Quanto di morte noi circonda ⥀ Intervista a Francesca Del Moro

La rubrica Quanto di morte noi circonda, condotta da Luca Chiurchiù e David Watkins a indagare l’immaginario contemporaneo del lutto, ospita oggi un’intervista a Francesca Del Moro realizzata da Rossella Renzi. Tutti i dialoghi finora pubblicati possono essere letti qui

 

«Quanto di morte noi circonda» è un verso di Elio Pagliarani. Ora, è anche il titolo di un’inchiesta di Argo sull’immaginario contemporaneo del lutto.

La morte è il rimosso del nostro tempo.
La morte è l’assillo del nostro pensiero e delle nostre scritture.

Queste due affermazioni, palesemente contraddittorie, coesistono nei discorsi dei nostri giorni, sgomitano alle soglie delle nostre impressioni e delle nostre incertezze. Abbiamo così deciso di porre alcune domande a scrittrici e scrittori che – venendo da vari ambiti e maneggiando vari strumenti – hanno affrontato la questione del lutto e della perdita, del rapporto con la morte e con la malattia, in un modo che ci interroga e ci costringe, di volta in volta, a prendere posizione.
È per vederci un po’ più chiaro. È per misurarci la febbre.

(L.C. e D.W.)

 

 

Francesca Del Moro è poetessa, saggista e traduttrice. Tra i suoi molti lavori, teniamo particolarmente a ricordare le raccolte poetiche Ex madre (Arcipelago Itaca, 2022)L (gattomerlino, 2024).


 

Sarà difficile condurre questa intervista, Francesca Del Moro, perché dopo la lettura di Ex madre (Arcipelago Itaca, 2022) uno avrebbe solo voglia di dire grazie, di dirti grazie, e poi di restarsene zitto. Mi faccio aiutare dai tuoi versi, allora: «Le nostre grida | il fiato spezzato, | il rumore del pianto. || Tutte le parole | che accalchiamo. || E su di noi la sua pace, | il suo silenzio di marmo». Ecco, è già tutto qui. Tante, tantissime sono le parole che cerchiamo per consolarci e per condividere il nostro dolore, eppure queste non sembrano mai poter competere davvero col silenzio che l’assenza impone. E allora come fare? Come e dove scegliere le parole giuste per almeno scalfire questo marmo così inscalfibile, pietra d’abbandono?

Mi stupisce sempre che qualcuno abbia voglia di ringraziarmi dopo aver letto un libro che, a posteriori, a me per prima appare terribile. Ma sono contenta di averlo scritto in presa diretta, senza aspettare che il tempo e una rinnovata condizione mitigassero o, peggio ancora, snaturassero quelle sensazioni, lo stato di totale annientamento in cui ero sprofondata. Credo, e questo è un bene per me, che oggi non saprei ritrovare le parole giuste per restituire l’eccezionalità (e non certo in senso buono) di quanto mi è accaduto. Una restituzione che spero possa suonare come un invito ad aprirsi per i superstiti chiusi nel silenzio per vergogna, per paura di incorrere nello stigma collettivo. Il marmo non è scalfibile purtroppo, non esistono parole giuste a tal fine, le domande rimangono senza risposta, non è possibile parlare con chi ha chiuso bruscamente il dialogo. Si possono trovare risposte o interpretazioni temporanee che difficilmente reggeranno alla prova del tempo. Capita spesso ai superstiti (così viene definito chi perde un proprio caro per suicidio) di avvertire un bisogno ossessivo di parlare dell’accaduto nei primi tempi, un bisogno che viene meno col passare dei mesi. Parlarne è come affidare temporaneamente a chi ascolta il compito di reggere il peso di quel vissuto insieme a noi.

