Quanto di morte noi circonda ⥀ Francesca Mazzotta intervista Carmen Gallo
La rubrica-inchiesta Quanto di morte noi circonda, a cura di Luca Chiurchiù e David Watkins, ci saluta prima della pausa estiva con un’intervista a Carmen Gallo realizzata da Francesca Mazzotta. Tutti i dialoghi finora pubblicati possono essere letti qui
«Quanto di morte noi circonda» è un verso di Elio Pagliarani. Ora, è anche il titolo di un’inchiesta di Argo sull’immaginario contemporaneo del lutto.
La morte è il rimosso del nostro tempo.
La morte è l’assillo del nostro pensiero e delle nostre scritture.
Queste due affermazioni, palesemente contraddittorie, coesistono nei discorsi dei nostri giorni, sgomitano alle soglie delle nostre impressioni e delle nostre incertezze. Abbiamo così deciso di porre alcune domande a scrittrici e scrittori che – venendo da vari ambiti e maneggiando vari strumenti – hanno affrontato la questione del lutto e della perdita, del rapporto con la morte e con la malattia, in un modo che ci interroga e ci costringe, di volta in volta, a prendere posizione.
È per vederci un po’ più chiaro. È per misurarci la febbre.
(L.C. e D.W.)
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Carmen Gallo insegna Letteratura inglese all’Università di Roma «La Sapienza»; è poetessa e traduttrice. Tra i suoi lavori teniamo particolarmente a segnalare la traduzione de La terra devastata (il Saggiatore, 2021) e i due libri di poesia Appartamenti o stanze (D’If, 2016) e Le fuggitive (Aragno, 2020).
Francesca Mazzotta è una studiosa e una poetessa. Ha pubblicato i libri di poesia Reduci o redenti (CartaCanta, 2016), Umbratile (Origini Edizioni, 2018), Gli eroi sono partiti (Passigli, 2021, opera finalista al Premio Dessì 2021) e Per non sparire (Industria e Letteratura, 2023).
Le dieci domande che seguiranno si atterranno a due “estensioni inter-visive”, una nel piano orizzontale e simbolico e una nel piano profondo.
La prima riguarderà il tuo spessore nella dimensione che precede e prepara il tuo mestiere di autrice di versi (rispetto all’immaginario della tua opera e alla sua filiazione) e quello di docente e saggista.
Per quanto riguarda il piano della profondità, le domande successive si concentreranno sul tuo impegno di ricercatrice all’indietro, più tecnicamente, ovvero sul ripescaggio di quella ombra «striding behind us» – sia dei due poeti che hai tradotto (l’autore della Terra desolata, e Shakespeare del Romeo e Giulietta) sia di altri eventuali riferimenti.
Sull’animale. Nel passaggio, che cito a salti, di una poesia dal tuo libro Le fuggitive (Aragno, 2020), si leggono i versi «Ricostruire l’animale […] / non dalle ossa abbandonate, / ma dalle impronte che si allontanano», che qui integro con un altro piccolo frammento dal medesimo testo, l’emistichio e il verso «chi corre scompare / ma si porta dietro tutto».
La zampa dell’animale s’imprime, in modo non sempre settoriale (ovvero non sempre con richiami scientifici al mondo della zoologia) sulle pagine – viene fuori, piuttosto, la sagoma di un animale totemico, un insieme di pulsioni e istinti primigeni. Concentrandoci ancora sulla tua opera uscita per l’editore Aragno, cioè Le fuggitive, e allacciandoci a questi ultimi versi, qual è il legame (se c’è) di sangue tra l’effetto e la causa dell’accaduto (nei versi), cioè tra la ricerca dell’impronta e il mucchio di ossa depositato? C’è stato uno sbranamento, o il deposito è di diverso tipo (archeologico, necessario, rituale)?
