Quanto di morte noi circonda ⥀ Intervista a Fabio Camilletti

I curatori della rubrica-inchiesta di Argo sulla presenza della morte nell’immaginario contemporaneo Quanto di morte noi circonda, Luca Chiurchiù e David Watkins, dialogano oggi sul tema con Fabio Camilletti. Tutte le interviste finora pubblicate possono essere lette qui

 

«Quanto di morte noi circonda» è un verso di Elio Pagliarani. Ora, è anche il titolo di un’inchiesta di Argo sull’immaginario contemporaneo del lutto.

La morte è il rimosso del nostro tempo.
La morte è l’assillo del nostro pensiero e delle nostre scritture.

Queste due affermazioni, palesemente contraddittorie, coesistono nei discorsi dei nostri giorni, sgomitano alle soglie delle nostre impressioni e delle nostre incertezze. Abbiamo così deciso di porre alcune domande a scrittrici e scrittori che – venendo da vari ambiti e maneggiando vari strumenti – hanno affrontato la questione del lutto e della perdita, del rapporto con la morte e con la malattia, in un modo che ci interroga e ci costringe, di volta in volta, a prendere posizione.
È per vederci un po’ più chiaro. È per misurarci la febbre.

(L.C. e D.W.)

 

 

Fabio Camilletti è storico della letteratura e professore all’Università di Warwick. Tra i suoi libri, teniamo particolarmente a segnalare: Guida alla letteratura gotica (Odoya)Italia lunare. Gli anni Sessanta e l’occulto (Peter Lang)Spettri familiari. Letteratura e metapsichica nel secondo Novecento italiano (Unicopli)Manzoni gotico. Tre itinerari ‘illegali’ ne ‘I promessi sposi’ (di prossima pubblicazione per ETS).


 

Fabio Camilletti, grazie mille per la tua disponibilità. In questa inchiesta incentrata sull’immaginario contemporaneo del lutto, specie quello italiano, conoscere il tuo punto di vista mi sembrava più che importante. È da diverso tempo, o meglio da sempre, che ti occupi delle rappresentazioni letterarie – e quindi non solo letterarie – di tutto ciò che pensiamo abbia a che fare con l’al-di-là. Hai scritto di spettri e vampiri, di letteratura gotica e di genere, di occultismo e folklore, ma hai anche dimostrato, per esempio, come perfino nel più insospettabile, nell’apparentemente più benintenzionato dei nostri romanzi, I promessi sposi, si celi un antro oscuro: al piano terra della fabbrica del realismo c’era un buio ripostiglio piuttosto trascurato, mi verrebbe da dire. Parto da qui e ti chiedo: qual è oggi, in Italia, la letteratura che riesce meglio a dar conto dell’al-di-là, dell’antro oscuro, di ciò che più temiamo? E poi: cos’è che temiamo di più oggi, secondo te?

Grazie a voi dell’invito e soprattutto della fiducia, che spero di onorare. Non sono del tutto sicuro, però, di poterlo fare per questa domanda. Continuo a credere in una distinzione – porosa quanto si vuole, comunque definita – tra critica e storia letteraria: io mi considero principalmente uno storico della letteratura, di base un ottocentista, e l’inevitabile conseguenza è che del mercato letterario contemporaneo non ho, a differenza di un critico, che una visione impressionistica e cursoria. Come diceva qualcuno, insomma, del 1818 ho esperienza diretta, mentre il 2024 mi arriva in maniera filtrata, frammentaria, parziale. A volte, in questa frammentarietà, mi capita d’intercettare qualcosa, e parlando di al-di-là il primo nome che mi viene in mente è quello di Emanuele Tonon: Fervore, naturalmente, ma prima ancora Il nemico, una delle poche esperienze di lettura autenticamente destabilizzanti che mi sia capitato di fare e proprio per quel suo affrontare – con grande eleganza, e tuttavia senza risparmiare nulla né a sé né al lettore – l’intrinseca sconcezza della morte corporale. E poi Antonio Franchini, la Michela Murgia di Accabadora, Michele Mari. Ma sono isole in un arcipelago, e soprattutto autori coi quali (me ne accorgo ora, mentre ti rispondo) trovavo e ho delle affinità personali e private: il cattolicesimo con Tonon e Murgia, le arti marziali con Franchini, l’amore per il Settecento con Mari. Troppo poco per delineare un canone.

