Quanto di morte noi circonda ⥀ Intervista ad Alessandro Gori
Altra intervista per Quanto di morte noi circonda, la rubrica-inchiesta sull’immaginario contemporaneo del lutto curata da Luca Chiurchiù e David Watkins; questa volta, per indagare i legami tra risata e morte, Andrea Capodimonte intervista Alessandro Gori, che questa sera si esibirà a Fermo, per il festival di poesia totale La Punta della Lingua.
Tutti i dialoghi finora pubblicati possono essere letti qui
«Quanto di morte noi circonda» è un verso di Elio Pagliarani. Ora, è anche il titolo di un’inchiesta di Argo sull’immaginario contemporaneo del lutto.
La morte è il rimosso del nostro tempo.
La morte è l’assillo del nostro pensiero e delle nostre scritture.
Queste due affermazioni, palesemente contraddittorie, coesistono nei discorsi dei nostri giorni, sgomitano alle soglie delle nostre impressioni e delle nostre incertezze. Abbiamo così deciso di porre alcune domande a scrittrici e scrittori che – venendo da vari ambiti e maneggiando vari strumenti – hanno affrontato la questione del lutto e della perdita, del rapporto con la morte e con la malattia, in un modo che ci interroga e ci costringe, di volta in volta, a prendere posizione.
È per vederci un po’ più chiaro. È per misurarci la febbre.
(L.C. e D.W.)
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Alessandro Gori è nato e vive nelle campagne della Val di Chiana. È laureato in Psicologia, scrittore, monologhista, paroliere, creatore del blog Lo Sgargabonzi! Ha pubblicato per Rizzoli, minimum fax, Utet ed Einaudi, e da dieci anni gira l’Italia coi suoi spettacoli satirici. È stato autore e attore a Una Pezza di Lundini, ospite ricorrente a Battute e doppiatore per Maccioverse. Ha scritto racconti e fumetti per Linus, Internazionale e Domani, ed è autore di Conglomerandocene, la sua rubrica settimanale su Rolling Stone. Inoltre cura la rassegna Dialoghi sulla Morte per l’Università de L’Aquila. Internazionale l’ha definito «il miglior scrittore comico italiano». Nel 2022 ha vinto il Premio della Satira per il libro e il relativo spettacolo dal vivo Confessioni di una coppia scambista al figlio morente. Possiede più di tremila giochi da tavolo.
Ciao Alessandro, bentrovato. Chi ti conosce sa, come avevo già scritto qui su Argo, che il tema principale della tua scrittura è la morte. La morte, ma anche la malattia. Anche quando la morte non c’è nella tua scrittura se ne sente la presenza, che spesso si percepisce proprio nella risata che la tua scrittura provoca. Una risata sgradevole e amara che non riempie ma svuota.
In Mondo senza fine, racconto che chiude Jocelyn uccide ancora, in un viaggio nel futuro, in cui l’io narrante è impersonato da Daniele Bossari, scrivi, dopo che hai scoperto che nel futuro la morte non esiste più: «pensare che gli uomini […] erano arrivati a doversi convincere che la morte rendesse bella la vita». Avevo in precedenza scritto che questa è la chiave di tutto il libro, di tutta la comicità che ti ha contraddistinto, ridere di tutti gli stratagemmi che gli umani inventano per rifiutare la morte, per convincersi che morire sia, tutto sommato, giusto. Nella tua scrittura si ride dei «poveretti», coloro che vivono il nostro presente ingenuamente. È così? Alcuni anni fa, in un’intervista hai scritto che scrivere della morte è «un modo per “purificarsi“, per vivere raccontandosela il meno possibile». La scrittura serve a purificarsi dal male, dalla morte?
