio umano e insieme divino, il corrispettivo poetico di certa grande coeva pittura fabrianese (basti pensare al Maestro di Campodonico o al suo probabile allievo Allegretto Nuzi, nelle cui crocifissioni la resa anatomica, spasmodicamente concreta, del corpo sofferente si dirada, e trova un contrappeso e una risoluzione, nell’armoniosa levità delle vaghe nubi come delle serene ed eteree figure sovrastanti).
Della poesia, queste tre autrici, pur biograficamente e storicamente così prossime, offrono altrettante espressioni stilisticamente distinte e connotate – dal sensus anagogicus, teso alla sfera celeste, di Ortensia di Guglielmo al variopinto e cesellato decorativismo gotico, non inconciliato con la ferma rivendicazione della dignità femminile, di Leonora della Genga fino al singolare contrasto tra il cruor del sangue e del martirio e gli algidi “ornamenti” del mondo superno in Lagia Chiavelli.
Ad esse ho aggiunto, per completare il quadro della poesia femminile italiana del Trecento, l’ascolana Elisabetta Trebbiani (della quale se non altro non si potrà negare il “polimorfismo” linguistico, data la sua marcata patina umbro-marchigiana) e la bolognese Giovanna Bianchetti, della cui storicità, attestata dalle cronache, non si può dubitare, e che fondeva un’intensa forza visionaria con una ricca e vivida cultura teologica.
Il commento ha il fine di appianare e chiarificare la lettera del testo (senza la pretesa di esaurirne o limitarne la ricchezza di risonanze e di possibili attualizzazioni), attraverso richiami a possibili o probabili antecedenti e a testi emblematici del contesto culturale coevo.
E dimostrare, del pari, la ricchezza e la profondità della cultura e della consapevolezza intellettuale, non meno che dell’emotività e del vissuto, di queste voci, che qualcuno ancora si ostina a ridurre ad un corpusculum di “poesiole”.

 

 

Ortensia di Guglielmo

Io vorrei pur drizzar queste mie piume1
colà, Signor, dove il desio m’invita,
e dopo morte rimanere in vita,
col chiaro di virtute inclito lume2.
Ma ’l volgo inerte3 che dal rio costume
vinto, ha d’ogni suo ben la via smarrita,
come digna di biasmo ognor m’addita,
ch’ir tenti d’Elicona al sacro fiume,
all’ago, al fuso, più che al lauro o al mirto4,
come che qui non sia la gloria mia,
vuol ch’abbia sempre questa mente intesa.
Dimmi tu ormai che per più dritta via5
a Parnaso ten vai, nobile spirto,
dovrò dunque lasciar sì degna impresa?

1 Reminiscenza dantesca («a l’alto volo ti vestì le piume», Par. XV, 54). Al sonetto (secondo un’ipotesi accolta dal Ménage, nonché dal Petrarcha redivivus di Giacomo Filippo Tomasini, il quale menziona «tabulae antiquissimae, et omni fide dignissimae», possedute dal vescovo d’Amelia Torquato Perotti, autorevole erudito) risponderebbe quello di Petrarca che costituisce il settimo componimento dei Rerum vulgarium fragmenta: «La gola e ’l somno et l’otïose piume / ànno del mondo ogni vertù sbandita, / ond’è dal corso suo quasi smarrita / nostra natura vinta dal costume; / et è sì spento ogni benigno lume / del ciel, per cui s’informa humana vita, / che per cosa mirabile s’addita / chi vòl far d’Elicona nascer fiume. / Qual vaghezza di lauro, qual di mirto? / Povera et nuda vai philosophia / dice la turba al vil guadagno intesa. / Pochi compagni avrai per l’altra via: / tanto ti prego più, gentile spirto, / non lassar la magnanima tua impresa». Si è respinta l’ipotesi sottolineando una qualche discrepanza concettuale (o, viceversa, una eccessiva affinità lessicale e stilistica, ai limiti del plagio) fra proposta e risposta, e la troppo ampia ripresa delle stesse parole-rima. Su simili basi, larga parte dei sonetti di corrispondenza potrebbe essere sospettata di apocrifia. L’identità delle parole-rima non è per forza indizio di età posteriore: esempi se ne trovano (anche se, indubbiamente, con minore frequenza in un singolo sonetto) nelle Extravaganti petrarchesche; ma questo virtuosismo era già provenzale (ad esempio due sestine, di Guilhelm de Saint Gregori e di Bartolomeo Zorzi, riprendono le stesse parole-rima di Lo ferm voler ch’el cor m’intra di Arnaut Daniel).
A parte il fatto che il rapporto fra proposta e risposta, nelle corrispondenze poetiche, può anche essere di antitesi o di slittamento semantico, oltre che di coerenza e di analogia, qui la risposta (che a tale sua natura deve forse un certo schematismo strutturale, indotto dall’obbligo delle parole-rima, mentre la proposta, libera da questi vincoli, si snoda con maggiore scioltezza), se da un lato declina sul piano concreto, di una greve inerzia fisica, l’accezione metafisica, platonica delle “piume” della proposta, dall’altro parrebbe cogliere e far propria l’ansia d’immortalità e di nobiltà spirituale lì espressa, ampliandone semmai la portata dal piano della sola poesia a quello più vasto della filosofia (e convertendo l’umano e terreno, per quanto eccelso, «inclito lume» della virtù in un metafisico «lume del ciel», sintagma dantesco), nell’ottica di una rivendicazione del valore gnoseologico, e non puramente estetico, di quell’arte («infima doctrina», invece, per la Scolastica). Come notava già Carducci, poi, l’esortazione a non lasciare la magnanima impresa induce ad escludere che il destinatario fosse un letterato già celebre (si pensò a Boccaccio); e rende (si potrebbe soggiungere) non implausibile che la destinataria fosse proprio una donna, la cui ascesa al Parnaso incontrava ovvi ostacoli. E le parole-rima, in questo caso, particolarmente pregnanti e connotate (vita lume mirto via spirto), configuravano di per sé un campo semantico solido e coerente, come una sorta di cerchio esistenziale.
2 Eco, forse, di un inno latino di Walafrido Strabone, che impiega l’espressione, in sé generica, in una marcata accezione mistica: «Lumen inclitum refulget / Maximo orto sidere, / Quod per omnem splendet orbem / Noctis umbras aufugans» («Rifulge l’inclito lume / Sorto il sommo astro, / Che per tutto il mondo risplende / scacciando le ombre della notte»).
3 Vedi Lucano, Pharsalia, V, 364-70: «tremuit saeva sub voce minantis / vulgus iners» («tremò sotto la terribile voce di colui che minacciava / il volgo inerte»). Ma «inerte», in questa specifica accezione morale ed intellettuale, si trova, ad esempio, nel Boccaccio commentatore di Dante, con significativo riferimento agli ignavi: «Le vespe s’ingenerano dell’interiora dell’asino similmente corrotte, e l’asino essere inerte, ozioso e torpente animale, assai chiaro si conosce per tutti».
4 Contaminazione dantesco-petrarchesca, tra Inf. XX, 121-23 («Vedi le triste che lasciaron l’ago, / la spuola e ’l fuso, e fecersi ’ndivine; / fecer malie con erbe e con imago»: dove sarà interessante notare come l’abbandono dei lavori ritenuti consoni alle donne assuma venature stregonesche) e un celebre e ricorrente motivo del Canzoniere, quello del lauro, spesso associato al mirto (ad esempio XLI, 63-66: «né de l’ardente spirto / de la sua vista dolcemente acerba, / la qual dì et notte più che lauro o mirto / tenea in me verde l’amorosa voglia»).
5 Ovvia, qui, come al sesto verso, l’eco del primo canto dell’Inferno.

