Quanto di morte noi circonda ⥀ Intervista ad Angelo Ferracuti
La rubrica-inchiesta di Argo sulla presenza della morte nell’immaginario contemporaneo, Quanto di morte noi circonda, a cura di Luca Chiurchiù e David Watkins, dialoga oggi con Angelo Ferracuti. Tutte le interviste finora pubblicate possono essere lette qui
«Quanto di morte noi circonda» è un verso di Elio Pagliarani. Ora, è anche il titolo di un’inchiesta di Argo sull’immaginario contemporaneo del lutto.
La morte è il rimosso del nostro tempo.
La morte è l’assillo del nostro pensiero e delle nostre scritture.
Queste due affermazioni, palesemente contraddittorie, coesistono nei discorsi dei nostri giorni, sgomitano alle soglie delle nostre impressioni e delle nostre incertezze. Abbiamo così deciso di porre alcune domande a scrittrici e scrittori che – venendo da vari ambiti e maneggiando vari strumenti – hanno affrontato la questione del lutto e della perdita, del rapporto con la morte e con la malattia, in un modo che ci interroga e ci costringe, di volta in volta, a prendere posizione.
È per vederci un po’ più chiaro. È per misurarci la febbre.
(L.C. e D.W.)
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Angelo Ferracuti è scrittore, reporter e giornalista. Insieme a Giovanni Marrozzini ha fondato la Scuola di letteratura e fotografia «Jack London». Tra i suoi libri, teniamo particolarmente a segnalare: Il costo della vita (Einaudi), Addio (Chiarelettere), Spaesati (Ediesse, con Giovanni Marrozzini) e La metà del cielo (Mondadori).
Angelo Ferracuti, grazie davvero per aver accettato questa intervista.
Un po’ di tempo fa hai pubblicato La metà del cielo (Mondadori, 2019), un libro sulla scomparsa della tua prima moglie Patrizia. È un testo sugli anni della sua malattia e sul lutto conseguito al distacco, ma anche una ricapitolazione di due vite intere, una delle quali, la tua, passata a brigare dietro alle parole, come scrivi tu. È, insomma, anche una riflessione piuttosto spietata sul tuo mestiere di scrittore. Mi dici se e come l’esperienza del lutto ha cambiato il modo in cui ti rapporti e vedi questo mestiere?
Per me non è stato mai un mestiere quello di scrivere, semmai una vocazione, un modo di stare al mondo. Certo il poter raccontare quella storia non solo come la mia personale ma come una sorta di autobiografia collettiva di una generazione mi ha aiutato molto a tornare alla vita; quindi, la scrittura ha avuto una funzione concreta di analisi e rinascita dentro la mia esistenza. Forse ho assunto questa nuova consapevolezza, cioè che la mia vita e la mia scrittura sono vasi comunicanti, anche perché non saprei e non voglio inventare storie, non sono un romanziere, non mi interessa la fiction; quindi, tutto quello che racconto viene dalla mia esperienza umana, da quello che so, di cui ho intima cognizione, siano reportage o libri di narrativa come questi dove ibrido autobiografia e storia, reportage sociale o di viaggio con la narrativa tout court. Viviamo in un mondo pieno di fiction, ce ne è persino troppa, noi stessi sui social inventiamo le nostre vite, credo che la strada realista oggi sia appunto creare narrazioni di questo tipo, dove pure c’è una componente finzionale nell’uso letterario e non giornalistico dei fatti veri.
Sono circa venti anni che hai abbandonato la narrativa di finzione per il reportage, dedicandoti al racconto dal vero di impronta civile. Eppure, sembra che tu non voglia rinunciare alla categoria, certo mobile e mutante, del romanzo: lo dimostrano i sottotitoli di Addio. Il romanzo della fine del lavoro (Chiarelettere, 2016) e Non ci resta che l’amore. Il romanzo di Mario Dondero (il Saggiatore, 2021) e, soprattutto, lo dimostra il fatto che anche nel frontespizio di La metà del cielo campeggia appunto la parola «romanzo». Cosa vuol dire esattamente per te questa parola? E, più ancora: che cos’è, che cosa può essere, il romanzo di un lutto reale?
