Quanto di morte noi circonda ⥀ Intervista a Riccardo Frolloni
L’appuntamento di oggi della rubrica-inchiesta Quanto di morte noi circonda, volta a indagare l’immaginario contemporaneo del lutto, a cura di Luca Chiurchiù e David Watkins, è con il poeta e traduttore Riccardo Frolloni
«Quanto di morte noi circonda» è un verso di Elio Pagliarani. Ora, è anche il titolo di un’inchiesta di Argo sull’immaginario contemporaneo del lutto.
La morte è il rimosso del nostro tempo.
La morte è l’assillo del nostro pensiero e delle nostre scritture.
Queste due affermazioni, palesemente contraddittorie, coesistono nei discorsi dei nostri giorni, sgomitano alle soglie delle nostre impressioni e delle nostre incertezze. Abbiamo così deciso di porre alcune domande a scrittrici e scrittori che – venendo da vari ambiti e maneggiando vari strumenti – hanno affrontato la questione del lutto e della perdita, del rapporto con la morte e con la malattia, in un modo che ci interroga e ci costringe, di volta in volta, a prendere posizione.
È per vederci un po’ più chiaro. È per misurarci la febbre.
(L.C. e D.W.)
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Riccardo Frolloni è docente, poeta e traduttore. È inoltre fondatore de «Lo Spazio Letterario» e dirige la collana «Obtorto collo» per Industria & Letteratura. Tra i suoi lavori, teniamo particolarmente a segnalare le raccolte poetiche Corpo striato (Industria & Letteratura, 2021) e Amigdala (Aragno, 2024) e le traduzioni italiane di Ron Padgett e Richard Harrison.
Grazie mille per la tua disponibilità, Riccardo Frolloni. Partirei da una fine, se ti va. Il tuo libro di poesia Corpo striato (Industria & Letteratura, 2021) – dedicato a tuo padre morto, sul lutto per la morte di tuo padre – si chiude con questa nota: «La morte è reale. Pertanto usiamo la finzione, la narrazione, per esorcizzare, superare, elaborare la morte. Se avviene il transfert, allora a qualcosa è servito. Che sia questo viatico o crisma». Sono parole molto nitide, che però, da ultimo, restano comunque nel dominio delle ipotesi e dei se. E quindi ti chiedo: è avvenuto il transfert per te? È avvenuto per altri che hanno letto i tuoi versi? Può aiutare scrivere e leggere, quando si affronta un distacco?
Grazie a voi. Credo che il transfert sia avvenuto, nel tempo, dopo qualche anno dalla pubblicazione mi è capitato di tornarci sopra, di dover leggere qualche poesia in pubblico, e mi sono commosso, non per piaggeria, per narcisismo, ma perché mi sono reso conto che quel vuoto l’ho raccontato e questo racconto ora puntella le mie rovine. Se sia avvenuto anche per altri non saprei, penso, spero di sì. Ricordo che alla prima presentazione una ragazza si è avvicinata e commossa mi ha detto che aveva da poco subito la mia stessa perdita e mi ha ringraziato e ci siamo abbracciati, non me lo aspettavo, era ancora tutto troppo fresco, e la poesia era solo una grande schermatura dal reale, una grande finzione. C’è poi una mia cara amica che ugualmente ha perso suo padre, ed è un’ottima poeta, e le ho consigliato di scrivere, di leggere, anche se la mente in quei momenti è solo un mulinello che ti spinge nel buio totale del dolore. Più che leggere è l’aver letto che aiuta, mi tornavano in mente versi, parole, immagini di altri poeti che avevano scritto di morte, e questo mi sorreggeva, mi sorregge ancora, come se non fossi solo sul cuor della terra.
Una delle poesie più belle di Corpo striato, una delle due preghiere, come le hai intitolate tu, fa così: «Padre, tu che ora sei infinito | hai chiuso col passato, noi | invece ti cerchiamo nei frammenti, | nella ripetizione di parole, e sempre | sembri una poesia. Padre, dammi la forza, | fuori c’è un vento un vento un vento | strabico, come i pensieri». Mi pare significativo che il padre, invocato come un dio, finisca con l’assomigliare a una poesia, e che la poesia si contrapponga alle ripetizioni e ai frammenti delle parole comuni, insufficienti a ritrovare chi se n’è andato. Eppure, anche di ripetizioni e frammenti, di parole volutamente esauste, di parole che il vento se le porta via, sembra esser fatto questo libro. Come può e deve essere, allora, la parola dell’assenza, che incorpori e in qualche maniera sostituisca chi è morto? Qual è quella più giusta – se poi esiste – per rendere e, eventualmente, alleviare il dolore per la perdita?
