Oggi sono andato a trovare Edmondo Parra, un vecchio compagno di scuola che scrive poesie (l’unica persona che scriva poesie tra tutte quelle che conosco) e condivide un alloggio in centro con un paio di squinternati.
Quando ho suonato, ci ha messo mezz’ora per capire chi fossi.
Sono Wokoski, gli ho detto, andavamo a scuola insieme.
Quale scuola, ha detto lui al citofono.
La scuola, Edmondo, la scuola, ho detto io; eravamo sempre insieme nella grotta degli atei (io e Edmondo, che non ci eravamo mai rivolti la parola, ci siamo conosciuti così: avevamo entrambi scelto di non seguire l’ora di religione, per cui ogni volta che i nostri compagni di classe iniziavano quelle stronzate cattoliche o iscariotiche, il bidello ci rinchiudeva in una stanza due metri per due senza finestre, senza arredamento, senza sedie, ad aspettare che suonasse la campanella. Quella stanza di merda, noi la chiamavamo la grotta degli atei).
A quel punto finalmente Edmondo mi ha riconosciuto, o si è ricordato di me, e mi ha fatto salire in casa.
Non ci posso credere, cristo santo, ha detto, sei proprio tu.
Sono proprio io, ho detto.
L’alloggio di Edmondo era un vero schifo. C’erano fogli scarabocchiati dappertutto, una finestra con i vetri lerci. In un angolo c’era un letto a una piazza con sopra il primo squinternato; stava dormendo, o forse era svenuto, o morto. Nell’alloggio non c’era neppure un divano, un tavolo, una sedia o un mobile. Il secondo squinternato stava guardando dalla finestra, attraverso i vetri lerci, e non mi ha considerato per niente.
Edmondo mi ha detto se mi volevo sedere e io gli ho detto volentieri Edmondo, ma dove mi siedo, e lui ha srotolato un tappeto lercio sul pavimento, ha tirato fuori da sotto al letto un paio di cuscini e mi ha fatto cenno di accomodarmi.
Ci saranno stati quaranta gradi, e avevo la camicia appiccicata sulla schiena.
Edmondo mi ha offerto della marjuana (che ho gentilmente rifiutato) e una birra (che ho accettato, non essendo in servizio).
Gli ho chiesto se scrivesse ancora poesie come ai tempi della scuola e lui ha risposto certo che scrivo poesie, e mi ha letto una poesia.
Si è alzato, ha aperto una cartellina rossa che si trovava sul pavimento (tutto era sul pavimento, non essendoci altro mobile: libri, bottiglie, bicchieri; una cucina c’era ma dava l’impressione che nessuno la usasse da settantacinque anni, tranne il frigorifero, dal quale Edmondo aveva preso la birra), ha tirato fuori un foglio e ha cominciato a leggere.
Gli ho chiesto se potevo annotarla, per essere il più preciso possibile, e lui mi ha chiesto per quale ragione dovessi annotare la sua poesia; gli ho risposto che stavo tenendo un diario, o un taccuino, perché a lavoro gli psicologi ci avevano spronati (o costretti) a tenere un diario, e che dovevo scrivere tutto ciò che facevo durante la giornata, perché quello era lo scopo di un diario.
Lui non mi ha chiesto che lavoro facessi; probabilmente lo ha capito senza chiedere. Ha solo detto che gli sembrava una vera stronzata, e comunque ha permesso che annotassi la poesia. Insomma, la poesia è questa:
Eccovi un viaggio:
il viaggio del mio fiabesco vagare,
anadiplosi ininterrotta
verso il dna del linguaggio.
Ma il mio camminare è come
l’elica che lacera il soffio di
un vento incostante sul mare,
anastrofe genetliaca di morte e parto.
Soccorro e rincorro:
nel mio respiro odo
l’elisione della materia
quando è perduto il desiderio,
nel tuo agitarti la metamorfosi
del bisbiglio in opera, musica
di un pentagramma rovesciato, boria
di storia senza gloria, allitterazione
dell’esistenza.
Simile a un rabdomante
rabdomanticamente scandagliato
scandaglio il suolo della parola
col rametto-ypsilon di grafite
fino a confutarti, metrica,
ritmo matematico, epanadiplosi del ritmo,
oleoso petrolio zampillante
dalle sabbie metonimiche del periodo,
combustibile di un propulsore arcaico,
epifonema a concludere il mio cammino.
Che significa, ho chiesto.