C’è questa ossessione del romanzo come cifra commerciale ma non mi riguarda, sono stati gli editori a etichettare i miei libri così, sono convinti che scrivendo la parola magica «romanzo» vendono più copie. Non lo so se è così, non credo, ma alla fine non mi sono opposto, i libri è bello scriverli, quello che viene dopo, la promozione, le presentazioni, è tutto meno interessante e molto faticoso, il mio lavoro viene prima. Certo La metà del cielo è anche una storia romanzesca, la trama della vita è molto simile a quella di un romanzo, anche se non c’è una intenzionalità nel costruire il plot, o i colpi di scena, quelli li ha costruiti la vita, in fondo a parte il posto dove vivo per chi non mi conosce divento anche io inevitabilmente un personaggio di un romanzo. Poi c’è il problema della memoria e del vero, perché la memoria inventa, mente perché nel tempo modifica i fatti, la loro ricostruzione; quindi, anche i ricordi sono ricordi pieni d’invenzione. Resta comunque una modalità di narrazione che trovo più congeniale, più umana.
In Il costo della vita. Una tragedia operaia (Einaudi, 2013) ti sei occupato della morte dei tredici operai della nave Montanari. Ti sei quindi dovuto confrontare con tredici storie differenti e con un lutto collettivo, e se vogliamo politico, di classe. Come hai fatto in questo caso? Come hai ricostruito la vita e la morte di questi operai? Come ti sei rapportato con i loro familiari? Qual è stato il loro riscontro, una volta pubblicato il reportage?
È stato un corpo a corpo con la scrittura e con la memoria dispersa, dopo 25 anni dalla tragedia ho lavorato sul campo e con accanimento, sensibilità umana e scopo politico, prima sui faldoni dei tre gradi di processi, sulle deposizioni, che sono comunque narrazioni, sulle fonti scritte, e poi su quelle orali intervistando centinaia di persone. Lì è cominciato il mio metodo, che è quello del racconto empatico, un modo di operare sul campo che ho imparato seguendo il fotografo Mario Dondero in molte nostre scorribande, soprattutto ai tempi del «Diario», il settimanale diretto da Enrico Deaglio. Venivo dal mio lutto e questo libro per me era una rinascita, ho avuto problemi con l’alcol e per molto tempo non riuscivo più a scrivere, allora con il mio dolore mi sono avvicinato a quello degli altri. C’è un linguaggio non verbale che si stabilisce durante gli incontri e le interviste, un sentire che non si può spiegare e che si produce attraverso i sensi, gli sguardi, il tono della voce, i silenzi. Devo dire che il libro è stato molto apprezzato dai vigili del fuoco che estrassero i cadaveri, dai giornalisti, dai medici, dai sindacalisti, dai famigliari, con alcuni è nato anche un rapporto di amicizia. C’è un capitolo centrale dove ho ricostruito per intero quella giornata, il 23 marzo 1987, è un racconto corale fatto da tanti frammenti, voci, spezzoni di tg, radiocronache, articoli giornalistici, immagini fotografiche. Molti che avevano vissuto quella giornata mi hanno detto che si sono rivisti lì al porto, su quella banchina, oppure al funerale, che era proprio così. Questo mi ripaga di tutti gli sforzi, le ricerche, mesi, anni di lavoro.
In Gli spaesati (Futura, 2018), col fotografo Giovanni Marrozzini, hai esplorato invece le zone del Centro Italia squassate dal terremoto del 2016. Ti sei insomma misurato, nuovamente, con un lutto collettivo, che riguarda intere comunità e interi luoghi. Come hai e come avete fatto? Che resta, secondo te, di quei luoghi e di quel lutto, oggi?
Abbiamo lavorato un anno nei luoghi del cratere, la gente ci aspettava per raccontare la propria storia, tutti volevano liberarsene, ci aspettavano nelle frazioni sperdute, fuori dalle case sventrate, è stato un lavoro molto bello, molto umano di relazione, soprattutto di ascolto. Abbiamo incontrato pastori, agricoltori, gente sfollata dentro le roulotte, nelle casette, giovani, così come appunto «gli spaesati» che vivevano negli hotel sulla costa. È un reportage soprattutto di ascolto e pietas, scritto in punta di penna, nel modo più orale e naturale di tutti. Oggi quei paesi hanno definitivamente perso la loro fisionomia, spesso sono diventati dei non luoghi, ma non per colpa del terremoto, ma invece della cattiva politica, degli interessi economici, del marketing che si è impossessato da subito dello spettacolo del dolore. In alcuni casi, invece, ci sono stati esempi virtuosi.
Ritorniamo a La metà del cielo. A un certo punto del libro, che si apre con una citazione di Orwell sul tema, confessi la tua attrazione per i fallimenti, soprattutto quelli economici. Attrazione fatale e in qualche modo ereditaria, perché scaturita dalle preoccupazioni della tua famiglia d’origine per i debiti e le insolvenze. Tu scrivi che il dolore per la perdita ha fatto più tenue la paura del fallimento, ridimensionato le tue ossessioni: «Per mesi, per anni, ho sentito questo morso del fallimento gelarmi le vene, e ogni volta sembrava invincibile. Dopo la morte di mia moglie, non l’ho sentito più, si è dileguato del tutto. Ho smesso di avere paura dell’aereo, l’ipocondria è quasi completamente scomparsa, i disturbi psicosomatici anche, gli attacchi di panico si sono ridotti drasticamente, persino la rabbia è diminuita».