 

Un’altra poesia bellissima: «Lo stesso sorriso | con cui mi accoglievi | è qui fermo. Da mesi | ne avevo paura. | È un prendersi cura | ancora, lei dice | guardandomi | salire sulla scala, | passare e ripassare | il panno lentamente, | posare un fiore nuovo, | far brillare l’oro | del tuo nome». Negli ultimi due versi, forse, la metafora che meglio restituisce il senso di questa tua raccolta fatta di dolore e di splendore. Non solo opera di memoria, ma di nuova creazione. Ridare luce come un ridare alla luce: così Rosaria Lo Russo nella prefazione al libro. Con la poesia, la madre orfana della sua creatura fa brillare ancora la presenza di suo figlio scomparso; nel grembo della poesia torna a custodirlo. Ti ha aiutato scrivere questi versi, e in che modo? La scrittura e la lettura possono davvero confortare chi le pratica e chi le riceve?

Quando ho perso mio figlio, ho pensato che non avrei mai scritto più nulla, non avrei più amato nessuno, né mai più provato gioia. Mi sentivo, come mi ha definito la mia terapeuta, «emotivamente e psichicamente morta», eppure, quando le prime parole in poesia sono arrivate, le ho colte e ho deciso di proseguire. Per oltre due anni non ho potuto scrivere di altro: il mio mondo si era chiuso sul tentativo di sostenere la perdita e sopravvivere. Inizialmente potevo solo sperare di contenere le manifestazioni fisiche del dolore senza illudermi di poter elaborare alcunché. Mi riferisco all’insonnia, al pianto torrenziale, all’ottundimento dei sensi che nei primi mesi mi impediva di prestare attenzione a qualsiasi altra cosa, dai racconti degli altri ai fatti di cronaca, dalla lettura di un libro alla visione di un film o all’ascolto della musica. Tutto questo sarebbe tornato lentissimamente, e scrivere in poesia della mia condizione era un primo modo per riattaccarmi a qualcosa che amavo. In questo la scrittura mi ha aiutata: ho capito che non tutto ciò che faceva parte di me era completamente perduto. Praticare la letteratura è certo di conforto per chi la ama, è qualcosa di vitale come qualsiasi altra forma di slancio conoscitivo o creativo.

 

Non sempre, ma a volte può accadere che una persona in lutto sviluppi una sorta di ipersensibilità per la sofferenza che le si manifesta intorno. Mentre sembra essersi richiusa in se stessa, sprofondata nel suo abisso, la sua capacità di percepire il dolore degli altri e del mondo si è in realtà affinata. O meglio, più che affinata, è per così dire esplosa, e sinesteticamente: le tragedie altrui, o quelle collettive, vengono percepite più nitide e tutto viene letto, o riletto, col metro del proprio dolore. Così nella tua raccolta succede che il covid o l’Olocausto vengano rapportati a quello che tu chiami il tuo «piccolo orrore privato» e che, sempre per usare parole tue, «la morte | cade sopra la morte». Quindi ti chiedo: come ti ha cambiata il lutto? In che modo ha mutato il tuo modo di guardare alle cose, e soprattutto di guardarle attraverso la scrittura?

Dal 5 luglio 2020 sono stata a lungo sprofondata nel mio abisso, non avrei potuto percepire il dolore di nessun altro, ero troppo colma del mio. Per questo ho aspettato oltre un anno prima di contattare il gruppo di auto mutuo aiuto per superstiti al suicidio della fondazione De Leo di Padova, che frequento tuttora. Inizialmente il dolore degli altri non avrebbe trovato spazio dentro di me: lo avrei respinto o, più probabilmente, avrebbe colmato la misura dandomi il colpo di grazia. Il suicidio di mio figlio mi ha scaraventata dall’altra parte della cronaca, dalla parte di chi subisce qualcosa che di solito si guarda da lontano, illudendoci che a noi non possa mai capitare, provando magari una superficiale empatia. Non è possibile soffrire per tutti i mali di cui siamo a conoscenza, prima di tutto perché non potremmo contenerli e in secondo luogo perché rinunceremmo al bene che abbiamo e che può esserci strappato da un momento all’altro. Un tempo ero più incline a dare giudizi affrettati e la vita mi ha brutalmente insegnato a non farlo, a tacere di fronte alle storie degli altri, che non potrò mai comprendere fino in fondo. Se è vero che sui social possiamo pronunciarci su qualsiasi cosa, è anche vero che non siamo obbligati a farlo, soprattutto se pensiamo che quello che diciamo è il più delle volte inutile e rischia anche di far male. Ho in mente in particolare lo scatenarsi della belva social contro i genitori di Filippo Turetta, e in particolare contro la madre. Anche quando si parla di femminicidio, si manifesta questa singolare tendenza ad accusare una donna e la madre è sempre l’imputata perfetta.

