Quanto di morte noi circonda ⥀ Intervista a Davide Sisto
Quanto di morte noi circonda, la rubrica-inchiesta sull’immaginario contemporaneo del lutto curata da Luca Chiurchiù e David Watkins, invita oggi al dialogo Davide Sisto, filosofo e tanatologo. Tutti i dialoghi finora pubblicati possono essere letti qui
«Quanto di morte noi circonda» è un verso di Elio Pagliarani. Ora, è anche il titolo di un’inchiesta di Argo sull’immaginario contemporaneo del lutto.
La morte è il rimosso del nostro tempo.
La morte è l’assillo del nostro pensiero e delle nostre scritture.
Queste due affermazioni, palesemente contraddittorie, coesistono nei discorsi dei nostri giorni, sgomitano alle soglie delle nostre impressioni e delle nostre incertezze. Abbiamo così deciso di porre alcune domande a scrittrici e scrittori che – venendo da vari ambiti e maneggiando vari strumenti – hanno affrontato la questione del lutto e della perdita, del rapporto con la morte e con la malattia, in un modo che ci interroga e ci costringe, di volta in volta, a prendere posizione.
È per vederci un po’ più chiaro. È per misurarci la febbre.
(L.C. e D.W.)
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Davide Sisto è un filosofo e un tanatologo, insegna all’Università di Torino e al Master «Death Studies & the End of Life» dell’Università di Padova. Tra i suoi libri, tradotti in varie lingue, teniamo particolarmente a segnalare: La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale (2018), Ricordati di me. La rivoluzione digitale tra memoria e oblio (2020), Porcospini digitali. Vivere e mai morire online (2022), tutti editi da Bollati Boringhieri, e Virtual influencer. Il tempo delle vite digitali (Einaudi, 2024).
Grazie di aver accettato di essere dei nostri, Davide Sisto. Ci tenevamo che la tua voce ci fosse, in quest’inchiesta sull’immaginario contemporaneo del lutto. Da alcuni anni ormai, e tra i primissimi in Italia, stai indagando in quali modi la rete sta modificando il nostro rapporto con la morte: i culti, le forme di commiato e addirittura la stessa percezione dell’evento ultimo stanno infatti subendo trasformazioni irreversibili, nell’epoca della rivoluzione digitale. La prima domanda è quindi questa, e abbastanza dritta: i nuovi mezzi tecnologici, amplificando e prolungando l’esistenza – o almeno: certe tracce d’esistenza – di chi scompare, ci aiutano nell’elaborazione del lutto oppure ce la complicano, la ostacolano?
Entrambe le cose. Da una parte, mai come oggi disponiamo in autonomia di spazi pubblici in cui possiamo esprimere dinanzi a centinaia o migliaia di persone i nostri sentimenti derivati dalla perdita di una persona amata. Possiamo sfogarci, raccontando cosa stiamo provando: i sensi di colpa, la mancanza, il bisogno di ricominciare, ecc. E le molteplici tracce della persona defunta, lasciate sui social, rappresentano una testimonianza vivida, un ricordo particolarmente ricco del suo passaggio sulla terra. Dall’altra parte, al contrario, la presenza a tempo indeterminato delle tracce del morto può intercettare in maniera patologica il dolore che proviamo e dunque interferire malamente nel percorso che ci porta a ricominciare daccapo senza la persona amata. Questo vale tanto per i luoghi pubblici online, come i menzionati social ma anche come i blog e gli altri luoghi frequentati, quanto per i luoghi privati, come le applicazioni di messaggistica privata. Pensiamo alla potenza chiaroscurale di un profilo WhatsApp, colmo di messaggi vocali, pensieri scritti, immagini fotografiche e video. Quel profilo corrisponde tanto alla lapide al cimitero, quale luogo in cui indirizzare i nostri dialoghi simbolici con il morto, quanto a un ricatto vero e proprio: al cimitero ci posso andare anche tutti i giorni, ma solo a orari determinati, sul profilo WhatsApp ci posso in teoria stare 24h/24. Si capisce, dunque, quanto possa diventare doloroso questo profilo per affrontare l’elaborazione del lutto.
Nel saggio Ricordati di me. La rivoluzione digitale tra memoria e oblio (2020) rifletti sulle potenzialità autobiografico-enciclopediche dei social, intesi appunto come nuove autobiografie espanse, collettive, alla portata di tutti, porose e senza diritto d’autore, e allo stesso tempo come future enciclopedie che raccoglieranno le storie di persone comuni – cioè, per usare vecchi termini: non illustri – ormai scomparse. Ecco: ora che l’autobiografia è appannaggio di chiunque, cosa resta secondo te dell’autobiografia (e dunque anche della biografia) propriamente letteraria? Che ruolo – se un ruolo debba poi avere – ha?