Non mi sono mai interrogato sulla scrittura, che è un’attività che svolgo motivato dal risultato finale, ma che non mi appassiona in sé né mi incuriosisce trovarci un ipertesto. Posso invece dirti che per me l’umorismo non è per forza finalizzato alla risata. La risata spesso non è nemmeno il mezzo. L’umorismo lo vedo al massimo consonante con la risata, ma prima di tutto un atto libero, selvaggio, complesso e misterioso anche per chi lo compie. A volte lo intendo più come un cucchiaino di zucchero che rende ancora più sapido e respingente al palato un bicchiere di acqua e sale. Se inserisci un momento drammatico in mezzo a due momenti comici, quel momento s’ammanterà di tenebra, diventando sepolcrale, spaventoso, vertiginoso e terminale. Per questo motivo a me interessa soprattutto la risata del condannato a morte, la stessa di Ash ne La Casa 2 in quella notte terribile in cui ha visto i suoi amici trasformarsi in demoni kandariani e attentare alla sua vita, in cui ha dovuto tagliare a pezzi la donna che ama. Il tempo si sospende, la cinepresa gira vertiginosamente su di lui e lui ride, ride a squarciagola fino quasi a partorire se stesso. Ma la mia idea di risata del condannato a morte, la cosiddetta risata verde, non è uno sberleffo al caos, bensì il frutto di una visione lucida, scarnificata e senza vie di fuga del proprio destino ultimo.
Non ti interessa la scrittura in sé, ma ricordo ora una tua vecchia poesia che fa così, e che hai postato diverse volte nel tempo:
scrittura / soave passione / arte suprema / meravigliosa missione / croce e delizia delle / biro / perché fra i tanti / hai scelto me? / 🖋️📖🤔
Mi ha sempre fatto pensare che sotto i layers di ironia, e la caricatura dello scrittore pomposo che spesso interpreti, ci sia un po’ di verità, un rapporto complesso con la scrittura. O forse un rapporto complicato con l’immagine vip dello scrittore, e del vip in generale, con il senso comune. Aggiungo che, sebbene tu dica di non interessarti prettamente di scrittura, uno dei tuoi scritti migliori è Veleno per topi, che è di un umorismo diverso, quasi assente, commovente, ed è proprio sulla morte. Comunque, tornando alla visione della morte nei tuoi scritti, quando penso agli universi che crei tramite la scrittura, subito penso ai brand, ai cloni dei personaggi famosi che sono i protagonisti delle tue storie, e che hanno a che fare e che riflettono sulla fine della vita. Svariate volte hai risposto a interviste con una formula che so quasi a memoria, dicendo che solo i brand resistono, come il sapore dello Stecco Sammontana, mentre assistiamo i nostri cari che si sfasciano. Sui tuoi cari torneremo anche successivamente, ma intanto mi interessa questa contrapposizione, tra il sapore del gelato confezionato, brandizzato e la costante della morte. Non ricordo chi ha scritto che la tua è un’attenzione per la merce, io non credo. Non parli di qualsiasi gelato, ma di uno Stecco Sammontana, che oltre a essere un brand, sì, è anche un’àncora di un certo immaginario del passato, legato sicuramente agli anni ’80-’70, alla riviera romagnola. Qualcuno potrebbe obiettare che il gusto del gelato Sammontana rimane sempre lo stesso, perché di plastica, quindi inautentico. Oltretutto, proprio la plastica è un elemento centrale, umoristico e ricorrente nel tuo ultimo libro di poesie, Canzoniere dei parchi acquatici, dove la plastica è un elemento che ha la funzione ironicamente drammatica di smorzare ogni entusiasmo e diventa il metro di misura del disvalore. Ecco, questi elementi sono così ricorrenti, quasi ossessivi nei tuoi scritti, che vorrei capire meglio questa tua poetica e come si lega alla morte.
Nel mio enumerare oggetti e marche non è sottesa nessuna critica al capitalismo e ancora meno a un più generico materialismo. In una puntata de I fatti vostri ricordo una coppia di genitori i quali raccontavano, con la voce rotta e gli occhi lucidi, come il loro figlio, che avrà avuto tipo otto anni, avesse deciso di regalare tutti i suoi giocattoli ai bambini bisognosi. Ecco, se avessi un figlio del genere e facesse la stessa pensata, gli farei un culo così.