Ecco, Signor, la greggia tua d’intorno
Cinta di lupi a divorarla intenti6;
Ecco tutti gl’onor d’Italia spenti,
Poiché fa altrove il gran Pastor soggiorno.
Deh quando fia quell’aspettato giorno,
Ch’ei venga per levar tanti lamenti
E riveder gl’abbandonati armenti,
Che attendon sospirando il suo ritorno?
Movil tu, Signor mio, pietoso, e sacro;
Ch’altri non è, che il suo bisogno intenda
Meglio, o più veggia il suo dolore atroce.
E prego sol, che quello amor t’accenda,
Che per farli un celeste almo lavacro7
Versar ti fece il proprio sangue in Croce8.

6 Immagine presente, con analoga connotazione religiosa, in Jacopone: «O anema fedele, che tte vòli salvare, / guàrdate da li lupi, che vo per morcecare. / O anema fedele, che vòli salvazione, guàrdate da lo lupo, che ven como latrone, / mustrànnotesse amico se ’n vene a tua masone, / facenno so sermone, ché tte cred’engannare. […] / Lo Segnor te n’ammastra, che tu dege cavere / dal lupo che da fora co peco vol venire: / venenno a tua mascione, non se lassa vedire; / puoi briga de mordire – e ’l grege dissipare». Donde, forse, la celebre figurazione dantesca, Par. XXVII, 55-56: «In vesta di pastor lupi rapaci / si veggion di qua su per tutti i paschi» (ma l’origine prima è in Mt 7, 15: «Attendite a falsis prophetis qui veniunt ad vos in vestimentis oviumintrinsecus autem sunt lupi rapaces», «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in vesti di pecore, ma nell’intimo sono lupi rapaci»).
7 Per l’immagine, in accezione morale e mistica, del lavacro, vedi Giordano da Pisa, Quaresimale Fiorentino, 16: «L’anima altressì ch’è brutta e lorda, sì lla lava e falla bianchissima, onde è detto bagno e lavacro de l’anima la penitenzia»; Boccaccio, Filocolo, 5, 62: «Dunque niuno indugio sia a questo bene; chiama i tuoi compagni, e ricevete il santo lavacro»; Ameto, 39, 32: «Similemente ancor come nell’acque / giordane prese quel santo lavacro».
8 Chiarissimo rinvio ad un motivo tipico della mistica femminile del Medioevo, quello del sangue sacrificale. Basti qui ricordare la celebre lettera di Caterina da Siena a Frate Raimondo da Capua: «Scrivo a voi e racomandomivi nel pretioso sangue del Figliuolo di Dio, con desiderio di vedervi affogato e anegato nel sangue dolce del Figliuolo di Dio, el quale sangue è intriso col fuoco dell’ardentissima carità sua. […] E così l’anima n’esce con perfettissima purità, sì come el ferro esce purificato della fornace. […] Io voglio che facciate come colui che attegne l’acqua con la secchia, cioè per smisurato desiderio versare l’acqua sopra ’l capo de’ fratelli vostri». In tal senso, il sangue di Cristo, assimilato all’acqua del battesimo, è lavacro purificatore.

Tema e speranza entro il mio cor fan guerra,
E quanto innanzi lo sperar mi tira,
Tanto il timore indietro mi ritira;
M’innalza quel, questo mi getta in terra9.
Mi scioglie l’un, l’altro più stretto afferra,
Ed in mille pensier m’involve, e gira,
Onde lo spirto mio piange, e sospira,
Ma non per questo il suo valor lo sferra.
Al fin, poiché il tardar nulla rileva10,
E fatta del mortal periglio accorta,
La speme i colpi suoi tutti rinforza:
Anima, dice, alla celeste porta11
Diamo l’assalto; e se il nemico aggreva,
Sai che il regno del Ciel patisce forza12.

