Quanto di morte noi circonda ⥀ Intervista a Dario Voltolini

Per la rubrica-inchiesta Quanto di morte noi circonda, volta a indagare la presenza del lutto nell’immaginario contemporaneo, i curatori Luca Chiurchiù e David Watkins intervistano oggi Dario Voltolini. Tutti i dialoghi finora pubblicati possono essere letti qui

 

«Quanto di morte noi circonda» è un verso di Elio Pagliarani. Ora, è anche il titolo di un’inchiesta di Argo sull’immaginario contemporaneo del lutto.

La morte è il rimosso del nostro tempo.
La morte è l’assillo del nostro pensiero e delle nostre scritture.

Queste due affermazioni, palesemente contraddittorie, coesistono nei discorsi dei nostri giorni, sgomitano alle soglie delle nostre impressioni e delle nostre incertezze. Abbiamo così deciso di porre alcune domande a scrittrici e scrittori che – venendo da vari ambiti e maneggiando vari strumenti – hanno affrontato la questione del lutto e della perdita, del rapporto con la morte e con la malattia, in un modo che ci interroga e ci costringe, di volta in volta, a prendere posizione.
È per vederci un po’ più chiaro. È per misurarci la febbre.

(L.C. e D.W.)

 

 

Oggi, abbiamo il piacere di pubblicare un’intervista a Dario Voltolini sul suo ultimo libro, Invernale (La Nave di Teseo, 2024). Ringraziamo l’autore per aver accettato il nostro invito.


 

Non è l’enfasi farlocca di molte quarte di copertina a far dire a Moresco che le ultime pagine del tuo libro «si leggono con le lacrime agli occhi». Invernale (La nave di Teseo, 2024) è un libro che commuove, ma non tanto per il suo tema, il suo che cosa, la malattia e la morte di un padre raccontate, ad anni di distanza, da un figlio che porta lo stesso nome dell’autore. Di libri che mettono a tema queste cose non ce ne sono pochi: non è che ci commuovano tutti, anzi. È il come, al solito, a essere decisivo, è il modo a commuovere, a farsi sentire.
Tra i come che saltano agli occhi, anzi agli orecchi, in questo libro, c’è la posizione della voce che sentiamo parlare nelle sue pagine. La sua mobile distanza. Il suo suggerire, più che narrare. Spesso, quando soffriamo, tendiamo a diventare un po’ più egocentrici di quanto già non eravamo, e la sofferenza è anche quella cosa che ci costringe a rimanere appiccicati a noi stessi. Qui, invece, c’è una prima persona, quella del figlio, che non fa nulla per marcare la propria presenza, un soffrire che tende a scomparire nello sfondo. È una voce difficile da collocare, nel senso che è mica facile capire da dove ci stia parlando; se sia una voce che immagina o ricorda; se abbia visto o sognato. Descrittiva e congetturale insieme, smagata in un’esattezza evocativa. Ci viene incontro con la potenza delle presenze più discrete, che fanno capolino a intermittenza, lentamente; rarefatta e defilata all’inizio, assorta com’è nel miraggio della figura paterna e del mondo a lui circostante, dà la parola al proprio dolore solo nelle ultime parti del libro. Quando infine si lascia andare a qualcosa di «simile alla preghiera», un’invocazione rivolta all’esistenza ormai eterea del padre, ecco che le parole è come uscissero dal libro e venissero tutte qua fuori, catapultate al presente, incorporate a un gesto reale. I sentimenti tornano allora a farsi sentire con una potenza commisurata al rigore con cui erano stati sin lì trattenuti.
Come t’è venuta, questa voce, questa singolarissima posizione del narratore? E quali sono invece le posture, i modi di raccontare il lutto che hai più voluto evitare?