Edmondo mi ha detto che ai poeti non piace spiegare le proprie poesie. È un po’ come con le barzellette, ha detto. Vuoi che ti racconti una barzelletta, mi ha chiesto. Ho ringraziato ma ho detto che non ero dell’umore giusto per una barzelletta. Edmondo mi ha raccontato due barzellette, ma non me le ricordo affatto, inoltre non ero dell’umore adatto, per cui non posso trascriverle. Ho riso per finta sia alla fine della prima barzelletta che alla fine della seconda. Lui ha capito che ridevo per finta e ha detto che non ero obbligato a ridere per quelle stupide barzellette.
Poi si è dannato per l’abisso che divide il poeta dal lettore, o qualcosa del genere. Non ricordo precisamente se ha utilizzato il termine ‘abisso’. Ma comunque era una parola così.
A quel punto avrei voluto chiedergli della questione per cui ero andato lì (mi riferisco alle stronzate che mi ha raccontato Bruma a proposito dei poeti), ma lui ha iniziato a girare la canna e mi ha chiesto se ne volessi (ho risposto di no, di nuovo). L’altro squinternato, che nel frattempo non si era mosso dalla finestra e stava fissando fuori come se stesse guardando la televisione, o più precisamente come se fosse un pazzo squinternato, si è voltato verso di noi, mi ha fatto un cenno con la mano per salutarmi ed è venuto a sedersi sul tappeto.
Ho pensato che chiunque, quando ti piomba in casa un vecchio conoscente all’improvviso (dopo diciassette anni), chiederebbe quale fosse la ragione della visita, invece Edmondo si stava comportando come se mi avesse incrociato per strada e mi avesse invitato a bere una birra di sua iniziativa.
Ho chiesto se potevo fargli una domanda, e lui mi ha detto me l’hai appena fatta. Ho detto un’altra domanda, e lui ha detto ok, fammi un’altra domanda.
Gli ho chiesto se sapeva qualcosa a proposito dei poeti di Sabbione; cosa facevano, come campavano, che genere di poesie scrivevano.
Lui mi ha chiesto se volevo del caffè e io ho risposto che non lo volevo, il caffè, ma volevo saperne di più sui poeti di Sabbione, perché un collega al lavoro me ne aveva parlato eccetera eccetera.
Edmondo ha acceso la canna, l’ha subito passata allo squinternato (che non aveva ancora detto una parola, tanto che ho pensato che potesse essere muto) e ha iniziato a parlarmi dei poeti in generale, ma più nel particolare mi ha parlato dei poeti suicidi.
Ha detto che ci sono solo due categorie di poeti, quelli morti suicidi e quelli no.
Solo i morti suicidi potevano essere considerati poeti, ha detto, quelli non morti suicidi “hanno solo scritto poesie”.
Gli ho chiesto in quale categoria rientrasse lui, e mi ha risposto che rientrava nella categoria di quelli che sono in attesa di entrare a far parte di una delle due categorie.
I poeti viventi, ha detto, non sono poeti propriamente detti, scrivono poesie in attesa che la Storia della Poesia possa incasellarli in una delle due categorie.
Si è alzato per andare a prendere una birra.
Naturalmente, ha detto, tra quelli che non sono morti suicidi esistono numerose sottocategorie, come peraltro tra quelli che sono morti suicidi.
Ha bevuto un sorso di birra, si è fatto passare la canna dallo squinternato, ha fatto un tiro e l’ha ripassata allo squinternato.
Lo squinternato aveva i capelli lunghi da un lato e rasati dall’altro, un paio di pantaloni schifosamente laschi e una maglietta nera dei Ramones.
I peggiori di tutti sono i poeti morti di vecchiaia, ha detto Edmondo. Quelli sono dei frocetti senza palle. Hanno scritto poesie, ma non sono poeti.
Mi ha guardato per capire la mia reazione, ma io non ho avuto alcuna reazione, allora ha ripreso a parlare.
Nelle altre sottocategorie ci sono quelli morti in incidenti vari, per malattie varie, eccetera.
Poi ci sono quelli morti ammazzati, ha detto. Questi non sono proprio paragonabili ai morti suicidi, ma li reputiamo soltanto un gradino sotto. Non sono poeti propriamente detti, ma quasi. E comunque non sono esecrabili quanto i poeti morti di vecchiaia, questo è certo.