9 Palese l’ascendenza petrarchesca di queste antitesi (Canzoniere, CXXXIV, 1-4: «Pace non trovo, et non ò da far guerra; / e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio; / et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra; / et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio»).
10 Sintagma dantesco: «dove Dio sanza mezzo governa, / la legge natural nulla rileva» (Par. XXX, 122-23).
11 Medievale visio mystica: «E in sulla porta del segnale cilestro si è un grande specchio molto bello, e quello specchio si era di molta virtù e di m[o]lta chiarità e bellezza» (San Brendano Toscano, XXIX).
12 «Regnum Dei evangelizatur et omnis in illud vim facit» (Lc 16, 16): «Il Regno di Dio è annunciato, e ciascuno forza l’entrata in esso».

Vorrei talor de l’intelletto mio
Tanto sopra me stessa alzar le penne
Che potessi veder quanto sostenne,
Per amor nostro, il gran figliuol di Dio13:
Come pieno di zelo ardente e pio,
Sendo egli offeso, a chieder pace venne;
Come, e qual fren con noi tanto lo tenne,
E come su la Croce al fin morio14.
Ma vinta al fin dalla grandezza immensa,
De l’audace disio ripiego l’ali15
E dico: o grande Amor, chi ti comprende?
Quando ti seguo più, tanto più sali;
Ti fai maggior, quanto più in te si pensa;
Te intende sol, chi fa che non t’intende16.

13 Motivo dantesco dell’ineffabile, rappreso nella metafora del volo. «Ma non eran da ciò le proprie penne: / se non che la mia mente fu percossa / da un fulgore in che sua voglia venne» (Par. XXXIII, 139-41).
14 Motivi e movenze analoghi, nel nascente petrarchismo, in Sennuccio: «S’io veggio morta in croce ogni pietate / Verace fede speranza et amore / Nella mia creatura e creatore, / E spenta vita via e veritate; / Chi porrà fine alla mia infermitate, / Rimasa sola in tempestoso porto? / No ’l so vedere; ond’io più mi sconforto. / In più dolor sopra dolor ripiange / La sconsolata, com’ più mira scorto / Pendere in croce Cristo suo diporto».
15 Immagine dantesca (evocata già nel secondo verso) legata alla brama conoscitiva ma anche ai limiti gnoseologici dell’uomo e all’inesprimibilità dell’esperienza mistica: «sua disianza vuol volar sanz’ali» (Par. XXXIII, 15); «che fece crescer l’ali al voler mio» (Par. XV, 72); «diversamente son pennuti in ali» (Par. XV, 81).
16 Eco di quella mistica apofatica (per la quale la Divinità si può nominare solo con la negazione o il silenzio) che ebbe adepte in Margherita Porete e in Hildegard von Bingen, della quale si potrà qui citare, ad esempio, a proposito di un mistero inesauribile, e dunque di un profetismo ancora incompiuto, e perciò aperto al futuro, Scivias, Visio octava: «Qui quot et quales futuri sint in prolixitate supervenientium temporum, hoc est in mysterio ineffabilis Trinitatis. Eandem Trinitatem in unitate divinitatis fideli cultura adoraturi: locus eorum (ut qui adhuc nascituri sunt) vacuus est» («Chi quanti e quali sono destinati ad essere nella durata dei tempi che sopraggiungono è nel mistero della Trinità ineffabile. Adoreranno quella stessa Trinità nella fedele unità, che dev’essere coltivata, della Divinità: il luogo di costoro, poiché ancora devono nascere, è vuoto»).

 

 

Leonora della Genga

Dal suo infinito Amor sospinto Dio
Volse crear nel sesto giorno l’huomo1;
E lo degnò di tal favor, che l’huomo
Fece ritratto ver del sommo Dio.
Perfido ingrato al suo fattore, e Dio
L’offese sì, sì lo sprezzò quest’huomo,
Che perder meritò sembianza d’huomo,
E perder la sembianza anche di Dio2.
Ma per dar la natia sua forma a l’huomo
Sparse il suo sangue su la Croce Dio,
Perché fosse color da pinger l’huomo3.
O mirabile Amor del nostro Dio,
Che per poter morir, già si fece huomo,
Acciocché l’huom si trasformasse in Dio4.

1 Binomio petrarchesco (Canzoniere, XLIX, 135-37: «Raccomandami al tuo Figliuol, verace / Uomo, e verace Dio; / Ch’accolga ‘l mio spirto ultimo in pace») su cui si incardina l’intero sonetto, giocato su due rime identiche. La grafia latineggiante sottolineerà il nesso, tipicamente medievale, tra homo e humus (Isidoro, Etymologiarum, XI, I: «Homo dictus, quia ex humo est factus, sicut in Genesi dicitur: ‘Et creavit Deus hominem de humo terrae. […] Interior homo anima, exterior homo corpus», «È detto uomo, poiché è formato ex humo, come è detto nella Genesi: E Dio creò l’uomo dalla terra. […] L’uomo interiore è anima, l’esteriore corpo»: dove l’etimologia è connessa alla giustapposizione fra uomo e divinità, fra natura terrena e origine celeste). L’artificio non deve necessariamente far pensare all’età del Manierismo: basti rammentare le coblas unissonans della tradizione provenzale e siciliana, o i virtuosistici giochi di rime equivoche e frante nel Detto d’amore, o ancora, come detto nell’introduzione, l’uso dantesco della aequivocatio nella canzone ciclica (forma metrica di cui si hanno tre esempi in Cino Rinuccini). Per l’uso in un contesto religioso, si pensi poi a Cristo in rima identica nella Comedìa (Par. XII, 71-75).
2 «Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, / or fu sì fatta la sembianza vostra?» (Par. XXXI, 103-8).
3 Eco, forse, della folgorante chiusa del Paradiso, ove il poeta vede, inscritto nel cerchio triplice e uno della Trinità, un volto umano («mi parve pinta de la nostra effige»); immagine che, del resto, aveva forse nella Mistica femminile, e segnatamente nell’incipit del Liber divinorum operum di Hildegard von Bingen, un possibile antecedente («Et vidi in misterio Dei imaginem quasi hominis formam»). Ma risuona anche il motivo cateriniano dell’uomo deificato dal sacrificio, e del nesso di sangue e fuoco: «Allora si vedeva Dio e Uomo, come si vedesse la chiarità del sole, e stava aperto e riceveva sangue nel sangue suo: uno fuoco di desiderio santo, dato e nascosto nell’anima sua per gratia, riceveva nel fuoco della divina sua carità» (Lettera a Frate Raimondo da Capua); «Per l’amore ineffabile che Io v’ebbi, volendovi ricreare a grazia v’ho lavati e ricreati nel sangue de l’unigenito mio Figliuolo sparto con tanto fuoco d’amore» (Dialogo della Divina Provvidenza, IV). Preciso riscontro verbale in Agostino, Enarrationes in Psalmos, XXXIX: «Sparsus est sanguis iustus, et illo sanguine, tamquam seminatione per totum mundum facta, seges surrexit Ecclesiae» («Sparso fu il giusto sangue, e tramite quel sangue, come attraverso una semina fatta per tutto il mondo, spuntò il raccolto della Chiesa»); concettuale nello Stabat Mater: «Fac me plagis vulnerari / fac me cruce inebriari / et cruore Filii» («Fa’ ch’io sia ferito dalle piaghe / fa’ ch’io sia inebriato dalla croce / e dal sangue del Figlio»).
4 È il dantesco «indiarsi» (Par. IV, 28).