Per me è stato naturale, collocando al centro della storia mio padre e quegli anni, riservare per me personaggio una parte minore e defilata, quantomeno per buona parte del racconto. Perché così è andata: lui era al centro e chi gli stava attorno era un testimone. Però la questione, a vederla a posteriori e tecnicamente, è infatti un po’ complessa: il narratore, ad esempio, ha ormai più di quindici anni di più di quanti ne avesse il padre quando è morto. Il narratore presta le sue parole e i suoi ricordi non solo al padre narrato, ma anche al figlio narrato. Il narratore, dunque, è il padrone del racconto, ma quando il narratore era quel ragazzo che sta nel racconto, non era padrone assolutamente di niente. Credo che tutto ciò nel libro si combini in maniera fluida, ma questo non dipende da una scelta tecnica di scrittura (non ne sarei venuto a capo), anzi: avendo scritto il libro di getto in poco tempo, solo a posteriori vedo cosa è capitato dal punto di vista dell’analisi del testo. Non ci sono posture che ho voluto evitare, ho trovato la fessura in cui incunearmi per scrivere questo libro e non ho pensato a nient’altro, scrivendolo.

 

Spesso, per elogiare un’opera artistica o letteraria, si dice che essa è riuscita a «trasfigurare il dolore». Volessimo usare un’espressione meno impacchettata di questa, quale potrebbe essere il verbo più adatto a dire ciò che un libro come Invernale ha fatto col dolore?

Io approssimativamente la vedo così: quando si affronta il nesso inscindibile che lega insieme la vita e la morte, e lo si fa poi a ben guardare quasi sempre, e lo si tratta producendo una creazione artistica, o simbolica, o mettila come vuoi, il semplice fatto di produrre qualcosa creativamente fa pendere il piatto della bilancia un po’ più dalla parte della vita. Non so se questo possa chiamarsi «trasfigurazione», ma certamente è un modo per trascinare nella produzione poetica, che per definizione secondo me è vitale, elementi che vitali non sono. Così il dolore e la morte non restano solamente dolore e morte, ma parti di un organismo vivo che li ingloba, cioè l’opera creata. Secondo me il massimo e penso irraggiungibile apice di questo lavoro lo sta facendo Antonio Moresco, da molti anni, da quando scrive. Il suo ultimo libro, Canto del buio e della luce, è una straordinaria creazione in cui emblematicamente, definitivamente, onnicomprensivamente collassano tutte le dualità del tipo di quella di cui stiamo parlando, vita/morte, e cioè piacere/dolore, bene/male, inizio/fine… collassano in quella più originaria di luce/buio. Ma l’esistenza di quel libro sta dalla parte della luce, il fatto che ci sia è luce.

 

Oltre alla discrezione del narratore, c’è anche quella delle prime avvisaglie della malattia. Una fiacca un po’ più fiacca del solito, una spossatezza magari innocua, e che però insiste, e torna lì, a chiedere di essere ascoltata. Chiedere udienza, chiedere ascolto. Sono espressioni che compaiono a più riprese nel corso del libro, come eventi corporei: è il corpo a chiedere, a esigere un orecchio più fino. E la tua scrittura è anche un ascolto, un origliare che indovina a ritroso i segnali sussurrati dal corpo, il non so che di stranito che comincia a fare breccia nei gesti del padre e che diverrà percepibile a pieno soltanto après-coup. Intercetta la malattia in ciò che essa ha di più periferico e aereo, la sua iniziale capacità di mimetizzarsi nella vita di ogni giorno. A un certo punto, Dario ricorda la sua lettura di Tre uomini in barca, il genio di Jerome K. Jerome, la comicità dei suoi personaggi ipocondriaci. Quali sono i libri che più ti hanno colpito per il modo in cui hanno saputo ascoltare e descrivere la malattia?