 

Nel 2024 esce la seconda raccolta di poesie dedicate alla scomparsa di tuo figlio: L (gattomerlino). Dopo aver letto Ex madre, come scritto nella prima domanda, non riuscivo a proferire parola, a formulare pensieri o domande sensate. Mi sentivo un po’ come davanti a una lapide, attonita e stretta nel silenzio, che non è il mio, ma il silenzio della madre. Eppure sono numerosi i versi sottolineati, gli appunti, le mie annotazioni su quel libro. Poi, leggendo L mi sono ritrovata in una dimensione diversa, come se una mano mi avesse presa e accompagnata in questo viaggio – la lettura – che mi trovavo ad affrontare con timore e deferenza. Così, mi trovo d’accordo con le prime righe della postfazione di Nerio Vespertin: «Leggere questo libro è come ritrovarsi insieme all’autrice e scavare un abisso di luce e tenebra». Con L ho avvertito una profonda vicinanza con l’autrice, con Francesca, con la madre, con la donna, con la figlia. Coinvolta e immedesimata in tutti quei ruoli che hanno suscitato un senso di comunione nella parola… Hai saputo accogliere il lettore, in questo caso la lettrice, in quella dimensione molteplice e complessa che è la natura femminile, con una straordinaria profondità e apertura di sguardo: come ci sei riuscita? Qual è stato il tuo percorso – se vuoi raccontarlo – personale e poetico in questa seconda fase di scrittura?

Mentre Ex madre descriveva lo strappo, la caduta, L rappresenta i primi timidi passi per rialzarmi e riprendere il cammino, per tentare di elaborare il lutto, di riappropriarmi di una vita, fatta anche di desideri, amore e gioia, e non di pura sopravvivenza. Per questo si moltiplicano, sebbene fossero già presenti nel libro precedente, i riferimenti alle persone care che mi hanno donato vicinanza e aiuto. Gli amici, che ci sono sempre stati, un amore nato proprio nel periodo più terribile, i superstiti del gruppo di auto mutuo aiuto e mia madre, che mi ha tolto il desiderio di imitare il gesto di mio figlio, rendendomi consapevole del male che avrei raddoppiato in lei. Impedendosi di sfogare il dolore per la morte del nipote che adorava, si è trasferita a casa mia, dove ha passato giorni interi da sola pregando che io tornassi viva la sera dal lavoro, cosa che non era affatto scontata. È tornata a Livorno, dove peraltro aveva lasciato mio padre ad affrontare il suo dolore di nonno, soltanto quando ho incontrato Andrea, che abita vicinissimo a me e che ha raccolto, per così dire, il testimone. Con lui e con sua figlia Beatrice ho iniziato a rinascere, a sentirmi parte di una famiglia, a sperare che la vita mi riservasse ancora del bene. Quanto alla natura femminile, faccio un passo indietro, perché non credo che questi libri parlino in particolare di una donna e di una madre, quanto di un genitore, di un superstite in generale. E non credo, anche alla luce degli scambi avvenuti nel gruppo di auto mutuo aiuto, che l’esperienza di un padre sia molto diversa. Vero è che nelle donne c’è una maggiore disponibilità a svelare le proprie debolezze, a esprimere la propria disperazione, mentre il tasso di suicidio è molto più alto tra gli uomini. Credo che questo dipenda dal sessismo imperante nella nostra società, che colpisce le donne ma anche gli uomini, cosa di cui si parla molto meno. È ancora ritenuto vergognoso per un uomo piangere, mostrarsi debole, perdere il lavoro e ritrovarsi magari a carico della compagna, denunciare le violenze fisiche o psicologiche subite da una donna (sì, esistono anche questi casi). Per questo gli uomini tendono a chiudersi molto di più, a non farsi aiutare. Ma questo argomento meriterebbe un articolo a parte.