Ciò che mi interessa sono le tracce lasciate dall’animale, e in particolare le tracce lasciate da una corsa che immagino dettata dalla paura, dalla necessità di fuggire da un pericolo, che è come ben sottolinei un istinto molto profondo, legato alla sopravvivenza. Il centro è qui la ricostruzione di un soggetto, l’animale, che è possibile non solo attraverso le tracce della sua morte, e quindi attraverso i suoi resti di fossile irrigidito [le ossa], ma anche attraverso le tracce della sua vitalità, le impronte che ha lasciato quando ha cercato di difendere la sua vita fuggendo. Alludo qui alla scelta tra fight or flight, che tutti gli animali, compresi quelli umani, devono affrontare quando sono minacciati: lottare o fuggire. Nel mondo animale, queste due scelte sono sullo stesso piano, mentre nella nostra società pesa l’ombra del fallimento, della viltà su chi fugge, anche se è l’unico modo per salvarsi. E per questo chi fugge «si porta dietro tutto», l’onta del mancato coraggio, l’accusa di essere deboli. Ecco, io volevo rovesciare questa prospettiva, o meglio ripristinare la prospettiva animale in cui non c’è giudizio sulla scelta che si compie. La ricostruzione che auspico è così una ricostruzione archeologica, in un certo senso, ma che diventa paradigma per una costruzione e ricostruzione delle scelte che si fanno nella vita senza pregiudizi morali, quasi in una chiave di mera rilevazione scientifica.
Sulla pietra. Senza volere inferire una tua fascinazione per il mondo alchemico, sottostante al tuo interesse “ricostruttivo” e archeologico tra poesia e curatela di altri autori, vorrei concentrarmi sulla presenza e il richiamo ricorrente (a me sembra) nella tua scrittura, alla materialità della pietra, che potrebbe costituire uno sviluppo della roccia eliotiana.
Ammesso che sia corretto abbozzare l’espressione che segue intorno al termine «anima», tra il tuo libro di poesia già citato e le tue due ultime traduzioni, si coglie una volontà di «ri-animazione di una zolla (un tumulo)», che si è pietrificata. L’intenzione di questa rianimazione, al mio occhio e orecchio perlomeno, si lega all’ombra (all’acqua dell’ombra, e al suo contrario estremo e apocalittico: l’eucarestia, che dà anche titolo parziale a un tuo saggio sul primo Seicento, L’altra natura, del 2017).
Non solo, mi sembra, l’intenzione si lega a quest’acquosità / liquidità dell’ombra (che forse ristora, offre una forma di relief, citando un bellissimo passaggio della Waste Land – se ti va, nella risposta, potresti citarcelo nella tua traduzione), ma anche a un diluirsi diverso e sonoro: ti invito allora a intendere la «zolla» di prima, da un lato, in senso letterale, come un frammento di terra nel sottosuolo, pietrificata; dall’altro, in senso più trasfigurato e magari mitologico, come una «drop», misura minima d’acqua / suono, lasciati cadere e morire, forse perché inappagati – soggetti a una mancata estensione fisica, nello spazio e nel tempo.
Da questa premessa: innanzitutto, se quest’espressione ti parla («ri-animazione di una zolla»), che ruolo ha la pietra?
Ti ringrazio, Francesca, per aver creato questa connessione di rimandi così interessante. Sicuramente la «ri-animazione della zolla» la sento molto consonante con la mia attività di ritraduzione di classici di poesia. Spesso i classici, soprattutto stranieri, sono difesi come se fossero un materiale inorganico, anche loro fossili da proteggere nella teca di un museo, non soggetti più al tempo, e vengono cristallizzati in alcune interpretazioni che come ogni cosa portano invece i segni del tempo che le hanno prodotte. I classici invece davvero somigliano più alle zolle, e a volte vanno rovesciate per riattivare la fertilità della terra, per rimettere in circolazione il loro inesauribile principio vitale. In un bel libro letto un po’ di anni fa si parlava di poetics of transubstantiation, ovvero della possibilità di estendere la figuralità del dogma cattolico eucaristico ad altre categorie, e tra queste anche alla traduzione che condivide la stessa vettorialità del prefisso trans-: il passaggio da un mondo all’altro, e soprattutto, senza entrare nei dibattiti teologici, il passaggio dall’inorganico all’organico che diventa divino, e tutto grazie alla performatività del linguaggio, che fa accadere le cose, che può trasformare la natura delle cose che nomina.