Ma sai che non me ne viene in mente nessuno? È paradossale, ma è così. Mentre molte sono le letture che mi hanno aiutato a scrivere questo libro, non me ne viene in mente nessuna che lo abbia fatto dal punto di vista del tema o del contenuto. Ti faccio alcuni esempi. L’idea di cominciare con una scena fondante (quella del lavoro di mio padre nel suo negozio di macelleria) deriva dallo stupore che ho provato quando ho letto Conversazione nella Cattedrale di Mario Vargas Llosa. Il primo capitolo di quel libro da allora mi gira dentro come un esempio grandioso di inizio. Non ho cercato di imitarlo (tra l’altro è impossibile), l’ho solo tenuto lì in testa (nel cuore) a farmi compagnia mentre scrivevo. Un altro libro che mi ha sostenuto è Enti di ragione di Marta Cai, libro incontrato per una serie casuale di coincidenze. Mi ha tenuto compagnia il suo misterioso talento sintattico di mescolare analisi e sintesi in modo inedito. Due autori, più che loro libri in particolare, mi hanno tenuto molta compagnia, cioè gli amici Antonio Moresco, con la sua capacità sovrumana di fissare negli occhi il dolore e la morte creando opere meravigliose, e Davide Longo, per la forza con cui sa stipare nelle frasi una grande quantità di senso. E poi potrei citare anche La sposa giovane di Alessandro Baricco per la fluidità straordinaria dei passaggi narrativi fra prima e terza persona, nonché, a questo riguardo, La parte di Malvasia di Gilda Policastro, dove la figura del narratore quasi svanisce, si polverizza. Ecco, sono solo alcuni esempi di scrittura a cui mi è venuto di guardare come quando uno spettatore guarda gli atleti che nei loro sport dimostrano cosa un essere umano può arrivare a fare, anche se tu ­­– spettatore – non sei un essere umano particolarmente atletico.

 

Il processo che va dalla malattia alla morte non è così lineare. Se una linea c’è, è una linea zigzagata, che procede a balzi, per intervalli discontinui. «È un processo con ritmi suoi, sembra rallentare ma mantenendo una costanza, sembra anche ripartire rapidamente e con sincopi, sembra. Preleviamo solo le onde di superficie del moto dell’oceano, ecco cos’è». Qualcosa di simile mi pare si possa dire anche a proposito del ritmo della tua scrittura e della struttura stessa del libro. Come la malattia, così anche il libro avanza in un climax intimamente dissestato, che ha una sua costanza, ma è una costanza che non esclude l’inatteso da cui si lascia attraversare. Come hai lavorato a questa struttura? E che tipo di problemi ti ha posto?

Ho lavorato a questa struttura usando la scrittura come lo strumento musicale di un jazzista impegnato in una improvvisazione. Avevo un’idea chiara di cosa raccontare dall’inizio alla fine e anche un tempo determinato per farlo, cioè mi sono posto due date precise, un po’ scaramantiche, un po’ celebrative, il 2 giugno del 2022 l’ho iniziato per finirlo tassativamente il 24 luglio dello stesso anno. Sono le date di nascita e morte di mio papà. In quelle poche settimane ho come “suonato” con la scrittura, cercando di rallentarla dove la storia aveva rallentato, di accelerarla dove la storia aveva accelerato, di sincoparla dove la storia aveva avuto cambi di ritmo, e così via. Insomma, ho lavorato alla struttura mentre scrivevo, non prima e non dopo (non ho cambiato niente di rilevante della prima stesura del testo, tranne correggere errori e migliorare certi passaggi grazie alla mia preziosa e acutissima editor Ilaria Caretta). D’altra parte, la storia che ho raccontato ha avuto tutto il tempo (40 anni) per strutturarsi da sé nel ricordo, nella memoria e nei miei sentimenti, bisognava solo cercare di renderla scritta.

 

Leggendoti, m’è venuto da pensare che la malattia agisce come una forma di “straniamento”, fa ciò che Sklovskij considerava il procedimento più caratteristico e salutare dell’arte: sfalda l’abitudine, incrina l’automatismo percettivo, rende di nuovo estraneo anche il gesto più collaudato, esce la vita dai propri binari. Pensi si possa dire che, malgrado tutto, nel dramma della malattia sia contenuta anche un’esperienza conoscitiva che ci permette di vedere con altri occhi “il consuetume” della nostra esistenza – o credi che affermazioni di questo tipo non facciano che estetizzare il dolore, ostinandosi a cercare la poesia in un posto in cui di poesia ce n’è poca davvero?

