Preparare se stessi ⥀ Racconto di Claudio Kulesko

Per la sezione Laboratorio, presentiamo un racconto eco-horror, ispirato agli ultimi anni di latitanza di Unabomber, di Claudio Kulesko, Preparare se stessi

L’immagine che accompagna il racconto di Claudio Kulesko è una illustrazione di Sergio KalisiakThanatos, 2021.

 

 

Preparare se stessi

di Claudio Kulesko

 

 

l’istinto di sopravvivenza è naturale, ma non lo è il fatto di trovarsi inaspettatamente impegnati nella lotta per la vita o per la morte.
Matt Larsen, Survival

 

Conosci te stesso

 

L’intera valle era avvolta nella quiete del primo pomeriggio. Erano settimane che non mi capitava di imbattermi in un luogo così integro.
Ai piedi della collina, al termine del sentiero, c’era un abbeveratoio, uno di quelli ai quali i pastori conducono il bestiame nelle belle giornate. Lo scroscio dell’acqua pareva pervadere ogni cosa. Nell’aria, la brezza più gentile che abbia mai accarezzato questa terra.
Accanto alla fonte era nata una famigliola di alberi di fico, adombrati da un gelso che avrà avuto il doppio dei miei anni.
Il sole delle due sovrastava ogni cosa. Impassibile, indifferente.
Fu come essere già morti e, al contempo, più vivi che mai. Un angolo di realtà così vivido, così vero da far male. Eppure, così irreale.
La luce del sole sembrava penetrare fin dentro la fibra delle cose. Un sole che continuerà a splendere anche quando non ci saremo più; che continuerà a scaldare quelle cose, allo stesso modo in cui ha scaldato noi; che continuerà a esistere anche senza di noi, senza di me.
Poco c’è mancato che lasciassi cadere il fucile per la commozione.
Mi sono lanciato giù dal sentiero, inciampando un paio di volte sulle rocce. Ho corso fino alla fonte, senza curarmi delle sentinelle; senza neppure chiedermi cosa sarebbe accaduto se l’acqua fosse stata avvelenata alla sorgente. Non lo era. Non c’era nessuna sentinella. Me lo sentivo. Me lo sentivo dentro, come una verità inconfutabile.
L’acqua era fredda ma non gelida. Mi sono levato le scarpe. Ho bevuto, mi sono lavato, ho riempito le borracce e mi sono seduto sull’erba, nascosto dalla chioma del gelso.
Se i gelsi fossero stati maturi, credo che sarei anche potuto andare fuori di testa. Io, che prendevo per il culo Therese perché le piaceva andare a camminare nei boschi con quei vecchi scarponi rosa.
Erano giorni che non mi fermavo per più di mezz’ora.
Mentre me ne stavo lì, con gli occhi chiusi, mi sono reso conto che ci hanno riportato indietro di un milione di anni. Siamo come quei topi preistorici che uscivano allo scoperto solo di notte, quando i dominatori del mondo sonnecchiavano placidi.
Mi sono tornati in mente la mia vecchia Volvo, l’ufficio, la gente che incontravo nei locali. Una processione di volti, di nomi. C’era quel broker in tuta che parlava sempre di criptovalute (Dave? Dale?).
Oggi è la parola “locale” a sembrarmi assurda, vaga, generica. Che facevamo là dentro? Com’è anche solo possibile che quei posti fossero stati davvero costruiti al termine di duecentomila anni di storia? Cosa se ne fa un topo di duecentomila anni di storia imbottiti di cagate tropicali piene di zucchero e musica commerciale?
Chissà se sono ancora in grado di guidare.
“Forse, se avessi passato più tempo con Therese, sarei riuscito a cavarmela meglio”. È stato questo che ho pensato, a un certo punto.
Solo ora mi rendo conto che il vero significato di queste parole è: “saremmo riusciti tutti a sopravvivere”.
In un certo senso, però, sento che è ancora con me. Ogni volta che scalo un sentiero ripido, che accendo un fuoco, che affilo una lama, che preparo una trappola, io ne percepisco la presenza. La sua forza, la sua determinazione, io le porto con me, accanto al fucile e al coltello. 

La verità è che mi manca. Come mi mancate tanto anche voi, mamma, papà.
Vi scrivo questa lettera perché non so per quanto ancora potrò resistere.

Vi voglio bene e vi porto tutti sempre con me.