Di Smeraldi, di perle, e di diamanti5
Cuopra il tranquillo Giano ambe le sponde6.
Sian le sue arene or fino, Ambrosia l’onde;
Né ’l Tebro, o ’l Mintio a par di lui si vanti.
Vesta gigli il terren, vïole, acanti7.
Tengan sempre gli honor de le sue fronde,
Gli alberi, e mille Ninfe alme e gioconde
Mandin per l’aria i suoi più dolci canti8.
Lasci Tessaglia Apollo, Anfriso, e Delo9,
E qui porti la lira, e qui gli armenti
Pasca, e qui pianti i sempre verdi allori.
Questi i trionfi fien, questi gli honori
Di voi Ortensia, ai cui soavi accenti
Si fa tranquillo il mondo, e s’apre il Cielo10.

5 Per il prezioso accostamento, quasi nei modi del plazer provenzale, vedi Petrarca, Canzoniere, CLXIII 1-4: «Amor con la man destra il lato manco / M’aperse; e piantovv’entro in mezzo ’l core / Un Lauro verde sì, che di colore / Ogni smeraldo avria ben vinto, e stanco», e, prima ancora, Jacopo da Lentini: «Diamante, né smiraldo, né zafino, / né vernul’altra gema prezïosa, / topazo, né giaquinto, né rubino, / né l’aritropia, ch’è sì vertudiosa, / né l’amatisto, né ’l carbonchio fino, / lo qual è molto risprendente cosa, / non àno tante belezze in domino / quant’à in sé la mia donna amorosa»; cui si può aggiungere, più prossimo, un incipit di Cino Rinuccini, dal tipico decorativismo tardogotico: «In coppa d’or zaffir, balasci e perle»; o, ad esempio, un passo di Matteo Correggiaio, da Gentil madonna, mia speranza cara («O bel granato, o chiara margherita, / splendida gemma, oriental zaffiro, / topazio puro e lucido smeraldo»).
6 «Per cui tremavano amendue le sponde» (Inf. IX, 66).
7 Neppure per questo intreccio floreale mancano esempi medievali. «Dormenno questo frate Mierolo infermo sonnaose che una bella corona de variati fiori descegneva da cielo e posavase nello sio capo. […] Como fu cavata, subitamente de quello luoco iessìo una fraganzia, uno odore suavissimo, como fussino state in quella fossa rose, viole, gigli e moiti fiori» (Anonimo Romano, Cronica, XVIII). Ma è scontato il richiamo a Virgilio, Eneide, VI, 883-84: «Manibus date lilia plenis, / purpureos spargam flores» («Date gigli a piene mani, / spargerò fiori purpurei»), forse filtrato da Rinuccini, O vezzoso, leggiadro e bianco nastro: «O gigli, o rose in quella fronte sparte / Più lucente e polita che alabastro». Fabriano sembra, in questo elogio, quasi prefigurare (con la purezza e il pregio degli ornamenti) la Cité des Dames che sarà cantata da Christine de Pizan, a cui la Giustizia rivolge, nel sesto capitolo, queste parole: «Questa coppa d’oro fino che vedi nella mia mano destra, fatta come una misura abbondante, me la donò Dio mio padre e serve a misurare ciò che è dovuto a ognuno. Ha il marchio del giglio della Trinità». E ancora, nel capitolo diciannovesimo: «La Città è stata costruita con i materiali della virtù, così rilucenti che voi tutte vi potete specchiare».
8 Possibile eco, assai significativa nell’ottica di una autocosciente linea di poesia femminile medievale, della trobairiz Bieiris de Romans: «Na Maria, pretç e fina valors / E·l giois e·l sens e la fina beutatç / E l’ acuglirs e·l pretç et las onors / E·l gintç parlars e l’avinens solas / E la doç cara e la gaia acundança / E·l ducç esgartç e l’amoros se[m]blan / Ce son e vos, don non avetç egansa, / Me fan traire vas vos, sis cor truan» («Donna Maria, il pregio e l’alto valore e la gioia e il senno e l’alta beltà e la gentilezza e il pregio e il decoro e il bel parlare e il piacevole intrattenimento e il dolce viso e il gaio contegno e il dolce sguardo e il sembiante amoroso che in voi sono, in cui non avete uguale, mi spingono verso di voi, senza intenzione di ingannarvi»).
9 Alla preziosità delle pietre sottentra qui quella dei puri nomi mitologici, evocatori di un mondo aurorale. «In forma di pastore umile e queto / D’oro portava Febo, che l’armento / Di lui ne’ verdi boschi pasturava, / Ed in Anfrisio poi l’abbeverava» (Boccaccio, Teseida, VI, 55).
10 «Cum baptizaretur omnis populus, et Jesu baptizato et orante, apertum est caelum» (Lc 3, 21): «Mentre tutto il popolo veniva battezzato, e mentre Gesù era stato battezzato e pregava, si aprì il cielo».