Domanda difficilissima! Provo a rispondere spacchettandola un po’. Innanzitutto non è certo solo la malattia o il danno in generale che sfaldano l’abitudine e incrinano l’automatismo percettivo e se potessimo scegliere credo che sceglieremmo l’innamoramento invece che la malattia per sabotare questo “consuetume”, ad esempio. Poi, se è vero che l’arte in sé ottiene gli stessi effetti, allora può farlo anche senza appoggiarsi né alla malattia né all’innamoramento, o ad altri fenomeni che sabotano la noia del vivere, può farlo e basta. Pensiamo a cosa resta del “consuetume” del vivere una volta che sia passato tra le mani di un Robert Walser, per dirne uno (grandissimo). Inoltre sarebbe il caso di considerare l’ipotesi che lo “straniamento” sia in verità un disvelamento, cioè un processo che trapassa ciò che chiamiamo realtà e ci porta a una realtà più vera, per dirla grossolanamente. Quando Moresco afferma che uno dei più grandi scrittori “realisti” è Kafka, credo che voglia dire questo. Per concludere, forse si può dire che ogni processo artistico, o simbolico in senso lato, o di inceppamento del “consuetume” in senso ancora più lato, tutto fa tranne che “estetizzare”.

 

Gino, il padre di Dario, fa il macellaio. Oltre a essere un lavoro, quella del macellaio diventa, nel tuo libro, una zona per inoltrarsi nel rapporto tra umano-animale, per guardare le cose da un punto in cui i confini tra uomo e bestia ci sono non ci sono…

È andata così, faceva il macellaio. Se avesse fatto il verduriere sarebbe stato interessante inoltrarci nel rapporto tra umani e vegetali, ancora più interessante, forse. E se avesse fatto il meccanico… Nel mio libro volevo evidenziare come possa succedere che uno che le bestie le riceve morte dall’origine di una filiera alimentare molto complessa e le seziona per renderle cibo si senta “dalla stessa parte” degli animali. Sembra assurdo, in effetti. Posso spiegarlo solo con un paragone: il macellaio è come il pittore, che prende colori elaborati a monte, li combina, prepara la tela, a volte infierisce su di lei, spesso è aggressivo mentre dipinge, ma poi quando vende il quadro è un po’ triste e non solo remunerato, è triste perché si separa quasi come da una parte di sé.

 

Nelle ultime parti del libro, c’è una scena, pochi tratti essenziali, m’è rimasta addosso, si porta dietro una luce tutta sua. La malattia di Gino è ormai nei pressi dell’irreversibile. Arriva il giorno del suo compleanno, la moglie organizza un pranzo, tanti invitati. Questa escursione termica tra compleanno e fin di vita, questa loro coesistenza. E questa riflessione, che intervalla il racconto:

Esistono momenti in cui un lampo appare in tutta la sua evidenza che c’è qualcosa che sta da un’altra parte rispetto all’emozione e ai sentimenti. Qualcosa che sta prima di loro, che sta dopo e che quindi sta anche mentre, ma non è un’emozione, non è un sentimento, non si sa cos’è. È un lago di pietra perpetua che si intravede in un baleno di notte, è uno stato. La festa non festeggia, la gioia non può gioire. Persino la paura è annichilata da quel lago intravisto e immediatamente scomparso, che però c’è, come se fosse l’unica cosa che c’è, sebbene ciò sia falso. La rabbia si è sconvolta lei stessa nei suoi visceri, sparandosi addosso, si è suicidata in un suo stesso eccesso. La tristezza è qualcosa che svanisce di colpo davanti a quella pietra, proprio lei che con falsa umiltà pretende di avere l’ultima parola di fronte a certe circostanze.

Ti va di dirci qualcosa in più su questo stato che precede e circonda il sentimento? Questa pietra perpetua. Ti va di dirla un po’ peggio di come hai fatto nel libro?

Simpatico! Mah, mi è venuta questa immagine, questa riflessione, mentre pensavo alle emozioni che a volte ci travolgono, con la loro potenza e spesso con la loro lotta contraddittoria. Sono momenti forti, sembrano infinitamente carichi di senso. Eppure sono forze che ruotano attorno a un perno vuoto, non so come chiamarlo: morte? nulla? increato? passato? futuro? Dove siamo quando non ci siamo ancora e quando non ci siamo più? E quel posto misterioso e inattingibile non è che forse ci accompagna anche mentre siamo vivi? Non ho trovato di meglio che immaginarlo come un lago di pietra, senza movimento, impenetrabile, non addomesticabile neanche dalle religioni, assoluta stasi. Ma allora, come mai talvolta ne intuiamo la presenza? È un mistero anche quale tipo di mistero sia.