 

Anticipare le paure

 

Ho incontrato una pattuglia nel bosco. Erano in quattro: tre a piedi e una sentinella appollaiata sul ramo di un albero. A cento, centocinquanta metri. Così vicini che potevo vederne gli occhi, neri e lucidi, sotto gli elmetti.
Erano impegnati a discutere tra loro e a prendere delle misure. Per questo, forse, non mi hanno visto. Uno di loro stava gesticolando in direzione della strada, roteando il braccio da una parte all’altra, come per circoscrivere un perimetro ideale. Quando ha terminato di illustrare il suo piano, uno dei suoi, il più basso dei tre, gli ha risposto emettendo un verso rauco, profondo, quasi un ruggito. Ha fatto un passo avanti e si è andato a piazzare proprio di fronte al primo, indicando in direzione opposta, verso nord.
Il terzo era visibilmente agitato. L’ho capito da come frustava l’aria con la coda. Sembrava un grosso gatto incazzato.
Quello che stava gesticolando ha smesso di colpo. Ha abbassato entrambe le braccia e si è voltato appena verso quello nervoso, facendo schioccare le mandibole, come a dire: “Che cazzo sta dicendo ‘sto qua?”.
Sarà stata la fame, ma stavo quasi per mettermi a ridere: i Tre Marmittoni del Regno delle Ombre.
Senza neppure un attimo di preavviso, il piccoletto gli è saltato addosso. Chissà, forse soffrono anche loro di complessi di inferiorità? Mentre cadevano a terra, uno dei due è scoppiato in urlo stridulo che ha fatto impazzire gli uccelli. Non so dire quanto è durato. L’eco del grido, lo strepitìo degli uccelli, i loro guaiti animaleschi mentre si azzuffavano come cani in calore. Posso solo dire che è durato un sacco di tempo, almeno finché il terzo non li ha afferrati entrambi per le piastre dorsali. Non mi ero reso conto di quanto fosse massiccio e imponente. È stato solo quando l’ho visto sollevarli entrambi, e scagliarli in direzioni opposte, a qualche metro di distanza l’uno dall’altro, che ho capito che era il capo. Forse non in senso gerarchico, ma solo in quel senso, primitivo ed elementare, in cui anche gli esseri umani ordinano i rapporti di potere.
Ho deciso di ribattezzarlo Big Boy. Mentre gli altri due, d’ora in poi, saranno Jomini e Napoleone. Ho sempre avuto un debole per la storia.
Fatto sta che a quel punto, dopo l’intervento di Big Boy, Jomini e Napoleone se ne stavano buoni. Ciascuno nel proprio angolo, a ripulirsi le armature dalla terra e dalle foglie morte.
Per tutto il tempo, la sentinella non aveva fatto una piega. Idiotica e solerte come un piccione ammaestrato. Si è mossa solo quando Big Boy le ha fatto segno di scendere a terra, puntando verso il basso con un gesto incazzato e sibilando un ordine in quella lingua simile al fruscio della carta.
Dopo che quella è scesa planando sulla radura, Big Boy le ha esposto con pazienza il problema, indicando prima a sud, verso la strada, e poi a nord, in direzione dell’intrico di sentieri che conduce al limitare della periferia.
Jomini e Napoleone sono rimasti a guardarli in silenzio, senza neppure fissarsi in cagnesco da un capo all’altro della radura. Era come se avessero del tutto dimenticato la loro zuffa.
Una perlustrazione dall’alto. Ecco cosa Big Boy stava chiedendo alla sentinella.
Appena ho realizzato quello che stavano per fare, sono corso via. A questo punto, non me ne frega un cazzo di non essere visto. Non avranno il bosco. Non lo raderanno al suolo, né lo bruceranno. Non glielo permetterò.
Sono salito in cima alla collina, sul versante che dà sul bosco.
Non appena la sentinella si è alzata in volo, le ho sparato. Quella si è inarcata tutta, come se fosse stata colpita da un fulmine. Ha svolazzato in cerchio un paio di volte. Di nuovo il brusio degli uccelli, le loro grida incomprensibili più in basso. Le ho sparato di nuovo e quella è crollata verso il basso, con le ali puntate dritte contro il cielo, come un oca abbattuta. Poi, sono fuggito, più veloce che potevo, buttandomi tra i rovi e gli ammassi di arbusti.
Appena arrivato al capanno mi sono subito guardato allo specchio. La giacca era lacera in più punti e avevo graffi dappertutto. La maggior parte, però, erano sulla fronte e attorno agli occhi.
Arrivato a sera, posso finalmente dirlo: per ben due volte, oggi, mi sono comportato da sconsiderato. E mi è andata bene entrambe le volte.
Quel che non sono ancora riuscito a superare è ciò che ho visto riflesso nello specchio. Un uomo magro, stanco, con le guance scavate e la barba lunga. Gli occhi da pazzo.
Ogni singolo rumore mi manda ai matti. Vorrei gridare, urlare che sono qui, che sono ancora qui.
Tutto quel che ho potuto fare, alla fine, è stato solo starmene in silenzio e farmi la barba.