 

Ancora sul letterario, e quindi, necessariamente, anche sul non letterario. Banalizzo, e non poco: fin dal suo profilarsi, il gotico ha intercettato le paure collettive – come si dice di solito in questi casi: il rimosso storico e politico – della modernità. Così pure hanno fatto quei generi che da esso, più o meno indirettamente, più o meno collateralmente, sono derivati. Per identificare e descrivere tali paure, si è dunque ricorso soprattutto a storie d’invenzione, di fiction. Iperboli e metafore, e poi più tardi ucronie e distopie, sono state, oltre a efficaci espedienti narrativi, strumenti di speculazione, anche nei casi di quella che a lungo è stata identificata come semplice letteratura di consumo. Dopo ormai proverbiali angosce di derealizzazione e ritorni più o meno possibili al reale, la tendenza odierna, in Italia ma non solo, si è invertita: ciò che il pubblico dei lettori consuma di più – e lo dimostrano i premi letterari, e le serie televisive, e i podcast – è quasi sempre legato a storie vere. Forse più ancora che quelle relative alla cronaca, adesso a prevalere sono quelle che raccontano di personali traumi. Tu come ti spieghi questa fame, questo bisogno di verità così dolorose? E, viceversa, come ti spieghi questa tendenza a far letteratura, ma a basso voltaggio e a tasso di finzionalità quasi zero, delle proprie disgrazie (senza contare che ne hanno fatta, a loro modo, anche Dante e Petrarca, per dirne due)?

Non sono sicuro di essere totalmente d’accordo con la premessa. Il gotico – come si tende a definirlo oggi: di certo come lo definisco io – non è un genere letterario, ma un modo: la performance retorico-stilistica, se così vogliamo chiamarla, tramite la quale un testo riesce a lambire l’abietto di un’epoca, di una cultura. Per tornare all’esempio che facevi poco sopra, Manzoni non è gotico perché descrive il castello dell’Innominato in una certa maniera o perché fa di Lucia una Justine invertita, ma perché, tramite quell’artificio immensamente potente che è la reticenza, affronta con crudezza ineguagliata il problema del Male, la natura intrinsecamente ingannevole del linguaggio, la freddezza omicida del Potere. La vera chiusa del romanzo, del resto – ormai lo sanno anche i muri – non è l’effimero lieto fine degli sposi promessi, ma la Colonna infame: un testo, cioè, che programmaticamente adotta quel che tu chiami un «tasso di finzionalità quasi zero», e che proprio per questo finisce per essere pienamente gotico, ribaltando il romanzo della «Provvidenza» nella desolata constatazione di un mondo in preda alla sopraffazione e all’arbitrio. Lo stesso vale per tante scritture-verità di oggi, che spesso finiscono per affrontare in chiave assolutamente gotica temi come il lutto e la perdita, l’intreccio fra storia collettiva e memoria individuale o, ancora, l’eredità intergenerazionale come comunione fra vivi e morti: basti pensare a uno dei capostipiti del genere, Amatissima di Toni Morrison, che è del resto, anche, una ghost story in piena regola. Va sempre tenuto presente, comunque, che tasso di finzionalità e artificio sono inversamente proporzionali: un film dei Marvel Studios, come amo dire ai miei studenti, è molto più onesto di un documentario, perché dichiara fin da subito la propria natura e non nasconde la soggettività autoriale dietro l’apparente impersonalità di un obiettivo. E lo stesso vale in letteratura. Non a caso, nel mio personale e privatissimo canone del gotico italiano, accanto a Manzoni ci sono Verga e De Roberto.

 

Ti faccio altri nomi che conosci: Wu Ming, Mariano Tomatis, Loredana Lipperini. Tutti loro hanno insistito, magari con sfumature diverse ma in sostanziale consonanza, sul concetto di reincanto, ossia sulla capacità delle storie di finzione di allargare il nostro orizzonte immaginativo e di conseguenza, potenzialmente, di farci ripensare daccapo un presente che soffoca. Le storie come bisogno umano e come strategia politica, come risorse biologiche e sociali: le storie ci aiutano a vivere. D’accordo. Ma di fronte alla morte? O, più precisamente, di fronte al morire e al silenzio assoluto del lutto?