Le persone che non si legano agli oggetti sono della stessa risma di quelli che hanno l’ansia di farti sapere quanto amano viaggiare. Di solito è gente triste, noiosa e alla ricerca di un po’ di personalità. O come minimo gente che non amo ritrovarmi al mio stesso tavolo, perché è evidente che hanno tutta un’altra concezione dell’esistenza. Addirittura c’è chi butta via gli abiti dei genitori defunti, roba che fare lo spread-killer nelle metropolitane è meno grave.
Sono stato un bambino degli anni ‘80, un felice figlio delle figurine degli Sgorbions, della piramide degli Exogini e di Hero Quest e le sue introvabili espansioni. Di quello che avevo intorno allora rimane sempre meno. E non voglio raccontarmi migliore di quanto io sia: scambierei ogni battaglia di sensibilizzazione sull’emergenza climatica (maledette bombolette spray) con una prosecuzione del fumetto Slurp!, capolavoro di Carlo Peroni, interrottosi al quattordicesimo numero.
La scrittura mi dà l’occasione di allestire un diorama, un rassicurante plastico in cui ogni pezzo è al suo posto e lì resterà, a partire dai miei genitori giovani. È come una sorta di Salò, un tentativo di dare un momentaneo ordine al caos, prima che quest’ultimo inevitabilmente vinca. È lo stesso motivo per cui, fin da piccolo, mi sono appassionato di giochi da tavolo, che con le loro regole e cremagliere mi davano per il tempo d’una partita l’illusione di essere padrone del mio destino.
Per quanto riguarda la mia passione per i non luoghi e per i prodotti serializzati, pure lì non mi allontano di molto. Solo quello che è replicabile non ci tradisce, non si ammala, non invecchia, non ci lascia soli. Gli stabilimenti balneari, gli hotel e gli autogrill sono posti deputati a renderci felici mentre pensiamo che la felicità sia da un’altra parte. Lo Stecco Ducale Sammontana che cito spesso d’esempio, comprato oggi in un bar sulla spiaggia ha lo stesso gusto che aveva nel 1987, mentre le persone care che erano attorno a me allora o non ci sono più o si sono sfasciate sotto ai miei occhi.
Mi viene in mente la poesia di Targhetta Data la colpa al capitalismo, dove ci sono alcune parole chiave che hai utilizzato anche te in questa risposta, solo che tu non ami le cose tristi, forse perché non dai la colpa al capitalismo. Le tue cose, appunto, sono allegre, è vero sì che ricordano un certo immaginario, ma, appunto come dici, richiamano anche la tua infanzia, la tua innocenza, forse proprio perché ancora non avevi scoperto la morte, e forse proprio per questo non puoi dare la colpa al capitalismo, perché al capitalismo è legata la tua innocenza, e l’immagine dei tuoi genitori, appunto, giovani. Qualcuno potrebbe dire che il tuo black humor colpisce anche il lutto, perché colpisce le vittime. A me sembra che tu invece voglia colpire chi distrugge la sacralità del lutto, chi la mette in scena sui media, chi trasforma il lutto in qualcosa per ricevere consensi. In questo senso, mi sembri un difensore del sentimento del lutto, piuttosto che un distruttore. Ma davvero c’è colpa nel trasformare il lutto in un content?
Mi tocca correggerti: io che tutta questa spettacolare giostra finiva l’ho avvertito al giorno uno della mia esistenza. Non so perché, ma me lo sentivo. Era tutto troppo bello per non esserci il trucco. E questo l’ho capito molto prima di sentir pronunciare la parola «morte». È per reazione a questo che sono sempre stato molto vitale, bulimico, pieno di passioni e grilli per la testa.
Avevo tre anni, quando morì il nonno di una mia vicina di casa per un ictus emorragico. Coi miei andammo alla camera ardente e vidi questo signore elegante, completamente blu in volto e le dita color senape intrecciate fra di loro che tenevano un rosario, stretto in una cassa di legno e con un velo di tulle sopra perché le mosche carnarie non depositassero le uova nei suoi tessuti molli. Mio babbo mi disse che quel signore era «come se dormisse», ma quell’immagine pareva partorita dai peggiori incubi: quell’uomo non aveva più niente di umano. I miei non mi spiegarono nulla, capii tutto da solo.