Secondo te, quindi, l’esperienza di un lutto così radicale, come appunto quello che deriva dalla morte prematura della propria compagna, può, almeno illusoriamente, prepararci all’idea dei nostri propri fallimenti e della nostra propria fine? Rubando a un poeta delle tue parti e tuo storico – anzi, mitologico – amico: possiamo, dopo lutti simili, abituarci a morire?
La malattia e la morte fisica in realtà sono molto banali. Per questioni scientifiche, chimiche e fisiche il corpo si spegne, la vita biologica finisce. Può arrivare in qualsiasi momento della vita, colpire vecchi ma anche giovani, bambini, è la nostra massima caduta. Il fallimento è quanto di più umano ci possa essere, è il nostro momento di massima fragilità, delusione, sconfitta, ed è rimosso dalle società consumistiche, narcisistiche occidentali, c’è una rimozione assoluta del fallimento, sia nella sfera economica che in quella privata, il capitalismo ha bisogno di modelli vincenti per scatenare la competizione, quella che genera il profitto e il consumo. Invece, forse perché lo sono storicamente, politicamente, gli sconfitti mi piacciono, provo per loro molta simpatia, e il più delle volte sono anche migliori di quelli che vincono truccando il gioco, usando le armi del potere. Ma nella sfera privata accettare il fallimento anche in fatti luttuosi è assolutamente necessario per non vivere nella disperazione, se vuoi è anche una strategia egoistica, di pura conservazione. Conviene, diciamo.
Una delle pagine più belle del libro è quella in cui racconti di un colloquio con la Sfinge, come la chiami tu, l’oncologa che aveva avuto in cura tua moglie. Eccola:
«Quando la Sfinge fa capolino e mi saluta è come un’apparizione. La trovo leggermente smagrita, ma il suo fascino discreto c’è, così come ci sono la timidezza e i modi dolci. E i suoi capelli sono ancora nerissimi e lunghi. “Lei è come allora,” mi dice, “non è cambiato per niente”.
Quella parola, ‘allora’, mi commuove, si illumina di un potere rivelatore, mi fa tornare indietro a Patrizia distesa sul letto, a Patrizia seduta sulla sua sedia, a metà corridoio, a Patrizia che beve il caffè, a Patrizia che sorride, a Patrizia con gli occhiali da sole di ritorno dall’ospedale, silenziosa e triste, a Patrizia che parla alle sue figlie al cellulare, e dice “va tutto bene, sto tornando”, a Patrizia che con il dito fora la prima pagina del giornale, l’occhio di Berlusconi, poi dice “bastardo”, a Patrizia che sembra una scolara con la cartella blu con tutta la memoria della sua malattia, a Patrizia che non si lamenta mai quando le soluzioni di chemio entrano nelle sue vene, anzi combatte come una tigre, a Patrizia che dice “vai, vai in trattoria, sto qui da sola, tranquillo”, a Patrizia dimagrita, coi capelli radi, sofferente».
Che effetto ti fa adesso, quella parola, «allora»?
È una parola che descrive la lontananza emotiva da quella storia dolorosa della mia vita. Adesso sono un’altra persona che vive una seconda vita, l’uomo del libro è quello che sono stato, provo tenerezza per lui, compassione, ma non sono più io. La scrittura mi ha permesso di rivivere quel dolore, di dare a quegli eventi di allora un ordine, non una spiegazione ma un ordine, accettandone senza disperazione l’ineluttabilità. Ho scritto e riscritto quel libro per 15 anni, per molto tempo ero certo che non lo avrei mai pubblicato, renderlo pubblico è stato liberatorio, la parte della condivisione è stata anche quella catartica. Ma naturalmente ci sono momenti, epifanie, pensieri passeggeri che mi riportano in quel tempo. Sono dolorosi ma anche ricordi affettuosi, amorosi, che durano un attimo.
Nel libro fai anche delle considerazioni sul cancro, che chiami «la peste silenziosa» dei popoli ricchi, causata, non poi così collateralmente, dal nostro sistema economico e di consumo. Ti va di dirmi qualche parola di più?