Urca, mi chiedi troppo: non ho risposte universali. Per me la parola si è abbinata al silenzio e se è emersa dal silenzio era una parola ventosa, sbattuta, stirata, nebbiosa, inafferrabile. Un morto lo puoi sostituire con un simulacro, quindi ti illudi nel rituale, lo evochi con le parole o con i gesti, ti appaghi anche, una prassi commuovente, che a volte salva la vita, ma non serve a niente per chi è morto, se non per ricordarlo, e il ricordo serve solo ai vivi. Credo che il punto interessante sia invece il dolore e come si rapporta con la poesia: essendo questa una finzione, come qualsiasi arte, allora diventa un discorso di rapporto tra verità e finzione, tra verità e dolore. La mia poesia ha cercato di spogliarsi di tanto dolore posticcio, di tanta poesia posticcia, di tanta posa, di tana sceneggiata, forse per carattere, forse per cultura, non lo so, ma mi sembrava di non essere corretto con il mio dolore a renderlo più finto di quanto sia già nel raccontarlo, già prendere parola mi sembrava troppo, ho cercato di non andare troppo oltre, mi sembrava di cattivo gusto, sciacallaggio.
In Corpo striato fai il nome di Paul Auster. La sua influenza si sente chiara, specie quando “ti fermi” a riflettere in prosa. Quali sono stati gli altri autori a cui hai guardato e a cui ti sei rivolto, per il tuo lutto e per il libro, dato che un tuo verso, piuttosto pasoliniano, recita: «I primi a soccorrermi furono i poeti»? E perché proprio loro?
I poeti, a me contemporanei e viventi o morti e diversamente contemporanei, hanno formulato la morte da tante prospettive, e l’hanno resa estetica, un fatto dei vivi, vivibile, per quanto questo possa sembrare assurdo. Vivere la morte di cui scrivevano è stato molto utile, psicologicamente e artisticamente. Voglio citare un solo libro, Nox di Anne Carson, un libro-istallazione, dedicato alla morte del fratello dell’autrice, un capolavoro, incredibile. Al di là della poesia o della prosa, penso al cinema o alla musica, ad esempio al Cavallo di Torino di Bela Tarr e l’album di Mount Eerie A Crow Looked at Me.
Una domanda fuori tracciato, che però si può comunque legare alle precedenti. Quella tua poesia-preghiera mi ha ricordato La linea alba (Marsilio, 2007) di Antonio Santori, un piccolo capolavoro sommerso, un altro libro sulla paternità e sulla morte di cui tu sei uno dei pochi ad aver parlato e scritto. Anzi, ti confesso che ti conosco grazie a Santori: la prima volta che ti ho visto e sentito è stato a un evento per i dieci anni dalla sua scomparsa, mi pare. E mi aveva colpito quanto avevi detto in quell’occasione, e cioè, più o meno: «nella voce di Santori ho trovato quasi la voce di un padre». Me ne puoi parlare meglio?
La storia biografica di Santori mi ha colpito tantissimo, anche lui come me è vissuto in Canada, e anche lui, soprattutto in Saltata e in La linea alba, ha sperimentato un verso, una lingua, l’idea di un libro-progetto che sento molto affini. C’è una semplice grandezza nella poesia di Santori che è un peccato non sia maggiormente riconosciuta. Trovare dei modelli stilistici è difficilissimo, ci può piacere qualcosa qua e là, ma trovare proprio quello stesso tono, quella tonalità, quel clima, che senti chiaro leggendo, che ti risuona come un diapason, non è facile, con Santori è successo. Ricordo spesso le ultime pagine de La linea alba, quelle dove si parla proprio della matrice delle parole, stupende. In questo è un padre, perché mi aiuta a trovare le parole, o me le toglie, che per un poeta è la stessa cosa.
A proposito di voci. Tu sei anche un traduttore del distacco: hai infatti curato la trasposizione in italiano di Sul non perdere le ceneri di mio padre nell’alluvione (’roundmidnight edizioni, 2018) di Richard Harrison. Ecco, ti chiedo: com’è stato entrare nel dolore altrui così in profondità? Com’è stato tradurre il dolore di un altro?
Quando è morto mio padre avevo appena finito di tradurre Sul non perdere le ceneri di mio padre nell’alluvione, un libro meraviglioso che intreccia la morte del padre, l’alluvione dell’Alberta e l’ispirazione poetica, e quel modo di scriverne è stato fondamentale. Ho ancora oggi una bellissima corrispondenza con Harrison e sto cercando di raccogliere le forze per una sua antologia completa. Il suo modo piano di trattare il dolore è stato essenziale, non c’era caos, ma non per questo era meno doloroso, anzi, erano parole d’amore e perciò doppiamente dolorose. Mi ha fatto bene tradurlo, mi ha dato gli strumenti e una specie di vademecum per poterne parlare poi a mia volta. Mi ha aiutato a ridurre, a sottrarre tanto del superfluo, del non-necessario. Dire le cose essenzialmente funziona.