Legata alla precedente: possiamo affermare che la demistificazione del desolato implichi una forma di «naturalizzazione focaia», di messa a «fuoco purificatore» (domestico) dello spreco? Anche trivialmente corporeo, fisico, senza volere chiamare in causa nessun riflesso di ecopoetry.
Il tema dello «spreco» è insito nella stessa parola waste: lo spreco del tempo (che comprende anche il non imparare dal ripetersi tragico della storia, una questione che interessava molto Eliot durante la stesura di The Waste Land); lo spreco delle azioni umane (delle tantissime vittime della prima guerra mondiale il cui sacrificio non aveva messo l’Europa al riparo dal pericolo di un’altra guerra); lo spreco delle risorse del paesaggio (anche senza convocare l’ecopoetry, Eliot allude chiaramente allo smog della città di Londra e al Tamigi pieno di rifiuti, e lo fa citando occultamente Dickens e le sue rappresentazioni delle conseguenze della rivoluzione industriale).
Sull’essere anfibio. Come la pietra, restando un attimo sui simboli, si guadagna una presenza nella stessa raccolta di poesia anche l’anfibio.
Leggiamo i seguenti versi, pubblicati anche su Le parole e le cose: «tornare in superficie / come bocche / animali finalmente anfibi».
L’essere animale anfibio comporta la conquista di un habitat o è piuttosto lo stato adattativo finale di un processo già avvenuto e concluso? E l’affiorare delle bocche viene dopo un mutismo o un occultamento dell’apertura labiale locutiva, forse dopo nessuna delle due?
Nella poesia Tornare in superficie, la condizione anfibia è il compromesso adattativo cui si giunge nel tentativo di combinare la vita nel mondo profondo, amniotico, protetto anche se inquietante – sviluppato nella prima parte del libro Le fuggitive, in cui questa poesia gioca un ruolo di cesura importante – con la vita in superficie, ovvero il mondo delle relazioni con gli altri, il mondo orizzontale, cui viene lasciato spazio nella terza e ultima sezione del libro, Uscirne vivi.
Inter-visivo profondo: il gotico. Passando alla parte del questionario inter-visivo della profondità, ovvero dal piano simbolico e più pertinente al tuo immaginario poetico, a quello culturale e acquisito che in parallelo ti ha portato al lavoro di traduttrice e saggista: la rubrica di quest’intervista si ramifica intorno al nucleo del lutto. Qual è, se c’è, la tua esperienza del gotico (nella tua vita, nella tua scrittura, nella tua indagine espressiva) e quali sono le peculiarità (testuali sonore e immaginative) degli originali in lingua inglese che hai tradotto, più persistenti oggi intorno al genere?
Se intendiamo il gotico come categoria estetica che emerge alla fine del Settecento come risposta al dominio illuminista e della morale borghese, o meglio come ritorno del represso irrazionale, passionale, fantasmatico, credo ci sia qualcosa che ha a che fare con il gotico nella mia poesia, spesso legata alla dimensione dell’incubo, della minaccia costante, della paura irrazionale in risposta a una certa atmosfera rassicurante e consolante della lirica contemporanea.
Quanto ai testi che ho tradotto, non c’è gotico ma piuttosto l’orrore della tragedia senechiana in alcune scene di Romeo e Giulietta (come in IV, 3, spesso soppressa in messinscene e adattamenti, in cui Giulietta immagina di impazzire nella cripta e di giocare con le ossa dei suoi antenati fino a farsi del male). Nella Terra devastata di Eliot, invece, una parte della critica ha evidenziato rimandi al Dracula di Bram Stoker nella V sezione del poemetto, e qui il gotico avrebbe il compito di rimandare all’irruzione dell’irrazionale, nella sua declinazione più sensuale e subdola, nella compita società vittoriana, e dunque all’opposizione tra la luminosa civiltà europea, che Eliot vede in declino, e il rimosso arcaico del disordine e del caos, che per Eliot è incombente e disastroso e sopravvive in alcune regioni come l’Europa dell’est dopo gli esiti della rivoluzione russa. È interessante che in questo caso Eliot ricorra al gotico non come chiave per dare sfogo a pulsioni individuali, ma per interpretare alcune dinamiche storiche del proprio tempo.