 

L, il titolo che hai scelto per i «dialoghi sulla soglia», racchiude in sé molteplici significati e di vasta portata: quasi con un effetto paradosso, quella singola lettera – che contiene già tutto, essendo l’iniziale del nome – diventa simbolo di qualcosa di smisurato e difficile da circoscrivere, forse anche da citare: la ragione è che non esiste parola per esprimere tutto questo? Forse la ricerca, lo scavo nella lingua, nel segno, nel significato deve a un certo punto arrestarsi davanti a vissuti tanto complessi e inenarrabili? Una sorta di resa nei confronti della parola, oppure la volontà di lasciare al lettore l’arduo compito di tentare una comprensione?

La scelta del titolo nasce dal primo gesto significativo che ho compiuto per far pace con mio figlio, ovvero indossare la catenina con il ciondolo a forma di L del suo battesimo. Sono stata a lungo arrabbiata con lui, perché mi ha lasciata sola, perché mi ha esclusa da quanto gli stava accadendo togliendomi qualsiasi possibilità di poterlo aiutare. La mia rabbia era mossa anche dall’irragionevole desiderio che tornasse sui suoi passi, mi chiedesse scusa e riprendesse la sua vita. Ho sempre confusamente sentito che, una volta che lo avessi accettato, il suo gesto sarebbe diventato definitivamente reale mentre, rifiutandolo, avrei lasciato aperto uno spiraglio su cui agire per cambiare le cose. Niente di più assurdo, lo so. Il problema del lutto per suicidio è che la perdita non riguarda solo il presente e il futuro ma porta con sé una messa in discussione del passato. Si tende a rileggere tutta la vita insieme sotto il segno di quell’ultimo avvenimento, si perde la dolcezza dei ricordi, si mette in questione quello che siamo stati per la persona cara, ci si sente in colpa e al tempo stesso rifiutati da chi ci ha lasciati in modo così atroce. È un groviglio di sensazioni, anche contraddittorie, che finisce per soffocare quanto di bello c’è stato nel legame con i nostri cari. Indossando quel ciondolo per non separarmene più ho tentato di riallacciare un dialogo con l’assente per ritrovare l’amore che ci univa.

 

In questo libro, L, è come se l’elaborazione del lutto avvenisse in modo corale: c’è vicinanza, gratitudine, dichiarazione di affetto e riconoscimento verso i volti e le voci amiche che hanno partecipato a questa tragedia. Riesci in questo modo a far sentire importanti le persone intorno, e credo sia una forma di amore. Un modo per dire «c’è ancora speranza e motivo per restare, sorridere, abbracciare». Per questo lo trovo un libro intriso di luce e calore, nonostante parli di morte. Forse la possibilità di condividere i vissuti con le persone care ci permette di resistere, coltivando il bene e la bellezza anche in poesia, nonostante il buio?