Ha fatto alcuni esempi di poeti morti per svariate circostanze non riconducibili alla vecchiaia, come Pablo Neruda (cancro), Federico García Lorca (frocio ma fucilato), Osip Ėmil’evič Mandel’štam (lavori forzati), Dario Bellezza (aids).
Ha preso un foglio di carta, ha scarabocchiato qualcosa.
Anche se, riflettendo, ha detto, i poeti morti per malattie varie avrebbero potuto suicidarsi prima di morire, da veri poeti, mentre non l’hanno fatto, e questo li fa precipitare molto in basso nella scala di considerazione, praticamente al pari dei poeti morti di vecchiaia. Che io chiamo del tutto arbitrariamente ‘poeti’, più che altro affinché tu ci capisca qualcosa, ma che in realtà non sono poeti.
Quindi, ho chiesto, tu non sei un poeta.
Non ancora, ha detto.
E mi stai dicendo che i poeti morti di vecchiaia non possono essere poeti.
Precisamente, ha detto, sono dei frocetti senza palle che hanno scritto poesie.
E Shakespeare? Ho chiesto.
Un frocetto senza palle, ha detto Edmondo.
E Dante Alighieri?
Frocissimo, e senza palle.
E Montale, Pascoli, Ungaretti?
Frocissimissimi, ha detto Edmondo, completamente privi di palle. Gli italiani sono i peggiori, da questo punto di vista, sebbene ci siano alcune notevoli eccezioni.
Ha scarabocchiato qualcosa sul foglio.
Lo squinternato ha fatto per passargli la canna, ma lui ha fatto cenno che non la voleva.
I poeti, per essere considerati tali, devono essere morti suicidi, ha detto. Punto. Non si discute.
Qualcuno cataloga i poeti in base alla frociaggine, ha detto.
Non ho capito, ho detto.
In base a quanto sono stati froci in vita, ha detto Edmondo. Ma per essere poeti non basta la frociaggine, bisogna anche essersi ammazzati. Essere stati finocchi aiuta certamente, ma non è abbastanza.
Ha bevuto un sorso di birra, poi si è profuso in un elogio dei soli poeti degni di essere chiamati poeti (dal suo punto di vista), ossia quelli che si sono ammazzati, premurandosi di suddividerli in alcune sottocategorie in base alla modalità di suicidio.
Ha recitato una poesia a memoria (ho chiesto il permesso di annotare anche questa).
Torva è la Musa. Per Sabbione nostra
Corre levando impetuösi gridi
Una pallida giostra
Di poeti suicidi.
Alzan le pugna e mostrano a trofèo
Dell’Arte loro un verme ed un aborto,
E giuocano al palèo
Colle teste da morto.
Bella, ho detto.
È l’inno di ogni vero poeta, ha detto Edmondo, l’inno dei poeti di Sabbione.
Non ho osato chiedere che cosa significasse, anche perché mi pareva di averla capita abbastanza bene.
Quelli che si sono lanciati da una rupe, da un palazzo, da un ponte, dalla tolda di una nave sono i poeti perfetti, ha detto Edmondo.
Gli ho chiesto il perché.
Perché un poeta è un essere umano che precipita nell’abisso della verità, ha detto, ma non sono sicuro di aver capito bene che cosa intendesse.
Lo squinternato ha spento la canna sul pavimento, si è alzato ed è tornato a posizionarsi alla finestra. Edmondo ha attaccato con l’elenco dei poeti perfetti.
John Berryman si è buttato nel fiume Mississippi, Moises Orestein si è buttato nel fiume Atanor, Paul Celan si è buttato nella Senna. Hart Crane si è buttato nell’oceano pacifico dalla tolda di una nave, Gerashim Luca si è buttato nella Senna come Celan. May Ayim si è buttata dal tredicesimo piano, Angel de Saavedra da una rupe. Kristos Gutierrez Blanko si è buttato sotto un treno, ma lanciandosi da un cavalcavia, pertanto conta come suicidio per precipitazione o caduta.
Questi sono i poeti perfetti, ha detto.
Un gradino sotto ci sono quelli che si sono avvelenati o intossicati, o comunque si sono procurati una overdose di qualche schifezza.
Ho fatto notare che per lavoro ero abbastanza avvezzo alle modalità di suicidio.
Bene, ha detto lui, allora saprai che i poeti hanno scarsa fantasia, quando si tratta di ammazzarsi. Si ammazzano come mosche, ma senza fantasia, ha detto.
Poi ha riattaccato a elencare i poeti che si sono ammazzati col veleno o con la droga.