Protagonista di Corpo striato, oltre a tuo padre, oltre a te e alla tua famiglia, è anche una comunità intera, quella piccola, sempre più piccola, di un borgo di provincia delle piccole Marche, in cui tutti si conoscono e tutti hanno un soprannome; dove una morte prematura si può ancora trasformare in un lutto collettivo. Si avverte bene, questo, nel tuo libro: entrano come un vento – sempre un vento ossessivo – le espressioni degli altri, della gente che parla dialetto e che compiange un compaesano, ed entrano pure i personaggi più personaggi, e per questo i più teneri, di questa comunità. Ma si avverte pure uno stacco, una frattura tra te e loro, o comunque una tensione a partire proprio dai momenti in cui la comunità cerca di confortarti. E dunque la domanda: com’è ora il rapporto col tuo paese? O meglio: è cambiato dopo il tuo lutto?
Sono sempre fuggito dal mio paese, Sarnano, in adolescenza mi stava strettissimo, io volevo suonare, suonavo, e non avevamo interlocutori. Non aspiravo alla grande città, perché la grande città mi faceva paura, ma cercavo qualcuno con cui parlare, amici sostanzialmente. Per chi come me si stava interessando all’arte, alla letteratura e alla musica, non c’era niente nel paese: la biblioteca era spoglia e quasi inaccessibile, il cinema un anno apriva e l’altro chiudeva, senza una programmazione interessante, c’era (c’è) solo un pub che era un rifugio pessimo. Così, quando è morto mio padre, il rapporto col paese non è peggiorato, era già da anni che si stava sgretolando, è peggiorato piuttosto il rapporto con la casa. Il paese invece mi manca, ma platonicamente, amo le mie montagne, l’aria che c’è intorno, amo l’idea del paese, l’ho privato di tutta la storia. Con le persone del paese non ho rapporti da troppi anni, già dal liceo, che ho frequentato a Macerata, a cinquanta kilometri di distanza, e poi da quando vivo a Bologna, oramai sono dodici, tredici anni. Dovevamo fare una presentazione di Corpo striato a Sarnano, ma mia madre non se l’è sentita, e ho dovuto litigare anche con i ragazzi che mi volevano presentare.
Per restare in tema di comunità e fratture, di disastri privati e collettivi. Una delle foto di Corpo striato raffigura un edificio puntellato da impalcature antisismiche. Nel tuo ultimo libro, Amigdala (Aragno, 2024), rievochi invece il terremoto del 1997, che significa poi anche quello del 2016. Non so se ci hai fatto caso, ma le grafiche di questa rubrica, curate da Andrea Capodimonte, sono tutte ispirate a tracciati di sismografi. Joy Division, sicuramente, ma pure il fatto che l’esperienza del lutto ci è parsa fin da subito simile a quella di un terremoto. Oltre che per le sue immediate conseguenze di devastazione, emotiva e materiale, per l’effetto a lungo termine che essa porta con sé, ossia la presa di consapevolezza, obbligata, che la terra non è più stabile, o meglio che non lo è mai stata e mai più lo sarà. Com’è ora la vita alla luce del lutto? Com’è, insomma, vivere col terremoto?
I grandi lutti, i grandi traumi, come il terremoto o la perdita di una persona amata, sono situazioni limite, che mi interessano molto. Mi sono reso conto che ci sono diversi gradi del lutto e del trauma. Non voglio fare classifiche, è macabro e stupido, ma ci sono differenze evidenti: mi resi conto di questo già da ragazzo quando vidi il cambiamento negli occhi di un genitore che aveva perso sua figlia. Poi mi sono reso conto che la mia percezione di me, del mondo, delle cose, dei rapporti, è cambiata profondamente dopo la morte di mio padre, tante cose mi sono sembrate inutili, superflue, anche tante scaramucce, tante parole, le ho abbandonate, ho iniziato a fare molta fatica ad amare ed esprimere i miei sentimenti. Le conseguenze che io ho vissuto e sto vivendo le ho notate simili ma chiaramente molto più amplificate nelle testimonianze di quelli che vivono traumi enormi causati da catastrofi, guerre, ecc. C’è un poeta che mi diceva: sembra sempre che sia nella stanza accanto, non qui, ma qui accanto, non lo vedi, ma lo senti. Credo che sia vero, la frattura ti accompagna sempre, è dolce e pericolosa insieme. Poi vabbè, i Joy Division sono nel mio cuore, da ragazzi avevamo una tribute band dei Joy Division.