 

Siate realisti

 

Circa otto chilometri a nord. Dieci a est. Non più di sei in direzione sud/sud-ovest. Questo è tutto quel che rimane del bosco. Al di là non ci sono che terra bruciata e asfalto. Fino a una decina di anni fa, quest’angolo di pace faceva parte di una rete di boschi, valli e macchie che occupava buona parte dell’entroterra. L’ho scoperto da poco, un paio di mesi fa al massimo, sfogliando alcuni vecchi libri trovati in una villa sul margine settentrionale.
È pur sempre possibile che la distruzione delle aree boschive sia cominciata ancor prima del loro arrivo, che le attività umane abbiano inflitto gravi danni alla vegetazione e alla fauna locali già da diverso tempo. D’altronde non era quello che diceva la ragazzina con l’impermeabile? Le marce, le proteste, gli Accordi di Parigi e via dicendo. (Chissà che fine avrà fatto quella ragazzina?). Ritengo, tuttavia, che l’invasione abbia rappresentato una sorta di spartiacque all’interno di quello stesso processo: un’accelerazione a ritmi inumani. Tutto quello che noi sappiamo fare ‒ in bene o male ‒ loro lo sanno fare tre volte meglio e quattro volte più rapidamente.
Dico così perché li ho visti all’opera.
Non so come stia andando da altre parti. Né vi è più modo di saperlo. Sono questioni che Therese avrebbe saputo affrontare meglio di me. Tutto quel che so è che questo posto, ormai, è diventato la mia casa.
Il capanno è situato più o meno al centro del bosco, su un’altura non troppo distante dal vecchio sentiero. Per certi versi, è un regalo. Se non fosse stato per il precedente proprietario, non sarei mai riuscito a individuarne la posizione. Questo è certo.
L’ho incontrato a margine di un sentiero, mentre vagavo senza meta, attendendo che il bosco reclamasse la mia vita. Aveva uno squarcio all’altezza del fianco e aveva già perso parecchio sangue. Era a un passo dallo scivolare nella semi-incoscienza, ma è comunque riuscito a spiegarmi a grandi linee quel che gli era accaduto, e a indicare con il dito l’ubicazione del capanno. È ironico, essere feriti a morte da un cinghiale nel bel mezzo di un’invasione extradimensionale. Ma credo faccia pur sempre parte del destino di un cacciatore. Questo genere di incidenti, intendo, non l’essere costretti a uccidere per sopravvivere.
Ci ho messo quasi due giorni a trovare il capanno. Ma se quei  giorni non sono stati, anche, i miei ultimi,  lo devo unicamente al mio anonimo benefattore. Al mio arrivo, ho trovato la dispensa piena di conserve, cibo in scatola, frutta sciroppata, leccornie sotto sale. Quasi tutto quel che possiedo apparteneva a lui, a esclusione delle poche cose recuperate nelle case che attorniano il bosco, e che sono riuscito a trasportare fin qui.
Come il mio predecessore, il bosco mi fornisce tutto ciò di cui ho bisogno. Che è ben poco, se paragonato a ciò di cui credevo di aver bisogno fino a qualche tempo fa. Non ci è voluto molto, tuttavia, per rendermi conto che “poco” è il nuovo “tanto”.
Nonostante abbia ancora la dispensa piena, centellino il cibo, quanto basta per tenermi in forze. Sono pienamente consapevole che, quando si esauriranno le scorte, per me sarà, con ogni probabilità, la fine. Settimana dopo settimana, il clima sta cambiando: oggi, qualche etto di noci raccolte nel folto rappresenta un bel bottino. Ma non ci vorrà che qualche mese, prima che anche questa miseria si trasformi in un pallido ricordo.
Là fuori, le attività di terraformazione hanno causato la totale scomparsa della fauna, mentre la vegetazione, da quel che so, viene impiegata per la produzione di fertilizzante e biocombustibile. I pochi animali rimasti, a questo punto, saranno già stati mangiati dagli ultimi poveri stronzi sopravvissuti qua e là per il continente. Volpi, conigli, fagiani, pernici, arvicole, scoiattoli, cani selvatici, e persino qualche daino e qualche sparuto cinghiale, resistono solo all’interno dei boschi. Immensi bacini di biomassa, carichi di vita e di energia, sui quali i nostri nuovi dominatori non vedono l’ora di poter mettere le mani.
È per questo che, l’altro giorno, non sono riuscito a trattenermi con quei tre e il loro dannato cane volante. Il solo pensiero che questo posto e i suoi abitanti ‒ me compreso, ovviamente ‒ possano essere annientati mi riempie di una rabbia così grande, che non ricordo di non averne mai provata una uguale (più di quella volta che, al ritorno da scuola, mamma mi disse che Tito, il gatto di casa, era stato investito da un auto).