 

Altra scena, Dario che diventa freddo.

Una sensazione mai provata, non è febbre, non le assomiglia nemmeno. Non c’entra niente il clima, che anzi si sta surriscaldando nel pomeriggio senza vento. Sono io che divento freddo. Ghiacciato. Non riesco a muovermi, sto nel letto. Sono freddo, congelato. In un punto netto del pomeriggio non ho più nulla che possa chiamarsi “temperatura”.

Poi, qualche pagina più in là, si scopre che questo momento, in cui il gelo ha preso Dario da dentro, ha coinciso con quello in cui, a km di distanza, moriva suo padre. Leggendo quelle righe, m’è tornato in mente che, un secolo e qualcosa fa, a Londra, la Società per la Ricerca Psichica organizzava convegni su fenomeni analoghi a questi. Sono andato a riaprire un libriccino che raccoglie alcuni degli interventi. Tra i partecipanti, gente tipo William James e Henri Bergson. Fu proprio Bergson a ipotizzare che, lungi dall’essere roba da occultismo, l’«allucinazione veritiera» mediante cui «un infermo o un moribondo» viene percepito da «un parente o un amico che abita molto lontano» sia un fenomeno perfettamente inscrivibile nell’ordine naturale delle cose, espressione di una legge analoga a quelle fisiche. È che le coscienze possono comunicare «senza un intermediario visibile», e anzi lo fanno di continuo, «in ogni momento e in tutto il mondo», ma lo fanno alle nostre spalle, in modo assai discreto, varcando la soglia della percezione cosciente solo di rado. Ciò che chiamiamo «telepatia» non è che la punta dell’iceberg di un processo ordinario. «Produciamo elettricità in ogni istante, l’atmosfera è costantemente elettrizzata, ci muoviamo tra correnti magnetiche». Che rapporto pensi possa esistere – se pensi che esista – tra la scrittura e questa «elettricità» perenne e diffusa nell’aria? Credi che la letteratura sia anche uno strumento che consente di captare «le correnti magnetiche» entro cui sempre ci muoviamo, ma che tendono a rimanere al di qua dell’ordinaria percezione?

Sì, senza dubbio. In attesa che lo faccia la scienza o quello che sarà ciò che noi oggi chiamiamo scienza. Se lo farà.

 

E che cosa resta del tempo, quando si entra nel lutto? «Passa il tempo. Passa, il tempo?»

Il tempo è certamente il massimo tema con cui i nostri pensieri si confrontano. Nostri intendo di tutti noi, non solo dei filosofi o dei fisici o dei mistici o che ne so. Colgo l’occasione per segnalare una competenza in più che i narratori hanno rispetto a tutti gli altri, vale a dire quella di avere la dimestichezza con tempi diversi: il tempo della storia, il tempo del racconto, i tempi verbali (soprattutto). Non che ciò ci renda più acuti nel meditare sul tempo, ma insomma… Il fatto è che per venire a capo del mistero del tempo temo che occorra più tempo di quello che abbiamo!

 

Infine, una domanda che poniamo a tutti. Il nome di questa rubrica è un verso di Pagliarani. Lo vorremmo usare come un termometro, provare a capire davvero «quanto di morte noi circonda», poiché i discorsi che circondano la morte sono, in questo senso, piuttosto contrastanti: da una parte ci viene detto che la morte è, per noi contemporanei d’Occidente, il rimosso per antonomasia, ciò che non vogliamo vedere e occultiamo costantemente; dall’altra, invece, che la morte è sovraesposta e che è (divenuta?) la vera e sola protagonista delle nostre storie. Tu come la pensi? «Quanto di morte noi circonda?»

Forse la morte non è poi così rimossa come appare, credo. In ogni caso è la seconda affermazione che trovo parziale, perché la morte non può essere la sola protagonista delle nostre storie, poiché sempre c’è anche la vita. Paradossalmente è la vita a essere il grande rimosso se si accetta la seconda, peraltro apparentemente verissima, affermazione.

 

 

 

*Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.


This work was supported from OP JAC Project “MSCA Fellowships at Palacký University II.” CZ.02.01.01/00/22_010/0006945, run at Palacky University in Olomouc, Czech Republic.

Dario Voltolini