Certo, e non solo loro. Anche perché la tendenza è globale: in Italia, se si parla di reincanto, si pensa soprattutto a un fortunato e bel libro di Stefania Consigliere del 2017, ma è almeno dai primi anni 2000 che tra Francia e mondo anglosassone si parla e si scrive di Re-enchantment of the World, invertendo l’arbitraria equazione tra modernità e disincanto (Entzauberung) postulata da Max Weber in piena Grande Guerra. Da questo punto di vista, più ampio e globale, l’affabulazione è solo uno dei molteplici volti che il reincanto può assumere: penso all’uso militante della Chaos Magick, alla riappropriazione dell’astrologia come strumento per problematizzare le identità in senso intersezionale o – più banalmente – alla consapevolezza che la lotta alla superstizione e all’irrazionalismo ha fatto spesso da paravento a pregiudizi (e soprusi) coloniali e di classe. Riguardo al morire, posso solo notare che se il lutto è oggi avvolto in un “silenzio assoluto” è proprio perché la mutazione antropologica che è corsa in parallelo all’Entzauberung ha trasformato la morte (e l’elaborazione della morte dell’Altro) in un fatto assolutamente privato. Non è sempre stato così: oggi, se pensiamo a quella che una volta si chiamava «la buona morte», quella che tutti vorremmo, pensiamo a una morte istantanea, che non lasci il tempo di riflettere, magari nel sonno. Appena cento, centocinquant’anni fa «la buona morte» era tutt’altra cosa: chi moriva solo era il reprobo, la morte del giusto era un fatto pubblico, un rituale collettivo cui partecipava tutta la comunità; la morte desiderata non era faccenda d’un istante, ma un processo, un’agonia lucida in cui ci si congedava dal mondo, si regolavano i conti con Dio e con gli uomini, si distribuiva la propria eredità materiale e spirituale. Forse è questo che ci manca davvero. C’è questa scena emblematica di Midsommar – non a caso uno dei film più acclamati del decennio passato, segno che qualcosa da dire l’aveva – in cui Florence Pugh riesce a dar voce al proprio dolore urlando: ma il suo urlo non è lo sfogo solitario di una pazza, ma un atto collettivo cui partecipa l’intera comunità. Le ragazze che urlano insieme a Florence Pugh non la giudicano, tantomeno cercano di “guarirla” o di normalizzarla: piuttosto la accompagnano in un atto collettivo e liberatorio (e liberatorio perché collettivo).

 

Tu insegni in Inghilterra, all’università di Warwick, la stessa dove Mark Fisher ha preso il suo dottorato di ricerca, peraltro con una tesi intitolata Flatline Constructs: Gothic Materialism and Cybernetic Theory-Fiction. Proprio Fisher, rifacendosi all’hauntologia di Derrida e alla retromania di Reynolds, ha scritto che quella contemporanea, grazie o a causa di internet, può essere considerata come un’epoca storica assediata dagli spettri: «Nell’era del digital recall, anche la perdita è andata perduta». Non si tratta solo di diritto all’oblio, ma proprio di un nuovo modo di vivere la temporalità, e quindi la vita intera. Come sta andando, secondo te, questa convivenza, quotidiana e coatta, coi futuri scomparsi e i passati che non passano? Quali sono i suoi effetti?