Ho scoperto di non essere in grado di uccidere gli animali che vivono nel bosco. Mi ricordano me. Tutte le volte che ho provato ad alzare il fucile e prendere la mira mi è parso di stare per sparare a me stesso. O a te, negli ultimi giorni passati assieme. In fin dei conti, anche se cominciassi a sparare a tutti gli animali che vedo, non basterebbero a sostentarmi per un mese, tanto pochi ne sono rimasti. Tutto ciò mi ha condotto a cambiare prospettiva sulla questione: sono dei rifugiati, come me. Come lo eravamo noi. Sono diventato vegetariano, cara Therese, anche se a questo punto è un po’ troppo tardi, credo. Saresti davvero fiera di me. 

 

Adottate un atteggiamento positivo/Preparazione

 

Stamattina mi sono messo alla ricerca di un po’ di asparago selvatico, finocchietto, senape. Le piccole cose che rendono ancor più gradevoli queste ultime giornate primaverili.
Stavo risalendo un pendio quando, d’un tratto, ho notato del movimento all’altro capo della valletta. Mi sono subito appiattito a terra e ho tirato su il cappuccio della mantella.
Hanno sfilato davanti ai miei occhi uno dopo l’altro, attraversando come ombre lo spazio vuoto tra gli abeti. Li avrei riconosciuti ovunque. Big Boy, Jomini e Napoleone.
Imbracciavano quelle che mi sono parse armi da fuoco. Oggetti oblunghi, stratificati, all’apparenza molto complessi.
Si erano inoltrati parecchio, più di quanto avessero mai fatto. E, stavolta, si erano anche portati appresso tre sentinelle. Due in più dell’ultima volta. Era evidente che non volessero correre rischi.
Il loro stile è più semplice, più diretto: individuano o creano un punto d’accesso, e vi trasportano in blocco tutta l’attrezzatura. Da quel momento in poi, le macchine si occupano di tutto, mentre gli operai, in prima linea, si limitano a sgomberare loro la strada.
Chiaro come il sole che è me che stanno cercando. Per loro, la possibilità che con me vi siano altri sopravvissuti rappresenta un’incognita da eliminare al più presto.
Scommetto che ciascuna di quelle immense macchine che usano per eradicare e sminuzzare gli alberi costa più di un plotone di artiglieria, e che basta un sasso per metterle fuori uso. Se non fossi rimasto solo, forse, avremmo potuto tenerli sotto scacco per giorni. Se.
Se avessi puntato contro di loro il fucile e avessi fatto fuoco, una, due, tre volte, forse sarei riuscito a farli fuori, uno dopo l’altro. Forse le loro armi sono imprecise, inadatte a scontri in ambienti così ricchi di ostacoli ‒ perché, altrimenti, temerebbero così tanto di inoltrarsi nel bosco? Forse, dopo aver fatto saltare loro le cervella, sarei riuscito a scappare, a raggiungere il capanno e a starmene in pace fino al momento in cui avrebbero inviato un contingente più grande. O, forse, le sentinelle mi avrebbero raggiunto e fatto a pezzi con i loro artigli.
Fatto sta che non ho fatto nulla di tutto ciò. Me ne sono rimasto buono buono a guardare, ben schiacciato a terra come un lombrico. Ho deciso di vivere ancora qualche altro giorno.
Me la sono filata via strisciando sui gomiti, con la rabbia che mi montava alla testa per l’impotenza. Superata una sporgenza di granito, al riparo tra la macchia e i cumuli di rocce, mi sono rimesso in piedi. È stata allora che l’ho vista, nascosta tra i cespugli, qualche metro sopra di me. Una volpe. Spostava di continuo lo sguardo, passando nervosa da me ai tre stronzi all’altro versante, roteando cauta la testa, così da captare ogni odore. Sono rimasto immobile, per non spaventarla. Ogni volta che i suoi occhi si posavano su di me, parevano implorare. Sembravano dire: “Fai qualcosa, ti prego, fai qualcosa”.
Non mi sono più sentito così solo. Di punto in bianco, l’impotenza e la disperazione sono evaporate dal mio corpo.
Appena mi sono mosso verso di lei, costretto ad aggirare il pendio dal lato più impervio, è fuggita via, trotterellando nel folto della macchia.
Sulla strada per il capanno, ho continuato a pensare a quello sguardo.
Sono certo che anche loro provino qualcosa, che anche i nostri invasori abbiano delle emozioni, dei sentimenti, dei codici di condotta morale. Ma quello che avevo visto negli occhi di quella volpe era totalmente diverso dal buio cosmico che pervade i loro. Qualcosa di radicalmente diverso.
All’università, una volta, seguii un corso sulla propaganda. Disumanizzare il nemico è qualcosa che l’essere umano ha fatto sin dagli albori della civiltà. Forse, si può dire che la civiltà stessa sia fondata sulla disumanizzazione, sulla degradazione spirituale e intellettuale, di ogni altro essere vivente. Ma cosa accade quando due civiltà si scontrano? Sono due schieramenti di mostri a scontrarsi, ecco cosa accade. A meno che uno dei due non possieda mezzi così imponenti, così schiaccianti, da obliterare l’altro senza possibilità di appello. Questo è esattamente quel che è accaduto alla specie umana. Loro sono i mostri che non siamo riusciti a diventare, che non abbiamo avuto il tempo di diventare. E ora, noi, siamo come quella volpe: creature imploranti, nelle quali freme ancora un’anima. Ma per quanto ancora?
“Spera per il meglio, preparati al peggio”, dice un vecchio adagio. Passo le giornate a raccogliere cibo, a costruire barricate con il legno e a scavare trappole. Qua e là attorno al capanno, nel raggio di circa un chilometro e persino nel folto del bosco, scavo grosse buche profonde qualche metro. Le riempio di canne e bastoni appuntiti, pezzi di vetro e lamiera che recupero nelle abitazioni, e ricopro il tutto con rami e foglie. Solo una volta, parecchi mesi fa, mi è capitato di trovarci un giovane cinghiale. È stata l’unica volta che ho mangiato carne nell’ultimo anno. Del resto, gli animali non sono facili da ingannare: se non ce li spingi dentro accerchiandoli da più direzioni, è difficile che cadano in trappola. Sentono a pelle che c’è qualcosa che non va.
Ma una volta (Cristiddio, mi si riempie il cuore solo a pensarci), una sentinella ci è atterrata sopra, a poche decine di metri dal capanno. L’ho trovata la mattina dopo. Ancora si agitava debolmente, agitando le ali e aprendo e chiudendo il muso allungato nel tentativo di gridare. Per fortuna ‒  anzi che dico, per miracolo! ‒ una canna le si era conficcata in gola, recidendole le corde vocali.
L’ho finita colpendola in testa con un bastone al quale ho assicurato con della corda un coltello da cucina, poi ho riempito la buca di terra. Non sta bene tentare la fortuna per più di una volta.