Nelle assemblee d’istituto degli anni ‘90 si parlava della morte come dell’ultimo tabù. «I vecchi chiusi in cucina se viene qualcuno», come canta Claudio Baglioni. Oggi è cambiato tutto per giungere allo stesso risultato: la morte è diventata un carosello, un happening a bordo piscina, un trenino da social. Che quasi non vedi l’ora che ti capiti per quanto è aggregante e figa. Gli psicologi fanno i corsi sulla morte e c’è chi ci va come andasse a pigliarsi un Campari Spritz con tanto di cannuccetta col ginocchino.
Un carosello: esatto, una giostra che va troppo veloce e che causa spossatezza e perdita del controllo. Sensazioni simili si provano di fronte a certi tuoi racconti, specialmente quelli che mettono in scena i momenti ultimi, gli addii: funerali, elogi funebri, commemorazioni… Ce ne sono parecchi, a guardar bene, sia in Jocelyn uccide ancora che in Confessioni di una coppia scambista al figlio morente. Molti di questi addii riguardano personalità pubbliche, anche intoccabili. Come già detto, però, si tratta di cloni, di ologrammi: personaggi che riconosciamo non essere propriamente le reali persone con lo stesso nome e lo stesso cognome per virate narrative ucroniche e implausibili, ma anche, più spesso, per semplici dettagli – tremendi e iperbolici quanto si vuole ma pur sempre dettagli, e spesso non del tutto impossibili a darsi. Come a dire, in questo caso, che se fossimo noi stessi anche solo un millimetro o un milligrammo di più, se perseverassimo fino in fondo in ciò che siamo, diventeremmo degli umanissimi mostri. Ed è appunto nel momento della morte, o in quello della celebrazione di una morte, che questi dettagli saltano fuori; che questi millimetri e milligrammi in eccesso si rivelano: sono i momenti della verità di molti dei tuoi testi, perché? Te lo hanno mai fatto notare?
In realtà non ho molto amore per la verità e non la ritengo per forza un valore positivo. Solo che non mi piacciono i personaggi tipici, gli automatismi, il risucchiamento nei ruoli, il gioco delle parti. Prendi una persona anziana: oggi deve esistere solo per far ridere i giovani fra una scopata e un storia sui social. Se un settantenne fa un’avance a una ventenne è un bavoso da ridicolizzare sulla pubblica piazza. Se non la fa resta comunque un «vecchio di merda». Catalogare e passare oltre.
Abbiamo la fortuna di avere a che fare con la scrittura, che come ogni forma d’arte è l’opposto della vita. Possiamo muoverci senza gravità e raccontare di gazzelle che sbranano leoni, quindi perché non farlo? Per questo motivo mi piace raccontare i personaggi in maniera non opposta, ma laterale a come li conosciamo, alle figurine a cui sono appiattiti. Un po’ come fossero i personaggi di un sogno, d’un possibile Altroquando.
Un’altra operazione che compi con i tuoi testi è lo scardinamento delle retoriche intorno alla morte. Pura metaletteratura. Qui davvero l’umorismo viene spinto fino alle sue estreme conseguenze, spietatamente, e ogni doppio fondo della realtà salta. Eulogie sballate, eutanasie alla stregua di truci scene da cinepanettone, curiosità sui malati terminali come se fossero scritte da redattori di qualche rivista scandalistica… La polverizzazione e il rimescolamento dei codici e delle retoriche (soprattutto quelle pubbliche e mediatizzate) è un modo per mettere in questione anche l’incontestabilità della figura della vittima. Certo. Ma è come se ci dicessi pure: attenzione, qui tutti parlano, tutti si possono permettere di parlare, tranne i diretti interessati. Che ne pensi?
