Sul ponte dell’Annunciazione di Mirco Mungari ⥀ Passaggi

Presentiamo oggi con la rubrica Passaggi il testo di Mirco Mungari Sul ponte dell’Annunciazione. Lo accompagna un’illustrazione di Iaia. L’editoriale della rubrica può essere letto qui

Illustrazione in copertina di Iaia, Incubus, 2020.

 



Edvige carissima,

è con una certa riluttanza che mi accingo a scriverti. L’umidità della cella rende la carta fragile e appiccicosa, la matita si rifiuta di scorrere e incespica nelle pieghe del foglio mentre cerco di stendere queste righe. Mi chiedo, del resto, cosa io abbia davvero ancora da dirti.
L’esecuzione è ormai prossima. Non mi è dato conoscere la data precisa, ma da un paio di giorni i carcerieri mostrano una insolita premura nel condurmi alla funzione mattutina nella cappella della fortezza, e mi sembra che i ceppi ai polsi mi vengano stretti un poco meno durante la traduzione; potrei sbagliarmi, ma ciò mi appare come un minimo atto di pietà verso un uomo oramai giunto alle ore estreme del suo transito terreno.
Quanto vorrei, Edvige, che quell’alba giungesse domani stesso! Passo molto del mio tempo a cercare di immaginare con cura ogni aspetto dell’esecuzione: lo scatto della serratura, le parole dell’ufficiale, i ferri ai polsi, le macchie di salino sulle pareti del corridoio da contare per l’ultima volta. Infine la luce biancastra della sala circolare, la corda di canapa elegantemente intrecciata, il colpo secco, il buio. Sarà così? Non mi tormenta il rimpianto ma la curiosità. Bramo verificare l’esattezza delle mie supposizioni. Quanti respiri ci saranno tra l’imposizione del cappio e il sopraggiungere dell’incoscienza? Morirò inspirando o espirando? Ho concepito diversi modelli teorici, prevedendo un numero di respiri completi variabile da due a sette; penso che molto dipenderà dal mio stato d’animo in quel frangente (l’ansia e la paura, com’è noto, inducono una respirazione più veloce).
Mi preme particolarmente considerare la posizione delle mani. Basandomi su notizie che sono riuscito a raccogliere durante la detenzione è molto probabile che i ceppi mi verranno tolti al momento dell’esecuzione (rappresentano infatti un peso non indifferente che potrebbe squilibrare pericolosamente il movimento della corda, la cui lunghezza è, come saprai, accuratamente calcolata sulla base del peso e dell’altezza del corpo del condannato). Mi sembra tuttavia alquanto improbabile che esse vengano lasciate senza alcuna contenzione, in quanto (nonostante la mia disciplina e l’accettazione, da me più volte manifestata, della condanna) in uno spasimo di scomposto istinto di conservazione, potrei afferrare la corda, o peggio tentare di allentare il cappio; suppongo perciò che mi verranno legate dietro la schiena con un laccio leggero ma resistente. Manterrò le dita distese o contratte? Ho provato a immaginare entrambe le situazioni; ma non sono ancora giunto a una decisione definitiva.
Ecco, Edvige, non riesco a giungere al punto, o forse non voglio, perché in fondo non lo ritengo più davvero necessario. Quel giorno sul ponte si è compiuto tutto ciò che era necessario si compisse. Ti ricordi com’era scura la Neva sotto di noi? Sembrava un fiume d’inchiostro blu sfuggito dal calamaio di Tolstoj. La tua scelta fu davvero efficace, Edvige; compiere il destino su quel ponte, poco prima del tramonto, era la cosa più sensata ed elegante si potesse davvero fare.
Mentre lo accoltellavi alla schiena eri bellissima. Per un attimo mi hai ricordato i telamoni di basalto nero del Nuovo Ermitage. Hai saputo dosare con cura i fendenti (prima due ai fianchi, poi uno al centro della schiena, e l’ultimo, preciso, poco sotto la nuca mentre scivolava in ginocchio sulla balaustra); sei riuscita a non macchiare il cappotto e i guanti, una vera raffinatezza. Ti ricordi? Dopo un breve grido di stupore non emise alcun suono; non lo guardavo in volto, ma mi sembrò come se avesse accettato quella morte quasi con serenità, come l’inevitabile finale di una storia già compromessa.
Se ci pensi, Edvige, tuo marito aveva accettato quell’epilogo già da molto tempo. Quando ti sorprese con il mio cappello stretto tra le mani come una reliquia, appena fuori dal negozio di fiori (io ero nascosto dietro un pilastro del porticato, volevo avere una testimonianza diretta di quell’istante) il suo sguardo era dolcemente consapevole. Intendo prima del prevedibile scoppio d’ira che attirò la curiosità dei passanti sul marciapiede, un istante prima di urlarti quelle parole così infamanti e un poco ingiuste; fu come, Edvige, se in quell’attimo avesse accettato di recitare un ruolo, una parte nel dramma che tu avevi scritto per lui. La scenata di gelosia era la prima scena.
Da lì in poi fu tutto elegante e un poco artificioso, come in certe tragedie francesi. Non c’era un pubblico da accontentare, o meglio noi tre eravamo attori e pubblico di noi stessi (e non è in fondo questo il paradigma della vita, Edvige? Non metterò forse in scena per me stesso il dramma della mia morte?). La zuppa che preparavi per cena, le passeggiate sul Nevskij, le poche compere che ti concedeva, cadenzavano quiete il cammino verso la fine come la voga dei rematori delle scialuppe a Kronštadt. Anche i nostri incontri clandestini da quel giorno avevano perso quella vivace spontaneità, quella vena di alea che li rendeva così desiderabili all’inizio. Senza accorgertene avevi un po’ sciupato la tua infedeltà, quell’angolo oscuro e seducente della tua vita borghese; avevi incrinato il vetro dell’incantesimo, come quando al Mariinskij guardavi il balletto e d’improvviso la prima ballerina ti appariva un automa, un robot caricato a molla dai movimenti innaturali e incomprensibili (non è la bellezza nient’altro che una arbitraria convinzione?). Perciò, quando ti chiudevi alle spalle la porta del mio studio e affrettavi il passo sul marciapiede avevi perso un po’ di quella malinconica paura che qualcuno potesse capire. La spada del rimorso aveva perduto il filo.
Di sicuro, Edvige, quando mettesti il coltello insanguinato nella mia mano io lo strinsi spontaneamente. Tuttavia non stavo accettando la tua proposta, non stavo prendendo su di me una croce per sottrarla alle tue esili spalle, ma stavo recitando le mie battute con assorto impegno d’artista. Il violino non pesa sul braccio, il pennello non affatica il polso; la corda che stringerà il mio collo non lascerà altro segno che la giusta mercede dovuta all’opera da compiere. Non me ne rammarico; sarebbe sciocco, come rammaricarsi delle rughe sul viso quando si invecchia. Uccidere tuo marito era nei piani della divinità che ti mise sulla mia strada, Edvige; e, se non fosse stato per un curioso scherzo del destino (chi l’avrebbe detto, diventare l’amante della moglie del boia) oggi conoscerei con buon anticipo anche l’espressione sul viso del mio carnefice un istante prima di aprire la botola. A nulla varrebbe il cappuccio di velluto.
Non pensare troppo a ciò che sarà domani; finora hai scritto tu le battute, adesso forse ti scoprirai prigioniera di un drammaturgo più scaltro di te. Sia come sia, il pubblico è volubile e si annoia in fretta.
Ti giunga la mia ultima carezza.
Arrivederci

Vanja

 

 

 


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Mirco Mungari
Iaia, Incubus, 2020.