Ogni sera, dalle cinque alle sette, affilo tutti i coltelli che ho in casa, mi assicuro che i proiettili siano asciutti, controllandoli uno a uno, e pulisco il fucile. Ogni volta nello stesso ordine. Ogni volta gli stessi gesti.
L’ho fatto per mesi, prima di rendermi conto di cosa mi stesse succedendo. Disturbo post-traumatico da stress. Me ne parlò, anni fa, una tipa con cui uscii un paio di volte. Faceva la terapeuta, ed era rimasta colpita dalla regolarità e dalla precisione con le quali certi suoi pazienti mettevano in atto certi rituali, alcuni anche parecchio complessi e articolati. A quanto pare, servono a far sì che, nel caso in cui la situazione che ha condotto al trauma si ripeta, la vittima si senta pronta ad affrontarla. O almeno, questo è quel che lei mi ha spiegato.
È esattamente così che mi sento. Come se mi trovassi di fronte a una sorta di matematica del disastro. Il mio unico compito, ora, consiste nel trovare assiomi, individuare premesse e risolvere problemi.

Hanno trovato il capanno.
Nel cuore della notte, la radio ha intercettato le loro frequenze. Anzi, ne è stata letteralmente travolta. Dovevano essere così vicini, che il sovraccarico elettromagnetico ha fatto saltare un fusibile. Per pochi secondi, sono riuscito a sentire alcuni stralci del messaggio. Non si capiva nulla, ovviamente, se non che erano parecchio agitati. Poi è saltato tutto.
Sono subito uscito a controllare, portando con me solo la mantella e il fucile. Ho sentito dei rumori, in lontananza. Non troppo vicini ma neppure così lontani da potermi sentire fuori pericolo. Per quattro volte, ho fatto il giro del capanno, allargando ogni volta il raggio di qualche metro. Pronto a sparare al minimo rumore. Purtroppo, era così buio che sono stato costretto a rientrare non appena giunto a margine del bosco.
Non credo che riuscirò a chiudere occhio, ma sono pronto. Vi aspetto.

 

Imparare tecniche di gestione dello stress

 