Difficile rispondere perché noi siamo, forse, i primi esseri umani a essere protagonisti nella sfera pubblica, a prescindere dal nostro ruolo lavorativo o sociale. Chiunque, grazie ai social, può diventare un punto di riferimento. Pensiamo agli influencer. Pertanto, diminuisce la distanza tra personaggio pubblico, come lo abbiamo inteso fino a qualche anno fa, e persona comune. La grande differenza, che rende ancora appetibile l’autobiografia di un tempo, è l’effettivo valore di ciò che abbiamo realizzato. Dubito che, col passare del tempo, sia interessante ricordare un influencer che si è distinto per qualche sciocco video su TikTok rispetto a chi ha avuto veramente qualcosa di importante da dire.
Sempre in quel capitolo sull’autobiografia, ti concentri sui cancer bloggers, ossia su coloro che, grazie alla rete (social, forum, blog, ecc.) decidono di condividere il decorso della propria malattia, oppure, nel peggiore dei casi, l’esperienza del morire, traendo da questa condivisione conforto, vicinanza e senso, seppure da una comunità immateriale. Non so se ti è capitato di leggere gli scritti postumi di Luca Rastello, un torinese come te, che, da malato terminale, avrebbe voluto dedicare un romanzo al mondo – discorsi e istituzioni – della malattia e della morte, rimasto purtroppo in forma di frammenti e di progetto. Uno di questi frammenti preparatori è impostato proprio come un forum virtuale in cui tutte le voci, tutti gli utenti di questo forum immaginario, sono alle prese con Madame Problema: la malattia mortale, il cancro. Il confronto tra le voci non si gioca tanto sugli aspetti pratici che riguardano la convivenza con la patologia, quanto sui modi in cui le altre persone, i cosiddetti sani, coloro che circondano il malato, sono del tutto incapaci di relazionarvisi: forse perché non lo vogliono davvero, per quanto buoni siano i loro propositi, ma più probabilmente perché la morte e la malattia incurabile rimangono questioni dinanzi alle quali siamo sempre impreparati, sguarniti di competenze. Ecco allora che l’unica comunicazione possibile, per i malati, è quella con chi si trova nella loro stessa condizione: da qui l’importanza delle comunità in rete. La domanda che ti faccio è questa: come possiamo relazionarci in maniera degna con chi sta morendo, con i malati? Qual è la parola giusta che non tradisca la nostra paura e che non accentui il loro senso d’esclusione?
Bella domanda. Innanzitutto, credo che la cosa fondamentale sia chiedere a noi stessi: «che cosa non vorremmo leggere ci trovassimo nella condizione di un cancer blogger?», «che cosa ci farebbe soffrire o ci darebbe fastidio?» Ciascuno ha una sensibilità differente da quella altrui, ma certamente partire da questo presupposto permette quantomeno di evitare commenti fuori luogo. Ci si dovrebbe anche chiedere se è proprio necessario commentare. In caso di risposta affermativa, occorre riuscire a essere delicati nella comunicazione, evitando tanto la compassione quanto il dare la carica fine a sé stesso. Chi ha vissuto una esperienza simile può raccontarla, ricordando però che non sempre l’altro – che sta cercando di avere supporto – apprezza questo tipo di comunicazione incentrato sulla narrazione di un’esperienza altrui. Come vedi, non ci sono regole oggettive. Di certo, la cosa migliore è dare attenzione al messaggio trasmesso e, a partire da questo messaggio, cercare di intercettare empaticamente l’altra persona. A volte, bastano veramente poche parole o anche solo l’uso degli emoji (il cuore o l’abbraccio). Non bisogna strafare. Chi cerca un nostro aiuto o comunque ha bisogno di conforto necessita di spontaneità e di autentico senso di vicinanza.
Insieme a Roberta Clamar, hai curato l’edizione italiana di Foreverismo. Fenomenologia di ciò che non finisce, un libro di Grafton Tanner che rovescia il leitmotiv a cui eravamo abituati da un po’ di tempo. La nostra non sarebbe più l’epoca della nostalgia, del rimpianto immobile e compensatorio di un passato che non abbiamo vissuto e che vorremmo ritornasse – le grandi narrazioni che non ci hanno mai confortato e di cui pure sentiamo il richiamo e la mancanza – quanto quella della preservazione del presente, della paura per l’opera di corruzione e oblio del tempo e dell’evitamento della nostalgia. Perché abbiamo così bisogno – ancora – di sentire che non possiamo perdere ciò che è attorno a noi? Perché la consapevolezza che tutto sia destinato a scomparire non ci libera?