«Con la morte sembra che le cose acquisiscano il diritto di parola». Questo verso da Amigdala mi spinge a una provocazione, spero non troppo brutale. Come ti posizioni rispetto a quel «sembra»? Cioè: non ti pare che oggi il trauma sia diventato il pretesto per poter scrivere? Il motivo per cui si può, appunto, rivendicare non solo diritto alla parola, ma anche alla letteratura?
Non è brutale, è vero. Lo è per me almeno, mi sembra di aver scritto solo sciocchezze prima, di essermi rapportato solo a cose piccole, sicuramente per un mio errore di prospettiva, per una mia bassezza. Penso sia un discorso di rapporti: le cose non parlano, le facciamo parlare, e con la morte è più facile farle parlare, perché richiamano tanti discorsi, ricordi, emergono dal silenzio. Sarei stato più felice nello scrivere di altro, nell’essere in grado di scrivere di altro, non lo sono stato, sono stato costretto invece a scrivere di un trauma e continuo su questa scia, perché il resto non mi interessa più. Invidio chi ci riesce, tutto quello che finora ho scritto che non aveva a che fare con il trauma mi è sembrato stupido e brutto, falso. Non è stato un pretesto, scrivevo anche prima, è stato più importante però, le cose hanno iniziato a provocarmi più prepotentemente, e io non ho saputo fare altro che dargli parola.
E sempre da Amigdala altri due versi bellissimi, che sembrano compendiare il precedente: «mentre dalle finestre di casa volo via con tutti i fantasmi dei secoli, che di tutte | le parole mancanti, la più piccola, la lettera muta, è la voce di mio padre che manca». Come se, alla fine, tutta la letteratura che si può fare, tutte le parole che ci ostiniamo a radunare e usare a compensazione del nostro dolore, legate una con l’altra, insieme scritte spese e declamate, non possano fare altro che tracciare i bordi di un silenzio, la sagoma della voce che davvero vorremmo sentire, e che non viene da noi…
Mi pare chiaro, la poesia ha molto di più a che fare con il silenzio, con il non detto. Mio padre era un uomo di pochissime parole, o meglio, difficilmente si riusciva a sondare fino in fondo le sue parole. Per me la poesia sta tutta lì, allungo i versi per raccontare quanto poco ci sia e quanto si debba invece interpretare, sondare, connettere, per quanto fallimentare sia, e la bellezza tragica della poesia per me sta proprio lì, nel destino del fallimento, di tante parole per dire niente, il destino dell’uomo forse(?).
Infine una domanda che rivolgiamo a tutti gli intervistati. Il nome di questa rubrica è un verso di Pagliarani. Lo vorremmo usare come un termometro, provare a capire davvero «quanto di morte noi circonda», poiché i discorsi che circondano la morte sono, in questo senso, piuttosto contrastanti: da una parte ci viene detto che la morte è, per noi contemporanei d’Occidente, il rimosso per antonomasia, ciò che non vogliamo vedere e occultiamo costantemente; dall’altra, invece, che la morte è sovraesposta e che è (divenuta?) la vera e sola protagonista delle nostre storie. Che pensi al riguardo? Quanto di morte noi circonda?
Sono vere entrambe le cose, occultiamo e sovraesponiamo, che in fondo significa occultare in un altro modo, alla luce piena, abbacinante, non si vede niente. La morte vicina è diversa dalla morte lontana, non ci tocca la morte terza, e forse solo l’arte può rendere interessante, coinvolgente la morte terza. Se l’arte trasforma la morte terza in una morte prima, diventa inevitabilmente disgustosa o ridicola, perché non più vera morte ma sola esposizione del vivente, bandiera del proprio dolore, rispecchiamento pubblico del proprio dolore privato. Il dolore privato non ha alcun senso esporlo, è pietoso, perde di significato, almeno artisticamente. Parlarne, confidare, può essere terapeutico, ma non l’estetizzazione. Il dolore se esposto è già dolore terzo, e come tale va trattato, dolore altro, morte altra, le persone diventano personaggi, gli ambienti una scena da costruire. Più che morte mi sembra che la protagonista delle nostre storie sia la precarietà, l’insicurezza, l’ansia per il futuro. Se poi è possibile rispondere al verso di Pagliarani: mi sento pieno di vita, proprio perché la morte me la ricorda sempre, alcune cose le devo ancora ricostruire, ma ci stiamo lavorando.
*Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.
This work was supported from OP JAC Project “MSCA Fellowships at Palacký University II.” CZ.02.01.01/00/22_010/0006945, run at Palacky University in Olomouc, Czech Republic.