A volte è meglio portarsi avanti con il lavoro.
Ho aspettato per ore, acquattato a terra come un animale, il fucile puntato alla porta. Immobile. Fuori non si sentiva volare una mosca.
Quando hanno cominciato a tremarmi le mani ho capito che non avrei potuto continuare così a lungo. Non potevo starmene lì e basta, ad aspettare che venissero a prendermi.
Se ne stavano nascosti nel bosco, in silenzio, aspettando un passo falso. Ho realizzato di trovarmi nel bel mezzo di un assedio. Ero stato stupido. Davvero, davvero stupido. Come ho fatto, anche solo per un istante, a pensare che dovessero per forza passare dalla porta?
Ho abbassato il fucile e sono scoppiato a ridere. Mi sono sentito un vero coglione.
Ma, forse, è quando si crolla, quando ogni speranza è morta e sepolta, che si diventa davvero lucidi. È come inserire dell’olio all’interno di un motore: ogni ingranaggio, ogni rotella, comincia a funzionare meglio, a girare più velocemente. La speranza è la ruggine del cervello.
Di colpo, mi sono reso conto di avere un vantaggio sui miei avversari. Loro non sapevano che io sapevo. Bel colpo, Sun Tzu.
Nello sgabuzzino, oltre ai viveri, ai proiettili e al combustibile, il precedente proprietario aveva stipato quelli che, lì per lì, entrando per la prima volta nel capanno, mi erano parsi beni superflui. Libri, giochi da tavolo, mazzi di carte di diverso tipo, rompicapo da viaggio. Ma, soprattutto, un vecchio stereo portatile, di quelli che andavano negli anni ‘90.
L’ultimo scaffale in alto era quasi del tutto occupato da una collezione di audiocassette (roba niente male, dagli Audioslave a Zappa, passando per Beatles, Blur, Radiohead, Dream Theater, Rolling Stones).
È davvero un peccato non averne mai potuto ascoltarne nessuna. In situazioni come quella in cui mi trovavo, la musica sarebbe stata un piacevole diversivo, un modo per sentirsi ancora pienamente umani. Non te ne rendi conto finché non arrivi al punto di rottura, quando ti rendi conto di aver vissuto costantemente in punta di piedi. Oggi non sento più di poter biasimare il mio ex-padrone di casa per aver ammassato tutta quella roba nella dispensa. Anche perché, per la seconda volta in un anno, è grazie a lui se sono ancora vivo.
Mi sono messo alla ricerca di una cassetta in particolare ‒ una di quelle che avrei ucciso pur di poter ascoltare: Bill Hicks, Relentless, 1992.
Una. Vera. Chicca. Potete starne certi.
C’è voluto un attimo. I titoli erano disposti in ordine alfabetico (grazie ancora, Mr. Precisino). Ho inserito nello stereo un paio di batterie nuove di zecca, e ficcato la cassetta nel mangianastri. Mi sono nascosto il fucile nei pantaloni, dietro la schiena, mi sono assicurato il coltello alla cintura, e ho coperto il tutto con la giacca più larga che sono riuscito a trovare. Poi, ho aperto la porta e sono uscito dal capanno, col cuore che batteva come un martello pneumatico.
Mi sono diretto verso lo sgabuzzino sul retro, cercando di apparire disinvolto, come se nulla fosse. Non potevo essere certo che là dietro non mi avrebbero visto, ma valeva la pena fare un tentativo. Saranno state all’incirca le due, ma lo spiazzo era ben illuminato dalla luce della luna. Nel chiarore, si riusciva a distinguere quasi ogni cosa.
Dopo pochi metri, ho capito che non mi avrebbero sparato a bruciapelo sull’uscio di casa. Dovevano innanzitutto capire in quanti eravamo. Nulla, tuttavia, impediva che lo facessero qualche metro più in là.
Per tutto il tragitto non ho fatto altro che pregare, ripetendomi di continuo nella testa: “Ti prego, fai che le batterie siano ancora buone. Ti prego, ti prego”.
Svoltato l’angolo, ho tirato un sospiro di sollievo e allungato il passo. Non ci sarebbe voluto molto prima che si accorgessero che non c’era nessun’altro con me. Ho nascosto lo stereo tra l’erba, a pochi metri dallo sgabuzzino e ho premuto play. Quando il nastro ha cominciato a girare, è stato come se mi avessero appena detto che era stato tutto un brutto sogno. Potevo farcela.
Dopo qualche secondo, la voce aspra, rancorosa, di Bill ha cominciato a uscire dalle casse.
In quel momento, mi è parsa la voce più dolce e melodiosa che avessi mai sentito.
È ironico che la cassetta abbia attaccato dal punto in cui Hicks si domanda perché la gente si porti dietro delle armi nel caso in cui avvisti un UFO.
Bella storia Bill: l’amore universale, homo homini lupus, le porte della percezione. Tutto vero. Tutto sacrosanto. Ma si dà il caso che quegli sciroccati armati fino ai denti avessero proprio ragione. La situazione in cui mi trovo ne è la dimostrazione.
Ho alzato il volume dello stereo al massimo è sono corso ad  appostarmi tra i cespugli, in attesa che succedesse qualcosa.
Dietro di me c’era solo la montagna: una parete rocciosa dura e liscia, punteggiata da piccoli arbusti cresciuti tra le insenature. Dall’altra parte, seminascosti dalla sagoma scura del capanno, c’erano lo spiazzo e il pendio che conduceva verso il sentiero. Era da lì che sarebbero arrivati, se non avessero deciso di mandare le sentinelle in avanscoperta.
In ogni caso, non era l’unico trucchetto che avevo in serbo per loro.
Non ci è voluto molto prima che qualcuno facesse capolino da dietro il capanno. L’ombra del prefabbricato ne nascondeva i lineamenti, ma l’ho comunque riconosciuto a prima vista. Una figura minuta, gracile, che avanzava rapida, ostentando sicurezza. Napoleone. A tradirlo era solo il modo in cui si guardava attorno: si vedeva chiaramente che era teso come una corda di violino. Portava con sé quello strano cannone pieno di arzigogoli e scanalature che avevo visto nel bosco.
Quando ha individuato il punto da cui proveniva la voce di Bill, ha esitato, come se sospettasse qualcosa. Si è fermato all’angolo del capanno, si è portato l’arma all’altezza degli occhi, poi l’ha abbassata di nuovo. Ha fatto qualche passo nella mia direzione ed è rimasto immobile, col muso leggermente alzato, quasi stesse fiutando l’aria tutt’attorno. Per un istante, ho temuto che lo stesse facendo per davvero. Ma poi ha ripreso a camminare, con l’arma spianata davanti alla faccia, sollevando ben bene le grosse zampe artigliate a ogni passo per non far rumore. Giunto a un passo dallo stereo, si è fermato di nuovo. Ha guardato a destra e a sinistra e ha sfiorato il dispositivo con la punta della zampa destra. Pareva incuriosito.