Secondo me, si lega molto alla paura della morte. Quando muore un’icona pubblica, David Lynch, Raffaella Carrà o Diego Armando Maradona, la prima reazione è generalmente quella dell’incredulità, perché si dà per scontato che siano immortali. Lo stesso vale per ogni altra esperienza. Il passare del tempo è insensibile alle nostre attuali esigenze di presente perpetuo, dunque dobbiamo sforzarci di impedire al tempo di passare. In tal modo, non ci sentiamo coinvolti nel processo del divenire e dunque del nostro futuro superamento. Le tecnologie in uso facilitano questo obiettivo: tramite il processo della registrazione permettono a film, eventi culturali, album musicali, ecc. di continuare a far finta di far parte del presente. E allora ci chiudiamo nella nostra bolla: la nostalgia, per esempio, per gli anni ’90 si trasforma nel tentativo di renderli costantemente presenti. Basta andare su YouTube, Netflix, Amazon Prime o Spotify. Credo comunque che il rifiuto della nostalgia e il desiderio di un presente senza fine siano caratteristiche delle generazioni meno giovani, diciamo dai Millennials andando a ritroso. Chi fa parte della Gen Z dubito senta questo tipo di pressione, perché gli eventi che si vuole mantenere sempre presenti non li ha vissuti. La nostra è comunque un’epoca curiosa e anche affascinante, proprio perché segnata dai fenomeni sia della retromania sia del foreverismo. Da questo punto di vista, la serie tv Black Mirror resta una maestra narrativa indiscussa: da San Junipero agli ultimi Eulogy o Hotel Reverie rappresenta perfettamente questo strano sentire odierno.
Una cosa bizzarra; una specie di esperimento, se ti va. Nel tuo ultimo libro, Virtual influencer. Il tempo delle vite digitali (2024), ti sei occupato delle nuove presenze spettrali che popolano la rete: personaggi creati dall’intelligenza artificiale che vengono “seguiti” da migliaia di persone (reali) che non sempre si rendono conto della natura fittizia dei loro beniamini. Voglio fare un esperimento, e dare parola all’intelligenza artificiale per farti una domanda. Ecco il prompt: «formula una domanda complessa a Davide Sisto su e come – i modi concreti, cioè – i virtual influencers potrebbero aiutare persone che stanno affrontando un lutto». Ecco la domanda creata da Claude.Ai: «Professor Sisto, considerando la crescente interazione emotiva tra esseri umani e presenze digitali, in che modo i virtual influencers potrebbero essere progettati eticamente per accompagnare il processo di elaborazione del lutto? Più specificamente, potrebbe esplorare gli scenari in cui queste entità potrebbero fungere da mediatori della memoria collettiva o individuale, bilanciando la perpetuazione digitale del ricordo con la necessità psicologica dell’accettazione della perdita, ed eventualmente quali protocolli etici sarebbero necessari per impedire che questa forma di supporto digitale al dolore si trasformi in una dipendenza patologica o in un’illusione di immortalità che ostacola il naturale processo di distacco?» Ed ecco la domanda quando chiediamo di aumentare il gradiente provocatorio: «Professor Sisto, nell’era in cui i confini tra reale e artificiale si confondono, i virtual influencers potrebbero rappresentare una forma pericolosa di necrofilia digitale per chi affronta un lutto? Considerando che queste entità potrebbero essere programmate per simulare le personalità dei defunti, quali sono i rischi concreti che, anziché favorire l’elaborazione della perdita, possano cristallizzare il dolore in una dipendenza da simulacri, creando un pubblico di sopravvissuti incapaci di attraversare il lutto perché sedotti dalla promessa di una presenza che non può mai morire?»