Coprite, o Muse, di color funebre
Tutto Parnaso, ed ogni loco appresso;
Svelto il lauro, piantate ivi il cipresso,
Sien le vostre querele ognor più crebre11.
Il pianto, che uscirà dalle palpebre
Empia Aganippe, e non si trovi in esso
Altro liquor, che quel, che vi sia messo
Dagl’occhi vostri, e dall’altrui tenebre.
E poi che avrete con dolenti segni
Mostrati i danni sempiterni vostri,
Per Ortensia gentile, a tondo a tondo12,
Direte a tutti i pellegrini ingegni
Che spendono in lodare i sacri inchiostri13
Questo spirto gentil14 sì raro al Mondo.

11 Crudo latinismo di gusto tipicamente medievale. «Assai t’è mo aperta la latebra / che t’ascondeva la giustizia viva, / di che facei question cotanto crebra» (Par. XVI, 69). Per l’aggettivo riferito ai lamenti, si può citare Ovidio, Metamorfosi, X, 508-9: «crebros / dat gemitus arbor lacrimisque cadentibus umet» («manda frequenti gemiti l’albero, e gronda di cadenti lacrime»).
12 In analogo contesto di celebrazione funebre, Boccaccio, Teseida, XI, 53: «E a sinistra man con tondo giro, / Tre volte il rogo tutto intorniaro: / E la polvere alzata il salir diro / Delle fiamme piegava, e risonaro / Le lance, ch’alle lance si feriro / Per lo sovente intornïarsi amaro, / Che quivi si faceva intorno intorno, / Sopra i piè presti senza alcun soggiorno».
13 Il sintagma rinvia, per ovvie ragioni contestuali legate all’idea della memoria presso i posteri, a Petrarca, Canzoniere, V, 66-67: «E l’eloquenzia sua vertù qui mostri / Or con la lingua, or con laudati inchiostri» (ma prima ancora, per la sfumatura metapoetica, a Dante, Purg. XXV, 112-14: «Li dolci detti vostri, / che, quanto durerà l’uso moderno, / faranno cari ancora i loro inchiostri»).
14 Celebre espressione petrarchesca (Canzoniere, LIII: «Spirto gentil, che quelle membra reggi»). Nella stessa canzone, pochi versi dopo, il riferimento alla rarità della nobiltà d’animo nel mondo: «Io parlo a te, però ch’altrove un raggio / non veggio di vertú, ch’al mondo è spenta».

Tacete, o maschi, a dir che la Natura
A far il maschio solamente intenda,
E per formar la femmina non prenda,
Se non contra sua voglia, alcuna cura15.
Qual invidia per tal, qual nube oscura
Fa che la mente vostra non comprenda,
Com’ella in farle ogni sua forza spenda,
Onde la gloria lor la vostra oscura?16
Sanno le donne maneggiar le spade,
Sanno regger gl’Imperj, e sanno ancora
Trovar il cammin dritto in Elicona.
In ogni cosa il valor vostro cade,
Uomini, appresso loro. Uomo non fora
Mai per torne di man pregio, o corona17.