Quando si è acquattato per esaminare lo stereo più da vicino, deve aver notato il baluginio del metallo tra i cespugli, perché si è voltato a guardare dritto verso di me. L’ultima cosa che ha visto deve essere stata la fiammata dello sparo. Forse l’ho solo immaginato, ma mi è parso di udire uno scricchiolio stridulo provenire dalle lenti protettive del suo elmetto. Per un lungo istante, Napoleone è rimasto in bilico sui talloni, ondeggiando qua e là, quasi stesse realizzando solo in quel momento di essere spacciato. Poi, senza emettere fiato, è scivolato sullo stereo, tramutando il monologo di Bill in un’eco lontana.
Un secondo dopo, dal capanno ha cominciato a provenire un gran casino. Dovevano aver fatto irruzione, proprio come avevo sperato. Mi sono alzato in piedi e ho mirato alla finestrella del capanno. In quel momento, dall’angolo opposto a quello da cui era giunto Napoleone, è spuntato qualcun altro. Di colpo, Jomini ha invaso il mio campo visivo, fermandosi a qualche centimetro dagli oscuranti spalancati. Doveva aver fatto il giro, così da sfruttare l’effetto sorpresa fornitogli dal compagno più avventato. Visibile com’ero, sotto la luce della luna, ci ha messo un attimo a individuarmi. Ha imbracciato il cannone e si è abbassato di scatto, credendo di essere lui il mio bersaglio.
I grilletti delle nostre armi sono scattati all’unisono. La mia con un click, seguito da un boato. La sua con una specie di risucchio, accompagnato da un bagliore accecante. L’aria alla mia destra è stata risucchiata in una sorta di vuoto pneumatico, come se la pressione atmosferica si fosse abbassata di colpo. Per un attimo, ho creduto che sarei stato attratto in quel gorgo, per essere stritolato dall’immensa forza delle correnti d’aria. Ma ero stato mancato.
Forse per paura di essere tenuto sotto tiro, forse per la fretta di sparare, Jomini aveva mirato qualche centimetro più in là rispetto al punto in cui mi trovavo, prendendo il pieno la parete rocciosa alle mie spalle.
Purtroppo, non ho avuto modo di verificare gli effetti di quell’arma sul paesaggio circostante, perché quelli del mio colpo sono stati di gran lunga più devastanti.
Il capanno è esploso come un vulcano, proiettando nel cielo una fiammata, scagliando pezzi di legno e lamiera in ogni direzione. Jomini è stato sbalzato in direzione della parete rocciosa, non troppo lontano da dove ero stato scaraventato anch’io. Ero piuttosto certo che la deflagrazione ravvicinata e l’impatto col terreno fossero stati sufficienti a ucciderlo o, quantomeno, a fargli perdere i sensi.
Per quanto riguarda le sentinelle e, forse, addirittura Big Boy, dovevano essere stati semplicemente spazzati via dall’esplosione.
Quella stessa mattina, poco prima di pranzo, avevo portato dentro una grossa bombola di acetilene da saldatura, ripromettendomi di levarmi di torno un paio di lavoretti dentro casa. Per quanto dimenticarle nel bel mezzo del salone sia stato pur sempre un errore (grave, anzi, gravissimo), si era rivelato provvidenziale. Era bastato spegnere ogni fiamma libera, ogni singolo dispositivo elettronico, aprire entrambe le valvole a vuoto, e aspettare il momento giusto. Fossi stato un po’ più accorto, un po’ meno sovrappensiero, sarei senza dubbio finito maciullato dalla misteriosa arma di Jomini.
Dopo l’esplosione, l’intero spiazzo è sprofondato nel silenzio. Era il mio momento, dovevo filare via prima che arrivassero i rinforzi.
Sono scattato in piedi, ignorando il fischio nelle orecchie, e ho fatto per andarmene.
Non avevo neppure fatto un passo che mi sono sentito afferrare per un polpaccio. Sono crollato a terra, la gamba pervasa da un dolore bruciante.
Nel trambusto non mi ero accorto che Jomini ‒ con ogni evidenza, più coriaceo di un qualsiasi homo sapiens ‒ si era portato sotto di me, strisciando sull’erba. Ora, era proprio dietro di me, con gli artigli della mano sinistra affondati nel muscolo della mia gamba. Con la mano libera, tentava di aggrapparsi all’altra gamba, fendendo furioso l’aria ed emettendo barriti striduli, mentre io scalpitavo sotto di lui come un vitello trascinato a terra da un leone.
D’un tratto, mi sono ricordato del coltello. Sono scivolato con la mano verso la fondina, ho fatto saltare il bottone di sicurezza e ho stretto il manico tra le dita. Rigirandomi di colpo sul dorso, a costo di farmi squarciare dai suoi artigli acuminati, mi sono tirato su quasi del tutto, e ho affondato la lama nel braccio di Jomini, all’altezza del gomito.
Quello ha urlato o, comunque, sputato fuori qualcosa che assomigliava a un urlo di dolore, e ha mollato la presa. Ho visto il suo sangue schizzare copioso attorno alla lama, sebbene non riesca a ricordarne il colore, né l’odore. Poi, gli ho sferrato un calcio sulla mascella e sono schizzato via, arrancando tra la polvere e le fiamme.
Senza mai guardarmi indietro, ho imboccato il sentiero che conduce sulla vetta, cadendo e rialzandomi più e più volte. Finendo in mezzo ai rovi. Sprofondando nel fango. Nel buio più totale.
Circa un’ora più tardi, la luna cominciava a calare verso l’orizzonte. Dopo aver completato il primo giro attorno alla montagna, sono crollato a terra, stravolto.
Per puro caso, mi sono accorto di essermi fermato proprio sopra al capanno. Il vento portava con sé l’odore del fumo e della plastica bruciata. Preso dalla curiosità, mi sono sporto tra i rami al margine della strada, così da poter guardare in basso. Con mia sorpresa, da quell’altezza, lo spiazzo ancora invaso dalle fiamme risultava ben visibile tra le chiome degli alberi.
Poco c’è mancato che mi prendesse un colpo.
Quella che per quasi un anno era stata la mia casa, tutto quello che possedevo, non c’era più. Ma non era stata questa constatazione a riempirmi d’angoscia. Ai margini del bosco, a metà tra il sentiero e la viuzza che conduceva al capanno, c’era Big Boy. Svettava tra la vegetazione, inconfondibile, alto quasi quanto un prugno selvatico.
Qualche metro sopra la sua testa, due sentinelle volteggiavano placide, descrivendo un’ampia circonferenza nel cielo notturno.
Dietro di lui, lungo tutta l’ampiezza del bosco, uno stuolo di sottili colonne di luce trafiggevano l’atmosfera, andandosi a perdere nel chiarore lunare: pattuglie, intente a perlustrare ogni singolo metro cubo di territorio boschivo.
D’istinto, ho ritratto la testa tra i cespugli per non essere scorto. Mi sono rimesso in piedi e, con la gamba in fiamme e il cuore in subbuglio, ho ripreso a camminare. 