Nel mio ultimo libro, Gruppo di leprecauni in un interno, racconto di una ragazza che perde il padre e la sua elaborazione del lutto via social, con lei che prima appare disperata, quindi inizia a pettinare la propria disperazione status dopo status fino a costruire una storyline con colpi di scena alla Breaking Bad.
Ogni volta che a un funerale sento raccontare il defunto come di una persona particolarmente buona e generosa, penso che nessuno vorrebbe essere ricordato così. Piuttosto gli piacerebbe essere ricordato per il suo talento, per un suo straccio di unicità la cui mancanza strazia davvero.
Un domani che morissi vorrei sulla mia tomba l’epitaffio di Claudio Villa: «Vita sei bella, morte fai schifo». Non l’ho deciso ora eh, l’ho sempre detto a tutti. Ma sono quasi sicuro che i miei familiari farebbero finta di scordarsene, perché una frase così fa brutto in un cimitero e ti fa avere gli occhi del vicinato troppo addosso.
Proprio sull’essere ricordati per il talento, nell’ultima poesia del Canzoniere, su pagina nera, si parla della morte di tua madre. Mentre lei sta per morire, tre volte, scritti in caps lock, ripeti: «IO SONO IL PIÙ GRANDE», e dicendo «così che lei / non capisca / cosa sta accadendo». Ti andrebbe di spiegarcela?
Volevo chiudere con un’immagine scivolosa, che sfuggisse di mano, perché insieme ridicola, isterica, tenera e angosciante, che facesse sorridere col groppo in gola. Lo spioncino su un mondo in cui non esistono colpevoli e antagonisti se non l’esistenza stessa.
Una provocazione alle tue provocazioni. In alcuni dei tuoi racconti metti in chiaro come non riusciamo proprio a lasciare andare i morti, a non trasformarli sistematicamente in santini o in simulacri. Malinconie di burro, malinconie schizoidi. Così (l’ologramma di) David Bowie diventa uno spettro da evocare e poi far morire di nuovo, o (l’ologramma di) Alfredino Rampi una presenza virtuale intrappolata in un forum assurdo – ma non più assurdo di quanto lo sia “per davvero” l’internet. E tu, invece, perché hai deciso, mettendoti anche non poco nei guai, di non lasciare in pace i morti?
Ho sempre avuto un forte io osservante. Mentre interagisco con qualcuno, mi trovo anche ad osservare la scena dall’esterno e la valuto come se fossi dietro a una telecamera di sorveglianza. Sono sempre stato molto protettivo con me stesso e le persone a me care riguardo alla loro immagine e autenticità, che siano vive o non ci siano più poco mi cambia. Mi ha sempre spiazzato la disinvoltura che si ha coi defunti, spesso nemmeno in mala fede. Penso che molti defunti, esposti sotto neon accecanti in stanzette dagli arredi Mondo Convenienza, con le pieghe del loro dolore disponibili allo sguardo di chiunque passi, se potessero vorrebbero nascondersi, coprirsi con un lenzuolo, sfuggire agli occhi di chi ci si sofferma. Ma sono morti, quindi se ne può fare quello che si vuole, come fossero dei sacchi di carne andata a male. Compreso semplificarli, equivocarli, trasformarli in meme, personaggi tipici, brand o qualsiasi cosa di cui abbiamo bisogno.