Il barocco. In modo meno guidato, ti chiedo di rilasciarci un tuo punto di vista sulla differenza (distanza e reciprocità) tra il barocco inglese e il barocco italiano, agganciandoti se vuoi alle operazioni di “filtraggio” che potrebbero orientare la differenza (sul piano poetico e/o traduttivo, compositivo, di vita).
È davvero una questione molto complessa, e non posso che dare qualche spunto qui. Di sicuro una qualità diversa del barocco inglese – la cui definizione è in realtà oggetto di discussione quasi da sempre – è nell’impatto che ha avuto la Riforma e la nascita della Chiesa inglese sul ruolo della poesia e delle finzioni in generale. Basterà considerare la necessità per molti poeti, e soprattutto per i poeti di fede protestante, di interrogare la propria vocazione poetica e gli scopi della propria scrittura dinanzi alle accuse di immoralità dei puritani; immoralità estesa da questi a tutta l’immaginazione (e alle immagini). Ciò ha comportato, anche sul piano teorico, un’auto-riflessione sul significato del fare poesia che ha lasciato una traccia profonda su tutta la cultura inglese. La poesia di Sidney, di Shakespeare ma anche quella dei poeti metafisici inglesi come John Donne ha dovuto fare i conti con problemi morali ma anche formali, stilistici e di costruzione della soggettività poetica sicuramente influenzati dal veto sugli artifici retorici e dall’enfasi sull’introspezione della Riforma.
L’elegiaco. In privata sede mi hai accennato che ti accingi ad avviare un nuovo lavoro didattico che coinvolge il genere dell’elegia: dopo aver lambito la categoria del gotico, la mia curiosità è di domandarti se c’è una matrice elegiaca, oltre che tragica (da parte nostra, di noi lettori non specializzati, forse più facilmente identificabile), nel Romeo and Juliet che hai frequentato – in quali passi (e dunque come) si esplica nella tua visione ed esperienza del testo drammaturgico?
Il tema dell’elegia mi interessa soprattutto rispetto al poemetto di Eliot e alla possibilità di leggerlo come un’elegia che intreccia sia motivi personali che storici: la morte del padre, dell’amico Jean Verdenal insieme al declino dell’Europa e alla caduta degli imperi. In Romeo e Giulietta la partita è tutta nel passaggio di testimone dal comico al tragico, con incursioni nella parodia della poesia petrarchista. Come scrivo nell’introduzione a Romeo e Giulietta, la vera tragedia nel testo – anche se può far ridere – è che il loro è un amore ricambiato, e questo non è previsto dal codice petrarchista cui Romeo sembra aderire all’inizio dell’opera. Una volta che invece Giulietta ricambia e anzi è quasi più impaziente di lui di consumare il loro amore, cioè di passare dalle parole alle azioni, l’azione drammatica impone ai personaggi di incarnare fino in fondo la retorica della lirica d’amore, cioè fino alla morte per amore.
“Farmacologia” della parola. Di recente, per questa stessa rubrica, è stata intervistata Gilda Policastro. Riallacciandomi a un suo titolo di narrativa (Il farmaco, edito per Fandango nel 2010), sia pure con una liaison solo onomastica, ci faresti dono di un tuo libero pensiero intorno ad alcuni “testimoni” (capisaldi) della ideale staffetta percorsa qui con te, sul ruolo farmacologico della parola? I testimoni lessicali: «pozione», «refrain», «tallone», «aridità», «liquidità», «catarsi».
Anche io sono molto affascinata dalla parola «farmaco». L’ho incrociata quando ho tradotto il dramma Lives of Great Poisoners di una drammaturga inglese straordinaria che si chiama Caryl Churchill. Anche lì si giocava con l’ambiguità del termine che significa «rimedio» ma anche «veleno», e si sottolineava come tra le due accezioni la differenza non la fa la sostanza, che è la stessa, ma solo la quantità o meglio l’uso che se ne fa (e lo stesso tema torna anche in Romeo e Giulietta la cui vicenda tragica ruota tutta intorno a due «pozioni»). Questa idea dell’uso “che se ne fa” può forse essere estesa alla parola, che può offrire un rimedio – ma non tanto nel senso della catarsi, quanto in quello della conoscenza di sé, del mondo, delle cose che non si vedono – ma può anche essere un veleno, se usata per intossicare la comunicazione fino a renderla irrespirabile, intransitiva, per indebolire chi si dispone all’ascolto e renderlo più o meno metaforicamente schiavo.