L’estate scorsa, approfittando del cinquantennale della morte, mi sono riguardato la filmografia di Bruce Lee. Ma non mi bastava: volevo saperne di più di quel decennio scarso – tra il 1964 e il 1973 – in cui un ragazzo sino-americano aveva stravolto l’immaginario occidentale. E per una quindicina di giorni sono vissuto in una specie di Hong Kong metafisica, senza muovermi da casa, semplicemente seguendo le suggestioni visive, testuali, sonore messe a mia disposizione dall’immensità della biblioteca digitale. Parlo di Bruce Lee e di quella Kowloon immaginata perché è il primo esempio che mi è venuto in mente, ma poteva essere qualsiasi altra epoca, qualsiasi altra estetica: in questo esatto momento, qualcuno – a Taiwan, a Canberra, a Oslo – sta cercando, per qualche ragione che è solo sua, di ricostruire nel dettaglio l’esperienza, chessò, di una lounge d’hotel nella Tokyo del 1983 o di un pomeriggio piovoso nella Vancouver del 1992. Una parcellizzazione dell’immaginario, quindi, che consente a ciascuno di ricreare in modo sempre più immersivo quanto lo affascina, lo ossessiona o gli procura inesplicabile nostalgia. E però, sempre in questo esatto momento, qualcuno – a Taiwan, Oslo o Canberra – sta pure installando qualche telecamera in più, monitorando gli accessi di qualche area in precedenza aperta al pubblico o studiando sistemi di controllo sempre più capillari. Insomma, più si espande la libertà di circolazione nel mondo virtuale, più si riduce la libertà di circolazione – e, dunque, di azione – in quello reale. Per questo, accanto a Fisher, mi piace ricordare Ernest Cline e il suo Player One (2011), uno dei romanzi più profetici che abbia mai letto. In un mondo sovrappopolato e devastato dall’inquinamento, l’unico svago lasciato a una popolazione sempre più impoverita consiste nell’immergersi in una realtà virtuale modellata sull’immaginario nerd degli anni Ottanta e Novanta – non a caso, gli stessi decenni su cui la cultura pop contemporanea non cessa di tornare, tra Stranger Things e i vari seguiti e/o reboot di Ghostbusters, Karate Kid, Indiana Jones, Star Wars. Un ritorno che è quasi sempre un’impostura, ovviamente: in Stranger Things o in Fear Street non fuma nessuno, la gente si mette le cinture di sicurezza eccetera, perché il fatto di accenderci una sigaretta in un bar è diventato, per noi, semplicemente impensabile. E però, sospetto, qualcosa di noi rimpiange quel mondo analogico, forse più rischioso, sicuramente più vivo.

 

Sempre su Fisher, se posso. Mi ricordo di un tuo post abbastanza provocatorio di qualche anno fa, in piena esplosione italiana di Realismo capitalista, in cui dicevi che le categorie di Fisher venivano già usate a sproposito, e quasi a forza. Ti riferivi principalmente agli accademici, anche e soprattutto quelli più giovani. Avevi ragione, in qualche modo, eppure mi sembra che la riscoperta e il consenso nei confronti di un filosofo che ha scritto certe cose e che ha scelto per sé un certo epilogo, specie tra i ventenni e i trentenni, sia comunque sintomo di qualcosa. Se n’è accorto anche Bifo, in un sondaggio che è stato pubblicato su «Effimera»: l’atteggiamento di queste generazioni “colte” (scusa il termine), l’atteggiamento mio e di tanti, è spesso di tipo malinconico. Non nostalgico, ma malinconico. Molti di noi si comportano e agiscono, politicamente e non solo, come se fossero in lutto, come se la fine – non una fine ma la fine – fosse già avvenuta. Un senso di irreversibilità ci pervade, e non mi sembrano le grandi narrazioni, gli oggetti del desiderio che più esattamente rimpiangiamo. Domanda difficile: tu che ne pensi? Te lo chiedo anche perché sei un professore universitario, e dunque un osservatore diretto di queste generazioni.

Ricordo bene quel post, ma non era esattamente così. Recitava: «Ma ce la fate a scrivere qualcosa senza citare Mark Fisher?» Un voi generico, dunque, che non si indirizzava necessariamente agli accademici (anche se nella mia bolla, inevitabilmente, ce ne sono parecchi) e che – soprattutto – non riguardava in alcun modo i «giovani»: un po’ perché atteggiamenti del genere mi davano infinitamente fastidio quando giovane lo ero io, un po’ perché continuo a pensarla come il maestro Miyagi, No such thing as bad student, only bad teacher. Teacher say, student do. Quel che in quel momento mi urtava era che Fisher stesse diventando l’ennesimo giocattolo di un post-marxismo tutto italiano che, incapace di fare i conti con la propria storia, continuava a cercarsi maître-à-penser Naomi Klein, Thomas Piketty, ho perso il conto – attraverso i quali riaggiornarsi per procura, evitando così di mettersi in discussione. E qui arriviamo alla melanconia, cioè – secondo il più elementare dettato freudiano – il lutto per una perdita che forse non è mai nemmeno avvenuta di un oggetto che forse non è mai nemmeno esistito. La melanconia di cui parli è quella di chi, come dicevano Nicolas Abraham e Mária Török, ha introiettato il trauma di un altro – un genitore, un nonno, un avo – e non possiede, di conseguenza, quelle chiavi che gli consentirebbero di elaborarlo. Di qui quel girare in tondo, come falene nella coppa del lampadario, tra miti, liturgie e parole d’ordine di ideologie morte, alla perenne ricerca di maestri e di padri: fino a delegare la definizione della propria melanconia a un nato del 1949 come Franco Berardi. Non è solo un problema dei venti-trentenni – è qualcosa che comincia con la mia generazione, i nati di fine anni Settanta, stretti fra l’invadenza di un passato irripetibile e spettrale e l’interdetto a ripeterlo (che nell’estate del 2001 prese la forma, affatto spettrale, di un proiettile). Nemmeno noi, comunque, siamo stati i primi: i romanzi di Stendhal non esprimono, a pensarci, un disagio troppo diverso.