A proposito di uomini che vengono trasformati in meme, c’è sicuramente un uomo che è stato trasformato in meme e che finalmente trova spazio anche tra le tue pagine con Gruppo di leuprecauni in un interno, ovvero Pietro Pacciani, con il racconto La lunga notte di Pietro Pacciani. Spesso pensando alla tua posa mi è venuto spontaneo avvicinarti all’Aldo Palazzeschi dell’Incendiario; mentre la folla osserva l’incendiario messo in bella mostra in una gabbia, l’autore invece parteggia per lui, e vorrebbe liberarlo. È senz’altro una satira sociale quella di Palazzeschi, come anche la tua, che si pone dalla parte di chi è deriso. Pacciani è un personaggio che tutti conoscono, grazie al meme della poesia letta in tribunale, Se ni’ mondo esistesse un po’ di bene, che è, un po’ come per l’incendiario, la sua gabbia da dove chiunque lo osserva e sbeffeggia. Ecco, nel tuo racconto su Pacciani, invece, mi sembra che tu, controcorrente, ricordando la sua assoluzione al processo, prendi possesso del corpo di Pacciani e descrivi, in prima persona, la sua ultima notte, con tutti i ripensamenti dell’uomo, prima che del meme, in cui emerge tutta la normalità di un personaggio tormentato. Non è la prima volta che scrivi di Pacciani, mi viene in mente anche una poesia ancora inedita sui libri, ma che ho sentito ai tuoi live, satira = tragedia + tempo. Anche lì Pacciani ha una funzione anti-comica, drammatizzante, una storia in cui «ci vedo solo dolore, rabbia e tanta, tanta amarezza». Ecco, quello che mi chiedo e ti chiedo, come mai secondo te la gente ama ridere del dolore altrui? Perché, in generale, il dolore altrui, reale, e perfino la morte, riescono a far ridere?
Non ne ho idea, non c’ho mai pensato. Ma io ricordo bene Pietro Pacciani a quel vergognoso processo di primo grado in cui veniva messo alla berlina per fatti quasi sempre laterali alla vicenda criminale. Gli abusi a moglie e figlie, per i quali aveva già pagato col carcere, il possesso di giocattoli sessuali e materiale pornografico, le risse, la frequentazione di prostitute. Avevo l’impressione stessero acchittando l’uomo giusto al momento giusto, un orco perfetto da dare in pasto al pubblico da casa che viveva quel processo come anni prima aveva vissuto Twin Peaks e voleva dare per forza un volto al Mostro di Firenze prima che iniziasse la nuova stagione di Scommettiamo che. Ai tempi Pacciani non faceva ridere, faceva solo schifo a tutti. E nessuno lo voleva toccare. Anche se non era il Mostro, andava bene a tutti che finisse in carcere a vita e se ne prendesse le colpe. Ricordo la sentenza di primo grado, l’ergastolo, con lui che diventa rosso in volto, piange, urla e viene risucchiato dalla folla applaudente. Ne provai una pena come non avevo mai provato per nessuno. Se fosse stato un brav’uomo ingiustamente accusato, mi avrebbe turbato meno, perché avrebbe avuto attorno gente a difenderlo.
Mandi avanti il nastro, le indagini sul Mostro continuano indefesse, ma non trovi in giro gente addolorata e incazzata per quanto successo a Pacciani. No, quella presa di coscienza si è saltata di netto, oggi di Pacciani restano solo delle clip tagliate precise per far ridere nel tempo d’una storia. Proietto una sua foto in uno spettacolo comico e il pubblico si mette a ridere in automatico senza saperne nulla e senza volerne sapere di più, gli bastano i meme. Praticamente una non persona. La scena del povero Mario Vanni in pigiama in tribunale, lasciato solo in un mondo che non capiva, mentre inneggia al Duce e viene portato via dall’aula, la trovo emotivamente insostenibile.
Ma per certi versi sono grato per l’esistenza in questa contemporaneità dei meme su Pacciani e Vanni, di icone come Rocco Siffredi o dei manifesti della Taffo. Perché se per caso entro in contatto con una persona che si scompiscia su simili abomini, io so già che non vale uno strappo di Scottex e so che lo considererò un poveraccio senza possibilità di appello, così che non ci investo neanche cinque minuti ad approfondire. È un’ottima scrematura in quest’epoca così frenetica.
Torniamo sempre là, dove la tua risata vuole drammatizzare, c’è un pubblico che invece con te vuole ridere di gusto. Parli spesso del tuo pubblico, credi di avere una responsabilità sul tuo pubblico, così come un influencer o una pagina facebook dovrebbe avere responsabilità sui propri follower?