Esperienza personale. Una domanda esplorativa, accingendoci adesso alla fine del questionario.
Quali sono le maggiori fatiche, quali sono le più gradite illuminazioni, nel tuo quotidiano vivere, rispetto alla composizione delle discipline che come altri autori, sposi (unite in una quest importante, e generalmente sottovalutata): dove credi, cioè, che le dimensioni di uno scrivere dal profondo (traduzione, re-modeling) e dello scrivere per l’orizzonte (università, poesia, qualsiasi scrittura in prospettiva) si incontrino più felicemente?
Devo confessare che per me scrivere versi, saggi accademici e lavorare alle traduzioni significa intrecciare sempre un piano profondo, che riguarda la presa di parola, l’uso del linguaggio come occasione di pensiero e conoscenza, e un piano orizzontale che è quello della comunicazione verso altri, della responsabilità, e della relazione con i testi, i lavori, le traduzioni degli altri.
Le gradite illuminazioni, per riprendere le tue parole, arrivano per esempio quando riesco a mettere a fuoco nei saggi accademici questioni che so mi aiuteranno nella scrittura, o quando nella scrittura sento di aver trovato un ritmo o una fluidità a cui stavo lavorando e che potrò usare, se necessario, nelle mie traduzioni, come un pittore che riesce finalmente a imparare a prodursi e a usare un nuovo colore. Spesso mi sorprende notare come, anche se apparentemente disparati, i miei diversi oggetti di studio e campi di lavoro si nutrano ciascuno dell’apporto dell’altro. Spesso scelgo traduzioni che mi aiutano a capire questioni anche di stile utili alla scrittura, oppure decido di dedicarmi a un argomento accademico perché tangenzialmente mi permette di dare profondità storica o teorica a ciò che provo a fare scrivendo.
Infine, una domanda che dalla rubrica è previsto rivolgere a tutti. Il nome di questa rubrica è un verso di Pagliarani. Lo vorremmo usare come un termometro, provare a capire davvero «quanto di morte noi circonda», poiché i discorsi che circondano la morte sono, in questo senso, piuttosto contrastanti: da una parte ci viene detto che la morte è, per noi contemporanei d’Occidente, il rimosso per antonomasia, ciò che non vogliamo vedere e occultiamo costantemente; dall’altra, invece, che la morte è sovraesposta e che è (divenuta?) la vera e sola protagonista delle nostre storie. Tu che cosa pensi al riguardo? Quanto di morte noi circonda?
È vero, credo che l’esperienza concreta della morte fisica delle altre persone, compresa quella delle persone che amiamo, è molto sfumata nelle società occidentali. È anche vero, però, che in molti contesti al sud la situazione è diversa. Io sono cresciuta in un mondo dove la morte era spesso evocata, e dove le persone avevano ancora un rapporto molto forte con i cimiteri, le tombe, i cadaveri (ne parlo anche nelle Fuggitive). Anche da adulta, ho avuto la possibilità di entrare in contatto con contesti in cui i morti si guardano, si vegliano, senza paura, anzi con molta cura. Spesso quando si parla di «occidente» parliamo di un modello culturalmente dominante che non è però l’unico esistente, e nemmeno il più diffuso. Nel mondo in cui vivo, Napoli, nonostante le profonde e penose trasformazioni che sta subendo, la morte c’è, fa paura, si accetta, si rifiuta, ci si scherza, ma è ancora percepita come una parte della vita e non come il suo contrario. Se è possibile fare un salto dal barocco inglese al barocco napoletano, mi viene in mente il sonetto di John Donne, Death be no proud, «morte non essere superba». La morte non fa abbastanza paura qui da essere rimossa.
*Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.
This work was supported from OP JAC Project “MSCA Fellowships at Palacký University II.” CZ.02.01.01/00/22_010/0006945, run at Palacky University in Olomouc, Czech Republic.