 

Di nuovo sulla convivenza con gli spettri. In una intervista a «Repubblica» curata da Olga Campofreda e uscita da qualche settimana, hai già spiegato che l’uso che oggi si fa della tecnologia per richiamare “in vita” i morti – intelligenza artificiale, ologrammi, bot, social, eccetera (se n’è occupato a fondo Davide Sisto) – non è nient’altro che la concretizzazione di un desiderio antichissimo. Anzi, del più antico e più profondo di tutti. Certo. Eppure non ti sembra che prima, cioè quando questa possibilità oggettiva – per dire così – era preclusa, i confini tra vita e morte, o meglio tra presenza e assenza, non fossero così netti, bensì più ambigui, e per questo, paradossalmente, più porosi? Detta altrimenti: una volta che sappiamo di conversare (vedere, ascoltare, eccetera) con un prodotto tecnologico, sappiamo per certo di non conversare (vedere, ascoltare, eccetera) con il nostro caro. E non mi pare che la questione si limiti alla solita dicotomia reale versus virtuale, né soltanto alla questione – enorme – delle proprie convinzioni riguardo a cosa ci sia dopo. Che effetti può portare con sé questa perdita di ambiguità, questa disillusione?

In quell’intervista facevo un paragone ben preciso, mettendo gli spettri tecnologici del nostro presente in rapporto al bagaglio tecnico dei medium dell’Ottocento e del primo Novecento: una combinazione di stratagemmi mnemotecnici, abilità improvvisatorie e trucchi da mentalista che consentivano ai performer – più spesso alle performer – di riprodurre, nel setting ben delimitato della seduta, simulazioni spettrali di defunti più o meno celebri. Ora, non è che i vittoriani fossero più gonzi di noi, come saremmo portati a pensare vedendo gli ectoplasmi di tulle nelle foto d’epoca o ascoltando la voce in falsetto dei medium “in trance” (documenti sonori sensazionali, raccolti da Philippe Baudouin in due dischi mirabolanti pubblicati dalla Sub Rosa). Lo stato d’animo di chi partecipava alle sedute medianiche – o, se è per questo, di chi le pratica ancora oggi – era molto raramente di cieco fideismo o di scetticismo assoluto, e finiva piuttosto per oscillare tra le infinite gradazioni che sussistono fra questi due estremi. Insomma, più che credere si trattava spesso di un voler credere: o, meglio, di un credere limitato a quello spazio, a quel setting, non troppo dissimile, infine, dalla sospensione volontaria dell’incredulità che adottiamo al cinema, leggendo un libro o assistendo allo spettacolo di un prestigiatore (e che, non a caso, è un’invenzione ottocentesca quanto lo spiritismo). Quello della credenza è un meccanismo complesso, che spesso e volentieri prescinde da quello che sappiamo (o crediamo di sapere) “per certo”. Non credo che i fantasmi del nostro presente digitale ne siano esenti: il vecchio je sais bien, mais quand même, insomma, per dirla con Octave Mannoni (che citava un paziente di Freud).