Per rispondere bisogna tener conto di una caratteristica tipicamente umana, ben stimolata dall’intelligenza artificiale: il bisogno di proiettare noi stessi e le nostre esigenze su qualcosa di completamente immaginario. I virtual influencer, così come ogni entità solo digitale, incarnano questo bisogno. Nel loro modo di esprimersi “umanamente” intercettano le nostre emozioni e le nostre idealizzazioni. Dunque, questi esseri artificiali potrebbero, giocando con la nostra fantasia e il nostro bisogno di creare immaginazioni, fornirci un supporto inedito in presenza di una perdita, essendo ben più utili di un nostro simile umano, il quale spesso si limita a fare discorsi terra terra. D’altronde, il rischio maggiore è la loro capacità di creare una dipendenza dalla relazione che instauriamo con loro. Di fatto chi li crea non è un benefattore dell’umanità ma il venditore di un prodotto. E questo vale anche per le riproduzioni artificiali dei morti. Noi esseri umani siamo molto portati alla dipendenza. Dunque, è facile rimanere intrappolati in una relazione in cui l’altra entità è programmata per affascinarci e trattenerci nel dialogo. In fondo, se ci pensi, molti esseri umani si comportano nella stessa identica maniera, cercando di rendere dipendenti da sé gli altri. Bisogna dunque fare attenzione e soprattutto capire la differenza tra immortalità e memoria riproduttiva. La simulazione della personalità di un defunto non ha nulla a che fare con la sua presenza. È una riproduzione di contenuti precedentemente registrati. Porre attenzione su questo è già un buon punto di partenza.
Il tuo è lo sguardo del filosofo e del sociologo, uno sguardo che abbraccia spesso, con puntualità e senza pregiudizi, anche la cultura visuale, musicale, cinematografico-seriale e letteraria. A questo proposito, nella tua trilogia sulla Digital death (La morte si fa social; Ricordati di me; Porcospini digitali) fai dei riferimenti importanti: a Tolstoj, per esempio, o a Marías, passando per Lewis, Calvino, Borges, Goethe, Sebald e perfino per un grande, grandissimo visionario dimenticato come Giorgio De Maria. Però ti chiedo comunque: mi puoi dire quali sono secondo te gli altri scrittori, di finzione o meno, di versi o di prosa, che meglio hanno inquadrato la questione del lutto e quanto essa implica? Oppure, meglio: se un tuo studente o una tua studentessa ti chiedessero qualche titolo per essere accompagnati durante un lutto, tu quali gli consiglieresti, oltre a quelli che citi nei tuoi studi per esigenze, per così dire, argomentative?
Pur non essendo un credente, mi viene immediatamente in mente Diario di un dolore di C. S. Lewis, un testo veramente potente e suggestivo. Lo so, lo hai già menzionato tu, però resta – secondo me – eccezionale. Recentemente, mi ha molto colpito Una questione di vita e di morte dei coniugi Yalom, testo scritto a quattro mani ma finito dopo la morte della moglie di Irvin, Marylin. Anche i lavori di Roland Barthes sulla fotografia e sul lutto per la madre sono molto toccanti e intimi. Poi, va beh, per la mia formazione filosofica resta intramontabile il dialogo Clara di Schelling, puro romanticismo tedesco lifestyle.
E se lo stesso studente o la stessa studentessa ti chiedessero invece un album o una playlist in grado di raccontare in maniera efficace l’attraversamento del lutto e le sue conseguenze, tu quale gli proporresti? E perché?
Judgement degli Anathema è un disco struggente, scritto all’indomani della morte della mamma dei due leader del gruppo, i fratelli Cavanagh. In particolare, One Last Goodbye è una canzone drammaticamente intensa. Un disco eccezionale per come descrive l’esperienza del lutto. Penso, quindi, a un gruppo come i Type O Negative, che hanno trattato di lutto nella maggior parte dei loro album. Ad esempio, la canzone Everyone I love is Dead è una canzone splendida, che racconta una serie di lutti vissuti in tempi molti ravvicinati dal leader Pete Steele, purtroppo morto diversi anni fa. Anche l’ultimo disco dei Cure, Songs of a Lost World, affronta con intensità rara le perdite vissute recentemente da Robert Smith. Come dimenticare, quindi, un disco come Temple of the Dog, scritto dall’omonimo supergruppo, composto da musicisti dei Soundgarden e dei Pearl Jam, in ricordo del compianto Andy Wood, considerato da molti il padre del grunge di Seattle. Poi, in generale, consiglierei a prescindere Whiskey for the holy ghost, Bubblegum, Funeral Blues e Fields song di Mark Lanegan, i quali non necessariamente parlano di lutto, ma certamente il tema della perdita ritorna in maniera implicita, tenuto conto della storia personale del cantante di Ellensburg. Chissà quante altre cose fondamentali mi sto dimenticando, ma certo questi sono riferimenti importanti.
Nell’ultimo capitolo di Porcospini digitali. Vivere e mai morire online (2022) hai dato conto della frattura causata dalla pandemia del Covid-19: durante i periodi di lockdown siamo stati costretti a rinunciare alle più comuni – e quindi più necessarie – forme di saluto ai nostri cari, la cui morte, magari sopraggiunta proprio a causa del virus, non abbiamo potuto onorare attraverso riti adeguati, religiosi o meno che fossero. Certo la tecnologia ci è venuta in soccorso: le videochiamate a chi era in ospedale prima di entrare in terapia intensiva, così come i funerali online hanno surrogato il nostro bisogno di celebrare, cioè rendere significativo, il distacco, anche se in maniera comunque insufficiente, inadeguata, spesso non permettendo una completa elaborazione del trauma. Che cosa resta, oggi, di quel trauma secondo te? In che modo l’impossibilità di dire addio in maniera propria alle persone che amavamo ci ha segnato, se ci ha segnato?