15 Come ricorda Condello, in questi versi trova eco la disputa medievale fra Aristotelici e Galenici, ossia fra coloro che ritenevano che, nel concepimento, solo il seme maschile avesse una virtus activa, e coloro che invece vedevano nella matrice femminile un elemento non puramente passivo, ma cooperante. «Femina est mas occasionatus, quasi praeter intentionem naturae proveniens», secondo Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, prima pars, quaestio XCIX). Aggiungerei che in Egidio Romano (di cui circolarono tempestivamente numerosi volgarizzamenti) il concetto viene inserito e rifunzionalizzato, significativamente, entro un discorso sulle logiche e sui disequilibri del potere: «Est enim foemina quasi masculus occasionatus, et quasi vir incompletus» (De regimine principum, XVII)
Pare anacronistico citare, al riguardo (come fa lo stesso Condello onde suffragare la datazione dei componimenti ad età rinascimentale), il Cortegiano del Castiglione (III, 11: «La natura, perciò che sempre intende e disegna far le cose più perfette, se potesse, produrria continuamente uomini; e quando nasce una donna, è difetto o error della natura, e contra quello che essa vorrebbe fare»). L’antecedente polemico diretto, benché non letterale, è più probabilmente Cecco d’Ascoli: «Di doppio seme si fa corpo humano / le vestite ossa della carne pura: / ciò fa el soperchio de lo tempo sano. / Lo spirto del padre, che ne lo sperma / sempre operando, le membra figura, / le molli parti per potentia ferma»; «Onne creata cosa onde descende / Prende natura de lì cominzando, / Si como dal filosofo resplende. / Eva fo prima plasmata de l’ossa / E de la terra del primo parente: / La terra non fa voce chi la scossa» (Acerba, II, II, 807-12 e IX, C. c. 71 t.). In ciò, le poetesse marchigiane anticipano la polemica di Christine de Pizan, secondo la quale Cecco aveva tutte le donne «en abomination, haine et dégoût», «in abominio, odio e disgusto» (La Cité des Dames, I, IX, 53), confermando così la ideale linea di continuità della poesia femminile del Medioevo romanzo; tanto più che in Christine (italiana d’origine e ottima conoscitrice di Dante e di Boccaccio) parrebbe affiorare, sorprendentemente, un’eco testuale diretta di questo sonetto: «Che tacciano! Che tacciano d’ora in avanti i chierici maldicenti! Che tacciano tutti i loro complici e alleati che ne dicono male o ne parlano nei loro scritti e nelle loro poesie. Abbassino gli occhi per la vergogna di aver osato mentire tanto nei loro libri» (La Città delle Dame, XXXVIII, a cura di Patrizia Caraffi, Luni, Milano 1999, p. 13). Stretti, nel tardo Medioevo, i rapporti tra Fabriano e la Francia, per via dell’appoggio angioino ai Chiavelli.
E si potrà convenientemente aggiungere, a proposito della presunta inferiorità naturale della donna, un testo canonico della misoginia medievale, il Corbaccio di Boccaccio (datato al 1366, mentre secondo il Crescimbeni Leonora della Genga fiorì nel 1360): «La femina è animale imperfetto, passionato da mille passioni spiacevoli e abbominevoli pure a ricordarsene, non che a ragionarne: il che se gli uomini riguardassono come dovessono, non altrimenti andrebbono a loro, né con altro diletto o appetito, che all’altre naturali e inevitabili opportunità vadano».
16 «Non per ragion, ma per malvagia usanza, / sovra le donne ha preso om signoria, / ponendole ’n dispregio e ’n villania / ciò ch’a sé cortesia pon’ e orranza. […] / Adonqu’è troppo più naturalmente / gentil cosa che l’omo e meglio è nata, / e più sembra ch’amata / ella fosse da Dio nostro signore; / e maggiormente più feceli onore / che non per om, ma per donna, salvare / ne volle veramente ed a Sé trare» (Guittone, Ahi lasso, che li boni e li malvagi). E di Guittone, sempre con riferimento alla poesia femminile del Medioevo, sarà da citare anche la quinta delle Lettere, indirizzata a Compiuta Donzella, nella quale si sente già quasi tutto lo Stilnovo: «Gentil mia donna, l’onnipotente Dio mise in voi sì meravigliosamente compimento di tutto bene, che maggiormente sembrate angelica criatura che terrena, in ditto e in fatto e in la sembianza vostra tutta, ché, quanto omo vede de voi, sembra mirabil cosa a ciascuno bono conoscidore. Per che non degni fummo che tanta preziosa e mirabile figura, come voi siete, abitasse intra l’umana generazione d’esto seculo mortale; ma credo che piacesse a Lui di poner vo’ tra noi per fare meravigliare, e perché fuste ispecchio e miradore, ove se provedesse a agenzasse ciascuna valente e piacente donna e prode omo, schifando vizio e seguendo vertù».
17 Dittologia già medievale. Vedi ad esempio (anche se in senso spregiativamente ironico) Manfredino Perugino: «Ei non è uom sì salvatico d’alpe / che ’n mal dir non ti dea corona e pregio, / e che tu se’ signor di tal collegio».

 

 

Lagia Chiavelli

Veggio1 di sangue uman tutte le strade
D’Italia piene, il qual per tutto corre2;
E disdegnoso, e reo Marte discorre,
Lanze porgendo ognor, saette, e spade.
Quindi convien che in lungo esilio3 vade,
Fuggendo, Astrea con le compagne a porre
L’albergo, onde al gran mal nulla soccorre4,
E l’onor prisco, e l’ornamento cade.
Ma se desio di vera gloria accende
L’Italico valor, rivolga l’arme
Contra colui che il Cristianesmo5 sface.
Contra se stesso ogn’un più tosto s’arme6;
Perché quel Dio, che in su la Croce pende
Dio di guerra non è, ma Dio di pace7.

1 Movenza lessicale tipica della visio profetica (come in Dante, Purg. XX, 86: «Veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, / e nel vicario suo Cristo esser catto»); onde non è forse necessario presumere, come Stoppelli nella voce dedicata alla poetessa nel ventiquattresimo volume del Dizionario biografico degli Italiani (nella quale peraltro si individua in una cronaca del primo Quattrocento una conferma della storicità dell’autrice), che il testo debba far riferimento ad eventi storici precisi e contemporanei. Ad ogni modo, la Fabriano del secondo Trecento risentiva in modo particolarmente aspro delle contese fra potere pontificio e signorie locali, e nel 1378 proprio il condottiero Guido Chiavelli (che precedentemente l’Albornoz aveva indotto a più miti consigli), vicino ai Visconti, conquistò la città, che fu saccheggiata. Nel 1367 i Chiavelli, dopo sanguinosi scontri, avevano trovato rifugio nel castello della Genga. Il riferimento, per quanto iperbolico, a «tutte le strade d’Italia» ricorda che simili conflitti non erano certo, all’epoca, limitati a Fabriano. Del resto la canzone di Petrarca Italia mia, benché il parlar sia indarno trasse occasione, con tutta probabilità, da un contrasto locale fra Estensi e Gonzaga (pur assumendo, com’è evidente, uno sguardo ed un respiro vasti ed esemplari). Alcune tessere testuali di tale canzone («a le piaghe mortali / che nel bel corpo tuo sì spesse veggio», «che sparga ’l sangue et venda l’alma a prezzo», «che fan qui tante pellegrine spade», «non più bevve del fiume acqua che sangue», «vertù contra furore / prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto: / ché l’antiquo valore / ne gli italici cor’ non è anchor morto», «I’ vo gridando: Pace, pace, pace») sono in più punti incastonate nel sonetto.
2 Sintagma attestato nel Medioevo (con riferimento a scontri intestini, Giovanni Villani, Nuova Cronica, X, 125: «Cacciarono per forza i Ghibellini di Rieti, e combattendo nella città, più di cinquecento n’uccisono, e più n’anegarono nel fiume, il quale di sangue corse»).
3 «Accesa del disio / Del quale io ardo, credo, in veritate, / Che sentirei il lungo esilio mio / Con men dolor» (Boccaccio, Teseida, IV, 7).
4 «Ahi doloroso me! chi mi soccorre? / Ben veggio mi convien morir del pianto, /
Che non si può per nulla cosa tôrre» (Cino da Pistoia, Ogni allegro pensier ch’alberga meco).
5 Sincope tipicamente medievale (si vedano paganesmo, battesmo e centesmo in Purg. XXII, 89 sgg.). Il riferimento storico potrà andare allo Scisma d’Occidente, e il personaggio indicato sarà forse Clemente VII.
6 Concetto ciceroniano di clementia, espresso nelle orazioni cesariane: «Animum vincere, iracundiam cohibere, victoriam temperare» (Pro Marcello, 9): «Vincere il proprio animo, soffocare l’ira, moderare la vittoria».
7 «Tu, mosso da quel medesimo fuoco con che tu ci creasti, volesti ponere il mezzo a reconciliare l’umana generazione che era caduta nella grande guerra, acciò che della guerra si facesse la grande pace. E destici el Verbo de l’unigenito tuo Figliuolo, il quale fu tramezzatore fra noi e te» (Caterina da Siena, Dialogo della Divina Provvidenza, XIII).