C’è un rapporto tra il cancro e i consumi, rispetto agli abusi prodotti da un sistema economico che quotidianamente fagocita gli individui, li spinge a consumare sempre di più. Poi c’è da fare un discorso di classe, perché i poveri consumano peggio, mangiano cibo spazzatura, quello dei discount, più economico e di minore qualità e si ammalano di più. C’è differenza tra la vita di un notaio e quella di un operaio metalmeccanico, gli standard di vita sono anni luce lontani, e anche la possibilità economica di curarsi è diversa, soprattutto in questi anni in cui sia il centrosinistra che la destra hanno fatto tagli drastici alla sanità pubblica favorendo quella privata. Se stai in una fabbrica per quarant’anni, se lavori in siderurgia, per esempio all’Ilva di Taranto, non respiri la stessa aria che respira un manager di una multinazionale o un avvocato del foro.
«La metà del cielo» è una citazione di Mao ripresa anche da Lennon in Woman, una delle canzoni di riferimento del libro. Un libro che sembra anche raccontare di un altro lutto, questo tutto politico, vissuto dalla generazione dell’assalto al cielo: la tua generazione e quella di Patrizia. È così?
Sì, è così, ho ascoltato quella canzone ossessivamente mentre scrivevo. La mia è stata una generazione molto ribelle alla quale sono legatissimo, e il movimento del ’77 forse è stato l’ultimo vero movimento collettivo di massa capace di fare una critica profonda al capitalismo ma anche alle derive del socialismo reale e della sinistra storica. Fu un movimento capace di portare una critica radicale a un sistema di sviluppo, criticavamo tutte le istituzioni totali, autoritarie, dalla famiglia al manicomio, dal carcere alla fabbrica, da quello della salute all’istituzione scolastica, e rivendicavamo il diritto alla felicità e alla creatività. Quando lo scontro si era fatto durissimo, una specie di piccola guerra civile, a cavallo tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 sono arrivati eroina in modo massiccio e terrorismo, la mia generazione è stata prima portata a scelte estreme e poi letteralmente cancellata. Sono morti molti miei amici di eroina, altri hanno fatto la scelta scellerata delle armi, io ho continuato a scrivere, a scrivere anche di loro e di quegli anni giovani irripetibili pieni di speranza.
Ecco la pagina finale di La metà del cielo: «Ho iniziato a scrivere questo libro nel 2005, un anno prima che Patrizia morisse, sotto forma di appunti […] e ho continuato a lavorarci ossessivamente, concependolo alla fine come un’elaborazione permanente del lutto. In un determinato momento pensavo addirittura che non lo avrei pubblicato, continuando privatamente a riscriverlo. Renderlo pubblico è anche un modo per staccarmene, far uscire questa massa di storie e destini dal mio corpo, cercare di pacificarmi con la memoria affollata di quella vita che non c’è più». Come va l’affollamento della memoria, ora? La scrittura ti ha aiutato? La scrittura, specie quando si fa pubblica, aiuta a elaborare un lutto?
Ho già risposto. Si, sicuramente sì.
Infine, una domanda che rivolgiamo a tutti gli intervistati. Il nome di questa rubrica è un verso di Pagliarani. Lo vorremmo usare come un termometro, provare a capire davvero “quanto di morte noi circonda”, poiché i discorsi che circondano la morte sono, in questo senso, piuttosto contrastanti: da una parte ci viene detto che la morte è, per noi contemporanei d’Occidente, il rimosso per antonomasia, ciò che non vogliamo vedere e occultiamo costantemente; dall’altra, invece, che la morte è sovraesposta e che è (divenuta?) la vera e sola protagonista delle nostre storie. Che pensi al riguardo? Quanto di morte noi circonda?
Per tre anni ho lavorato a un libro sul fine vita che uscirà il prossimo anno dal Saggiatore. Non lo so se se ne scrive troppo o troppo poco, ma è un tema classico del pensiero filosofico e della letteratura. Diciamo che nella società atomizzata la morte ha perso la ritualità e il vincolo sociale, la condivisione che c’era nelle società comunitarie, nella civiltà contadina, non c’è più, si muore sempre soli, ma oggi di più. I vecchi si spengono dopo molte ospedalizzazioni, muoiono abbandonati nelle corsie degli ospedali. Per quanto mi riguarda avevo un rapporto molto forte con la morte già da ragazzino, un pensiero costante di attrazione e paura. Mio nonno, che si chiamava come me, morì suicida negli anni ’30 a soli 33 anni, e per molto tempo ho pensato che anch’io sarei morto giovane come lui e a quell’età. Sicuramente io non l’ho rimossa! Inoltre, essendo anche fortemente ansioso e ipocondriaco, il pensiero della morte ha nutrito, al contrario e per reazione, anche un mio forte vitalismo. L’idea di viaggiare, di perdermi, di esplorare, credo venga da questo rapporto così profondo, e ormai così intimamente necessario.
*Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.