 

Nel 2018 è uscito un tuo libro molto bello: Italia lunare. Gli anni Sessanta e l’occulto (Peter Lang). Nel capitolo conclusivo scrivevi che la nostra ossessione per la storia degli anni Sessanta e Settanta è un’ossessione spesso sfocata, o meglio edulcorata – paradossalmente – per eccesso. Accettiamo gli spettri di allora ma non la rivolta che potrebbero ingiungere e rivendicare. Così, a livello rappresentativo, di immaginario, di quegli anni non ci rimangono che «favole di stragi» – per riprendere un’espressione di Giglioli – oppure oscure teorie del complotto, molto più gotiche di quanto crediamo. In questo senso, forse, il miglior romanzo su quegli anni resta Piove all’insù di Luca Rastello, che non a caso contrappunta alcuni fatti del Settantasette torinese con stralci e riscritture dagli Urania: operazione portata all’estremo, più di recente, dai Wu Ming in Ufo 78. Eppure, se ci spostiamo dal campo dell’immaginario (letterario e cinematografico soprattutto) a quello della cosiddetta realtà e della politica propriamente intesa, gli anni Sessanta e soprattutto gli anni Settanta non vengono presentati attraverso le proiezioni a cui siamo abituati di solito. Sulle morti di allora, che chiamano ancora riconoscimento da entrambe le parti, ad oggi si dibatte molto, anzi moltissimo, visti anche i tempi che tirano. Dunque una domanda: secondo te che rapporto c’è tra questo dibattito (questa memoria contesa, ancora instabile) e l’immaginario di cui si diceva (con le sue favole e le sue semplificazioni)?

Italia lunare è figlio di un periodo strano: ideato verso il 2011-2012, scritto quasi interamente nel 2015 e uscito tre anni dopo, era forse più un libro sugli anni Dieci che su quegli anni Sessanta che pure ne costituivano l’oggetto esplicito. Erano anni, del resto, in cui ci si era temporaneamente illusi di consegnare la violenza di quei decenni alla storia: la direttiva per la desecretazione dei documenti sulle stragi è dell’aprile 2014. Ma evidentemente non bastava aprire gli archivi per tacitare i fantasmi: a volte è meglio ascoltarli. E adesso, a distanza di anni, mi resta almeno la soddisfazione di averci provato, e di aver contribuito – in qualche modo – ad aprire una strada. Nel 2014, a interessarsi di questo volto occulto, lunare della penisola del boom c’eravamo solo io e pochi altri (fra cui i ragazzi del giro dell’Italian Occult Psychedelia: loro in sala d’incisione, io in casa a Coventry col mio MacBook, ma facevamo le stesse cose). Oggi abbiamo in libreria un romanzo su Peter Kolosimo (il già citato UFO 78) e uno su Gustavo Rol (L’ultimo mago di Francesca Diotallevi); Anselma Dell’Olio ha girato un documentario su Fellini e l’occulto e un altro, ancora, su Rol; Loredana Lipperini sta scrivendo un reboot de Il Segno del Comando; e nel 2023 è uscito un film sui “mini-Geller”, quei ragazzini, cioè, che nell’Italia di metà anni Settanta si erano messi a piegare i cucchiai col pensiero e che in Italia lunare avevo definito «i nostri X-Men». Forse stiamo cominciando a sintonizzarci in modo diverso con il nostro passato prossimo: forse, anche grazie a questo, cominceremo a lasciarlo andare, col rispetto che è giusto tributare ai morti ma con la fermezza di chi sa che è meglio, come diceva qualcuno, che i morti si seppelliscano tra loro.

 

Hai studiato a fondo l’occultura degli anni Sessanta e il tuo ultimo libro, Spettri familiari. Letteratura e metapsichica nel secondo Novecento (Unicopli), indaga i riverberi di questa occultura su autori più o meno insospettabili come Pitigrilli, De Filippo, Vigolo, Buzzati e Bassani. Ho spiato la tua pagina docente: hai in cantiere anche un libro sugli anni successivi, dai Settanta fino ai Duemila. Mi puoi anticipare quali sono gli autori di cui ti occuperai e perché?