Rivolgo gli occhi spesse volte in alto,
A mirar l’ornamento delle stelle8;
E veggio cose sì leggiadre, e belle,
Che per novo stupor divengo smalto9.
Indi qua giù velocemente salto,
E scelgo le più degne, e veggio, ch’elle
Non son lor pari; ond’io bramando quelle,
Torno di novo al Ciel con leggier salto.
Ma qui fatto più audace il gran desio,
Ch’entro m’accende, alteramente poggia10
A Dio; ed altro pensiero non m’ingombra.
Poi grido al fin: se tal bellezza alloggia
Nel Cielo, or qual sarà quella di Dio,
Appresso al qual è questo Cielo un’ombra11?

8 Tipicamente medievale è l’uso di «ornamento» per indicare un corpo celeste: «Il sole è occhio del cielo, cerchio di caldo splendore sanza abassare, ornamento del die, dividitore dell’ore» (Fiori di filosafi, 215); «Come ne’ lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori ne’ verdi prati» (Boccaccio, Decameron, I, 10).
9 «Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto, / dicevan tutte riguardando in giuso» (Purg. IX, 52-53). E dantesca è anche l’espressione, apparentemente generica, «cose belle» ad indicare i corpi celesti e l’armonia del cosmo (Inf. I, 40).
10 Prettamente medievale l’accezione di mistica mentis elevatio o di tensione ascetica: «Questa piccola stella si correda / d’i buoni spirti che son stati attivi / perché onore e fama li succeda: / e quando li disiri poggian quivi, / sì disviando, pur convien che i raggi / del vero amore in su poggin men vivi» (Par. VI, 117); «Fu per mostrar quanto è spinoso calle / e quanto alpestra e dura la salita / onde al vero valor conven ch’uom poggi» (Canzoniere, XXI, 12-14).
11 «Che, poi che avrà ripreso il suo bel velo, / se fu beato chi la vide in terra, / or che fia dunque a rivederla in cielo?» (Petrarca, Triumphus Eternitatis, 143-45).

 

 

Elisabetta Trebbiani

Trunto mio che le falde avvien che bacie
A la Cipta de Pico1, e più de Marte
S’in mar, dove onni fiume amistà facie2
T’incontrassi col Jan3, diglie in disparte
Ch’annunzi en nome mio salute e pacie
A la mia Livia perita d’onne arte:
La qual sì a l’orecchi, ed occhi piacie,
O se veggia en persona, o scriva en carte.
La carta bianca4 di più tu gl’accenna
Che del suo bel Paese ella ne mandi
Per scrivervi5 sue gesta inclite e sole.
Ma più che la sua carta, la sua penna
Vorrei, mentr’or laudar soi merti grandi
Sol la sua penna eloquente ce vole6.

1 Riferimento, forse, al ponte di Cicco Pico, che sarebbe stato costruito dal nobile Francesco Pico.
2 «Omnia flumina pergunt ad mare, et mare non redundat; ad locum, unde exeunt, flumina illuc revertuntur in cursu suo» (Ecclesiaste, 1, 7): «Tutti i fiumi vanno al mare, e il mare non trabocca; al luogo, donde escono, i fiumi tornano nel proprio corso». L’eco biblica, non casuale, evoca un’idea di superiore destino e di eterni ricorsi.
3 Il fiume Giano, che bagna Fabriano, s’incontrerà nel mare con il Tronto, che bagna Ascoli, come a simboleggiare e suggellare un’amicizia protesa oltre la vita.
4 La carta di Fabriano, che già nel Trecento faceva della ricca città (tutt’altro che periferica ed isolata) un vivace nodo di scambi commerciali non privi d’implicazioni culturali.
5 In un analogo contesto solenne, per incidere memorie perenni, in Dante, Par. XXV, 53: «com’è scritto / nel Sol che raggia tutto nostro stuolo»; con specifico riferimento alla memoria, «portera’ne scritto ne la mente» (Par. XVII, 91); «Ciò che narrate di mio corso scrivo, / e serbolo a chiosar con altro testo / a donna che saprà, s’a lei arrivo» (Inf. XV, 88-90), dove la scrittura è metafora del cammino esistenziale.
6 Superfluo sottolineare, lungo tutto il componimento, e con oscillazioni all’interno di esso, il fonetismo umbro-marchigiano (Trunto, Cipta, onni, onne, bacie, diglie, soi, vole), ravvisabile anche nel Cantico delle Creature, nell’Elegia Giudeo-Italiana come in Jacopone: patina linguistica del tutto aliena dal purismo del Cinquecento, in cui alcuni collocano la presunta falsificazione. Fonetismi che si trovano (comannato, rote, bono) anche nella ben più aspra (e più antica) Canzone di castra Fiorentino citata da Dante, nel De vulgari eloquentia, come esempio di accentuazione parodica di tratti dialettali.