Manuel Acuña, cianuro, Jacques d’Adelswärd-Fersen, cocaina, Ryūnosuke Akutagawa, Veronal, Reinaldo Arenas, cocaina più alcolici, Thomas Chatterton, arsenico, Alberto Greco, barbiturici (si è rammaricato per il fatto di non essere riuscito a scoprire il tipo di barbiturico), Alejandra Pizarnik, Seconal, Antonia Pozzi, barbiturici (si è di nuovo rammaricato), Georg Trakl, cocaina, Cesare Pavese, dieci bustine di sonnifero, Gaspara Stampa, veleno (ancora una volta si è rammaricato per la mancanza di precisione).
Questi poeti hanno le palle, ma non grandi come quelli che si sono buttati di sotto dalla sommità di qualche cosa, ha detto. Sono poeti quasi perfetti.
Ha bevuto un altro sorso di birra.
Callisto dice che i poeti perfetti sono quelli che si sono ammazzati con un colpo d’arma da fuoco (Callisto deve essere uno dei due squinternati, probabilmente quello svenuto sul letto, della cui presenza mi ero del tutto scordato). Giorgio Cesarano, colpo di pistola al cuore, Adam Lindsay Gordon, il poeta fantino, fucilata in faccia, Vladímir Vladímirovič Majakóvskij, colpo di pistola al cuore, Violeta Parra (omonima del mio amico), colpo di pistola alla tempia sinistra (probabilmente era mancina), Heinrich von Kleist, colpo di pistola in testa, Santiago Oesterman, due colpi di pistola, uno al collo, l’altro all’orecchio, Giulio Pinchetti, due colpi di pistola, uno allo stomaco e uno in un occhio. Ha fatto una pausa, ha bevuto la birra. Ha recitato qualcosa, citando qualcuno: “Passò guardando: pianse… poi rise: —Tutto è menzogna! — disse… e s’uccise”.
Franco (deve essere lo squinternato muto alla finestra) invece adora i poeti che hanno avuto un po’ più di fantasia, come per esempio Sylvia Plath, che ha infilato la testa nel forno, o Seneca, che prima si è tagliato le vene dei polsi, poi le gambe, poi le ginocchia, ha ingerito cicuta e infine, non contento, si è immerso in una vasca d’acqua bollente.
Yukio Mishima deve essere catalogato a parte, ha aggiunto Edmondo, giacché il seppuku è un’arte, sebbene non tutte le ciambelle escano col buco, se è vero che il suo amante impiegò tre fendenti prima di decapitarlo a dovere.
Mi ha chiesto se volessi della birra, ho risposto di no.
I poeti impiccati li chiamiamo imperfetti (non ha spiegato perché), ma li ammiriamo tutti, ha proseguito Edmondo. Certo, quando parliamo di impiccagione ci sono alcune variabili da considerare, per esempio il luogo in cui è avvenuta.
Poi ha attaccato con l’elenco dei poeti impiccati.
Jens Ingvald Bjørneboe, impiccato in cucina, Marina Cvetaeva, impiccata nell’ingresso di un’isba, Sergéj Aleksándrovič Esénin, impiccato a un albero (presumibilmente), Mario Stefani, impiccato in casa (non è stata resa nota la stanza in cui si è impiccato), Gérard de Nerval, impiccato a un cancello.
L’annegamento non piace a nessuno, ha detto Edmondo (non ha spiegato il perché). Alfonsina Storni è l’unico caso certo di annegamento in mare, sebbene i poeti che si sono lanciati nei fiumi potrebbero anche essere morti per annegamento, ma non lo sappiamo con certezza.
Ecco, ha detto, adesso conosci praticamente tutti i poeti di Sabbione. E del mondo.
Un elenco e una teoria davvero stimolanti, ho detto, ma non hai risposto alla domanda.
Qual era la domanda, ha detto Edmondo.
Cosa fanno i poeti di Sabbione.
Si ammazzano, ha detto Edmondo, oppure cercano di ammazzarsi; in qualche modo. Nel frattempo scrivono poesie e si perdono per le strade del destino.
Ho fatto per parlare, ma mi ha bloccato, ha detto che sentiva la necessità di scrivere, si è scusato, mi ha offerto una birra (che ho rifiutato) e mi ha cacciato di casa.
Dobbiamo rivederci, mi ha detto mentre uscivo.
Il resto della giornata non è stato interessante.
(Da “Più segreti degli angeli sono i suicidi”. Bookabook, 2017)