È un libro che sto scrivendo, a tempo perso, ormai da qualche anno, ma solo di recente credo di avere individuato quella che sarà la sua struttura definitiva. Italia lunare, Spettri familiari sono, alla fine, libri molto convenzionali: lunghi capitoli monografici che si prendono, sì, la libertà di spaziare, ma sempre con dei casi di studio molto definiti a fare da centri di gravità. Per questo libro – che ha come titolo “di lavoro” La ragazza pallida sul ciglio della strada – ho deciso di prendere come pietra angolare il motivo dell’«autostoppista fantasma» per indagare il rapporto fra letteratura, morte e cultura popolare nell’Italia del Novecento. Ci saranno diversi dei “miei” autori – Buzzati, Mino Milani, Danilo Arona – ma non solo: ho raccolto una quantità impressionante di fonti, ed è anche normale, perché quella dell’«autostoppista» è solo in apparenza una storiella da campeggio. Come scriveva già nel 1959 il folclorista statunitense Louis C. Jones, «se riuscissimo a comprendere a fondo, nella sua totalità, il dipanarsi storico di questa narrazione, le sue origini, i suoi periodi di quiescenza e di attività, i suoi prestiti dati e ricevuti, le sue varianti e le sue costanti, la sua sensibilità agli eventi esterni… se comprendessimo tutte queste cose riguardo a questa sola storia, avremmo la risposta a molti degli enigmi della nostra cultura popolare». Il caso italiano, da questo punto di vista, può avere molto da dire.

 

Prima di salutarci e del quesito comune su quanto di morte noi circonda, una domanda che forse non può avere risposta. Non so se ti ricordi, ma la prima volta che ci siamo incontrati a Coventry, nel tuo studio, abbiamo parlato di Storia notturna di Carlo Ginzburg. E adesso mi viene in mente anche una frase di quel libro: «La capacità di oltrepassare l’ambito dell’esperienza sensibile immediata è del resto il tratto che contraddistingue il linguaggio, e più in generale la cultura umana. Essa nasce dall’elaborazione dell’assenza». La convocazione di ciò che non c’è più o non c’è ancora come peculiarità non solo della cultura umana, ma del linguaggio stesso. Il linguaggio come il mezzo per commerciare con l’oltre. Che te ne pare?

Penso sia difficile non essere d’accordo – anche se in realtà, come spesso accade nei suoi libri, Ginzburg sta forse parlando più di sé che dell’oggetto esplicito del suo discorso. Non c’è niente di strano. Chi di noi ha la fortuna di poter scegliere da sé i propri interessi di ricerca scopre spesso che, il più delle volte, sono loro a scegliere noi, non il contrario: e lo studio della storia – compresa quella letteraria – ha sempre qualcosa dell’autobiografia, specie per quelli che, come Ginzburg, si sono sempre tenuti lontani dalla tentazione di “scrivere il romanzo”, finendo però per scriverlo in altro modo (la sublimazione è una brutta bestia).

 

Infine, ringraziandoti ancora, una domanda che rivolgiamo a tutti. Il nome di questa rubrica è un verso di Pagliarani. Lo vorremmo usare come un termometro, provare a capire davvero «quanto di morte noi circonda», poiché i discorsi che circondano la morte sono, in questo senso, piuttosto contrastanti: da una parte ci viene detto che la morte è, per noi contemporanei d’Occidente, il rimosso per antonomasia, ciò che non vogliamo vedere e occultiamo costantemente; dall’altra, invece, che la morte è sovraesposta e che è (divenuta?) la vera e sola protagonista delle nostre storie. E dunque, che pensi al riguardo? Quanto di morte noi circonda?

Le due posizioni non sono contraddittorie. Pensiamo alla morte, ne scriviamo, ne parliamo: e tuttavia, credo, senza pensarci davvero, un po’ perché – se davvero riuscissimo a pensare la morte, con la vividezza di certi mistici ma senza le loro metafisiche certezze – probabilmente finiremmo tutti a colorare coi pastelli a cera in una stanza dalle pareti imbottite, un po’ perché la paura della perdita, del nulla, è una di quelle emozioni intrinsecamente preverbali, come il desiderio o la fame, e quindi per sua stessa natura inaccessibile alla parola. Insomma, possiamo forse circoscrivere la morte, ma non possiamo scriverla. Di qui la nostra schizofrenia al riguardo, il nostro parlarne incessante senza cogliere il punto – perché, banalmente, un punto non c’è.

 

 

 

*Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.


This work was supported from OP JAC Project “MSCA Fellowships at Palacký University II.” CZ.02.01.01/00/22_010/0006945, run at Palacky University in Olomouc, Czech Republic.

Fabio Camilletti