 

 

Giovanna Bianchetti1

Creder si dee, che a chi maggior dolore2
Diede il Signor quando partì di vita,
A colei, ritornando, desse aita
Prima, che ad altri col suo vivo ardore.
Sicché stando Maria con umil core
Del supremo suo Sol3 la nova uscita
Attendendo, sentissi la sbandita4
Luce tornare, e scorse almo splendore,
Che ratto sovra il messaggier dal giglio5
Le sopravenne a dir col volto chino;
Rallegrati, del Ciel degna Regina6:
Rallegrati, perché l’alto, e divino
Tuo figliuol, già varcato ogni periglio,
Col corpo unita ha l’alma peregrina7.

1 «All’entrata del mese di Novembre messer Carlo figliuolo della Maestà del Re Giovanni di Boemia, eletto imperadore venne a Padova. Con lui era la Reina sua donna, e figliuola della Maestà del Re di Polonia. Con lei era in compagnia una venerabile Donna bolognese, che sapeva ben parlare per lettere, e sapeva bene il Tedesco, il Boemo e l’Italiano. Aveva nome Madonna Giovanna, figliuola che fu di Matteo dei Bianchetti di strada s. Donato» (Rerum Italicarum Scriptores, XVIII, p. 436).
2 Espressione dantesca (Inf. V, 121).
3 L’immagine, di ascendenza apollinea, di Cristo Sol Oriens è neotestamentaria (Lc 1, 78-79; Ap 1, 16).
4 Per Dante la natura umana fu «sbandita / di paradiso, però che si torse / da via di verità e da sua vita» (Par. VII, 37).
5 Figurazione enigmatica, che fa pensare a Bernardo di Chiaravalle esegeta del Cantico dei Cantici: «Et fortassis propterea ipse se lilium appellavit, quod totus versetur in liliis, et omnia quae ipsius sunt, lilia sint; conceptio, ortus, conversatio, eloquia, miracula, sacramenta, passio, mors, resurrectio, ascensio. Tanta denique in conceptione refulsit superni luminis claritas de supervenientis abundantia Spiritus, ut ne ipsa quidem Virgo sancta sustinuisset, si non sibi obumbratum foret a virtute Altissimi» (Sermones in Canticum Canticorum, LXX, 7): «E forse per questo motivo egli chiamò se stesso giglio, perché tutto dimora nei gigli, e tutto ciò che gli appartiene sono gigli: concezione, nascita, vita, parole, miracoli, sacramenti, passione, morte, resurrezione, ascensione. Così grande infatti fu la chiarezza della luce celeste che risplendette nella concezione, dalla sovrabbondanza dello Spirito che veniva, che neppure la stessa Vergine santa avrebbe potuto sopportarla, se non fosse stata ombreggiata dalla potenza dell’Altissimo». Neppure la Vergine avrebbe potuto reggere l’altissimo splendore di Cristo-Giglio, se Dio non l’avesse in qualche modo velato. Ma la conoscenza del tedesco, che le cronache le attribuiscono, avrebbe potuto consentire alla poetessa la lettura diretta dei testi di una mistica come Matilde di Magdeburgo, la cui poderosa immagine della «luce fluente della divinità» («das fliessende Licht der Gottheit») fu forse alla base del dantesco «lume in forma di rivera». Si veda, ad esempio, I, 2: «Il vero saluto divino, / che proviene dal flusso celeste / della fonte della fluente Trinità, / contiene in sé una così grande forza / che toglie al corpo tutta la sua potenza / e l’anima si rivela a se stessa». Quest’idea di mutevolezza, fluidità e vitale dinamismo (e insieme di autocoscienza) sembra connotare in modo essenziale il Femminile.
6 «Poiché Dio volle scegliere la propria sposa in questo sesso, Dama eccellentissima, in tuo onore gli uomini devono non solo astenersi dal diffamare le donne, bensì averle in grande rispetto» (Christine de Pizan, La Città delle Dame cit., p. 81).
7 Biblico (Cantico, 2; Mt 28; Gv 20, 11-18: il noli me tangere che precede l’ascesa al Padre) è anche questo ricongiungimento, dopo la morte e la risurrezione, tra l’anima e il Corpo Mistico.

 

 

* Sintografia in copertina realizzata da Andrea Capodimonte.


Note

1 Per la storia della questione, qui accennata in estrema sintesi, e per i riferimenti bibliografici, rinvio allo studio di Daniele Cerrato, Presenza/assenza delle petrarchiste marchigiane, in Ausencias. Escritoras en los márgenes de la cultura, Arcibel, Sevilla 2013, pp. 219-41.

2 Un vecchio falso che ritorna in vita: le inverosimili “Petrarchiste marchigiane” fra questioni di autenticità e questioni di genere, in «Studi e Problemi di Critica Testuale», CVII/2, 2023, pp. 55-124. Contro l’autenticità si pronunciano, con argomenti non dissimili, Giulia Godano, Sulle tracce delle “petrarchiste” marchigiane, in Laureatus in Urbe, Aracne, Roma 2019, e Alessia Serluca, Io vorrei pur drizzar queste mie piume: Una falsa proposta cinquecentesca a Rvf 7, in «Petrarchesca», XII (2024); A proposito delle poetesse marchigiane del Trecento. Breve storia di un falso di lunga durata, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXL (2023), 671.

3 Dante Bianchi, Intorno alle «Rime disperse» del Petrarca, in «La Bibliofilia», XLVII (1945).

4 Marco Limongelli, Petrarca estravagante e disperso nelle prime stampe, in «Kepos», 2 (2021), pp. 3-4.

5 Poetas italianas de los siglos XIII y XIV en la Querella de las mujeres, Arcibel, Sevilla 2012, pp. 8-9.

6 Mario Fubini, Metrica e poesia, Feltrinelli, Milano 1962, p. 31.