Abbiamo completamente rimosso l’esperienza della pandemia. Sembra che ci sia stato un buco o un vuoto tra la fine del 2019 e l’inizio del 2023. Un errore madornale se pensiamo agli effetti psicologici cagionati dal Covid. Quindi, il trauma è rimasto eccome, solo che facciamo finta di non vederlo. Ognuno lo vive in maniera differente, chi tramite problemi di natura fisica chi invece tramite problemi di natura psicologica. Sarebbe stato opportuno mettersi intorno a un tavolo e parlarne in tutte le circostanze pubbliche possibili. Soffermarsi sui sentimenti e le emozioni private. Invece, zero. E quegli anni ci hanno senza ombra di dubbio portato via tanto, senza metterci nella condizione di elaborare le perdite sia umane sia simboliche.
Ancora sul nodo della pandemia. Abbiamo fatto una domanda simile anche Matteo B. Bianchi, che proprio durante il periodo del lockdown ha scritto La vita di chi resta, un memoir sul lutto per il suicidio del suo ex compagno, avvenuto alla fine degli anni Novanta. A lui abbiamo chiesto se immaginava cosa avrebbe significato fronteggiare quel dolore durante la chiusura forzata e l’impossibilità del contatto sociale. A te invece vorrei porti quest’altra domanda, dal momento che non mi sembra se ne sia parlato poi così tanto: come hanno vissuto il morire coloro che stavano morendo, nei mesi del lockdown? Cioè: i malati terminali, coloro che in quei giorni sapevano che a loro, di giorni, non ne rimanevano poi così tanti, come si sono comportati? Ci sono studi al riguardo? Tu che idea ti sei fatto di un’emergenza che, mettendo forzatamente in pausa un certo modo di vivere – diciamo: il vivere stesso per come lo intendiamo adesso – ha spossessato queste persone anche del loro morire?
In realtà, non credo vi siano degli studi per le ragioni indicate sopra. Credo che molti malati terminali, quelli più anziani e meno lucidamente presenti, non abbiano in realtà colto così bene cosa è successo. Sono rimasti magari traumatizzati dall’improvvisa scomparsa dei propri cari, impossibilitati a visitarli nelle strutture adibite. Per quanto riguarda gli altri, non so sinceramente.
Infine, ringraziandoti ancora, una domanda che rivolgiamo a tutti. Il nome di questa rubrica è un verso di Pagliarani. Lo vorremmo usare come un termometro, provare a capire davvero «quanto di morte noi circonda», poiché i discorsi che circondano la morte sono, in questo senso, piuttosto contrastanti: da una parte ci viene detto che la morte è, per noi contemporanei d’Occidente, il rimosso per antonomasia, ciò che non vogliamo vedere e occultiamo costantemente; dall’altra, invece, che la morte è sovraesposta e che è (divenuta?) la vera e sola protagonista delle nostre storie. E dunque, che pensi al riguardo? Quanto di morte noi circonda?
Siamo soffocati letteralmente dalla morte sbagliata, quella dei fatti di cronaca, quella che mostra tutta la violenza nei segni che lascia e che dunque funziona mediaticamente. Manca, invece, la morte “normale”, non che la prima non sia “anormale” di per sé. Ma la morte “normale” è quella di chi si ammala e muore all’improvviso o dopo una lunga degenza. Questa morte è messa da parte. Pensa alla potenza di un film come Truman, un vero amico è per sempre, il quale mostra proprio cosa voglia dire andare incontro alla morte in una società che non la vuole vedere. Dunque, certo, la morte è sovraesposta, ma lo è solo quando intercetta il torbido, il proibito, il perverso. Quella fatta di perdita di peso e di capelli, di lento deperimento mentre la società corre ossessiva per non si sa quale obiettivo, ecco, quella non c’è. Non la vogliamo vedere. Forse, i social sono utili proprio perché danno spazio a questo tipo di morte, la quale di solito è messa completamente da parte.
*Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.
This work was supported from OP JAC Project “MSCA Fellowships at Palacký University II.” CZ.02.01.01/00/22_010/0006945, run at Palacky University in Olomouc, Czech Republic.