Oggi, tutto ciò non mi appare più così importante.
Mi sono stabilito in un rifugio a pochi minuti dalla vetta: un posto a metà tra un eremo e una grotta di pastori. Qui si sta bene. C’è un silenzio innaturale, che mi fa sentire più vicino al cielo, più vicino a voi.
Non so se saranno prima loro a prendermi, o se saranno più rapidi la fame e il freddo. A ogni modo, spero che sia la montagna a reclamare la mia vita prima che lo facciano quelle creature. Per ora mi limito ad attendere, come ho sempre fatto negli ultimi due anni, da quando vi ho perso.
Spero, tuttavia, che il bosco e i suoi abitanti mi facciano un ultimo dono, che mi diano la forza di portare con me quanti più possibile dei suoi, dei nostri nemici.
Anche questa ultima penna, ormai, sta per esaurirsi. A presto Therese, mamma, papà.

Il vostro Theo.

 


Claudio Kulesko è un traduttore e ricercatore indipendente. Si occupa per lo più di pessimismo filosofico, realismo speculativo e filosofia contemporanea. Per Nero Edizioni ha tradotto Tra le ceneri di questo pianeta (2019) e Rassegnazione infinita (2021), di Eugene Thacker. È tra gli autori di Demonologia rivoluzionaria (2020).