Il rispetto per il pubblico è sempre un bel concetto, una questione che considero, ma che non mi appassiona particolarmente. Del resto non ho scelta: scrivo le uniche cose che so scrivere e lo faccio nell’unico modo in cui so farlo. La versatilità non è fra le mie qualità e l’alternativa sarebbe non fare più niente. Ho un mio filtro morale severo e ben strutturato, ma la cosa nasce e muore in un dialogo fra me e me. Nei miei live non interagisco mai col pubblico. Il pubblico deve starsene rilassato e sapere che non verrà coinvolto in nessun trenino da villaggio turistico. Ma questo non interagirci prevede anche una reciprocità: se a qualcuno quello che faccio non piace, se ne va silenziosamente e senza pretendere di aver voce in capitolo. Un libro, un film, uno spettacolo teatrale, un disco, un gioco da tavolo sono il diorama e l’acquario di chi li crea, la vita è da un’altra parte.
Ma poi come si può non dormirci la notte per questa cosa del rispetto per il pubblico? C’è qualcuno che lo fa o è tutta una finta? Io so bene che se a ognuno del pubblico di un mio live fosse offerta la possibilità, premendo segretamente un pulsante, di barattare lo spettacolo che sta vedendo e magari sta pure apprezzando, con me che me la faccio improvvisamente addosso sul palco, beh, almeno uno su dieci non avrebbe dubbi e premerebbe con gusto quel bottone. E io, imbarazzato e pieno di vergogna, chiederei che quell’incidente restasse un segreto fra me e loro, li pregherei di non farlo sapere a nessuno fuori da quel teatro. Ma non farei in tempo a completare la frase che tanti avrebbero già tirato fuori gli smartphone per catturare la scena, mandarla su WhatsApp al cognato per farsi due sacrosante ghignate e poi postarla ovunque nei social. Sono sicuro sarebbe così, quindi no, il rispetto per il pubblico non è un rovello che mi tolga il sonno.
Infine, ringraziandoti ancora, una domanda che rivolgiamo a tutti. Il nome di questa rubrica è un verso di Pagliarani. Lo vorremmo usare come un termometro, provare a capire davvero «quanto di morte noi circonda», poiché i discorsi che circondano la morte sono, in questo senso, piuttosto contrastanti: da una parte ci viene detto che la morte è, per noi contemporanei d’Occidente, il rimosso per antonomasia, ciò che non vogliamo vedere e occultiamo costantemente; dall’altra, invece, che la morte è sovraesposta e che è (divenuta?) la vera e sola protagonista delle nostre storie. E dunque, che pensi al riguardo? Quanto di morte noi circonda?
Nell’estate assolata e torrida di Stand By Me, i giovani protagonisti hanno dimenticato di portare le provviste per la loro escursione alla ricerca del cadavere di un loro amico, così Gordie decide di andare in un emporio per comprare qualcosa da mangiare per tutti. Il proprietario gli ricorda il lutto che aveva subito poco tempo prima e commenta la scomparsa prematura in un incidente stradale del suo fratello maggiore con una frase della Bibbia: «nel pieno della vita camminiamo con la morte».
Anche quest’estate promette di essere assolata e torrida, nonché sensuale e magica come è sempre l’estate, l’unica stagione per me possibile. Ma l’estate è anche il momento in cui si attraversa la linea d’ombra. L’estate si presenta sempre uguale a se stessa, dalla luce identica a quando avevi tutta la vita davanti ed eri nel pieno delle tue forze. È così che ti ricorda la tua finitezza. Pare ieri che me ne andavo alla piscina Tartana a vivere il mio primo amore estivo con una mia compagna di scuola. Ora sento schiamazzi alla finestra, guardo fuori e vedo bambini che corrono al parco accanto a casa mia e vivono il loro primo amore. Nessuna pace, nessuna saggezza, nessun sentimento paterno: baratterei qualsiasi cosa in cui credo per essere al loro posto.
*Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.
This work was supported from OP JAC Project “MSCA Fellowships at Palacký University II.” CZ.02.01.01/00/22_010/0006945, run at Palacky University in Olomouc, Czech Republic.