A questa domanda credo di aver già risposto in buona parte. Scrivere questi libri è stato anche un modo per dire a chi sta affrontando questo lutto: «Non sarà sempre così». Una frase che mi è diventata cara, nella sua semplicità. Pochi giorni dopo l’accaduto, espletate le tristi incombenze burocratiche, mi sono allontanata da Bologna per trasferirmi nell’appartamento dei miei a Marina di Bibbona, in Toscana. Non riuscivo a leggere, ad ascoltare musica, a guardare un film o a distrarmi con niente, dormivo pochissimo, potevo solo svolgere attività fisiche (era come se il mio corpo si muovesse per fuggire da me stessa) e la località di mare, con la piscina per nuotare e la pineta per fare lunghe passeggiate, sembrava il posto ideale per provare a riprendermi. Qui, una mia cara amica, Adriana, è venuta a trascorrere due settimane con me. Ogni mattina mi svegliavo in lacrime ripetendole: «Non ce la faccio». E lei rispondeva sempre: «Non sarà sempre così». Le ho creduto, ho scelto di resistere, di non lasciarmi andare. Il cammino è ancora lungo, il dolore non passerà mai, ma il bisogno di amore ha preso il sopravvento, la curiosità per la vita non mi ha abbandonata. Per risollevarmi non è bastato l’amore, tuttavia, non voglio raccontare favole a lieto fine. L’aiuto farmacologico per me è stato fondamentale e continuerò ad avvalermene forse per sempre. Il pensiero della morte di mio figlio è violento e ossessivo: il farmaco lo rende meno aggressivo, ovatta le emozioni, controlla il pianto, riduce le reazioni fisiche. La mia terapeuta è stata senz’altro una figura chiave nel mio percorso: ha avuto la pazienza di attendere che superassi le mie perplessità in merito agli psicofarmaci e abbiamo trovato insieme un giusto dosaggio, contenuto ma efficace.

 

In L, tra le presenze più care compare diverse volte la tua gatta: gli animali sentono ciò che noi stiamo attraversando, hanno il potere di trattenerci, accogliendo e placando il nostro dolore? Che soffio di vita e calore sono in grado di donarci, con la loro presenza gratuita, con l’amore per il padrone che nulla chiede in cambio?

Devo correggerti. Specie nel caso dei gatti, i padroni sono loro. La mia gatta mi svegliava a ogni ora chiedendo di mangiare, la spazzolavo, le pulivo la lettiera, cambiavo la marca del cibo quando aveva deciso che la solita non le piaceva più… La padrona era senz’altro lei, io ero la sua serva umana. Ora purtroppo non c’è più, ma è stata un sostegno inestimabile: sempre pronta a venirmi vicino quando mi vedeva giù, custode in qualche modo dell’anima di mio figlio, unica presente nella casa quando il fatto è accaduto, dormiva sul suo letto come se lo sentisse ancora vicino a sé. Mi ha dato anche qualcuno di cui prendermi cura, nel momento in cui pensavo di non servire più a nessuno.

 

Una delle cose che mi ha sorpreso, nella lettura dei due libri, è stata la tua capacità di mettere in poesia la parte più disumana e in qualche modo spietata che riguarda la scomparsa di una persona cara, con cui si hanno vincoli familiari. Le carte da compilare, i verbali, i certificati da firmare nell’immediato; e col passare del tempo tutto quell’apparato di burocrazia che accompagna la vita di una persona, e che occorre gestire dopo la morte. Questo aspetto credo rappresenti uno degli ostacoli più complicati che sopraggiungono nel quotidiano, quando si è immersi nel tentativo di elaborare e ritrovare un proprio equilibrio. La zona grigia e formale dell’esistenza si ufficializza rimarcando la mancanza e colpisce chi ne è coinvolto, senza alcun tipo di filtro, attenzione o sensibilità. Ci puoi parlare di questo aspetto e perché hai deciso di raccontarlo nella tua poesia?

Ho deciso di raccontarlo perché mi ha colpito in quanto meccanismo violento e insensibile, che va avanti per la sua strada, perlopiù ossequioso delle regole. Mi ha colpito l’ilarità degli addetti alle pompe funebri e di chi ha trovato il nome di mio figlio nel database della Certosa, impermeabile allo strazio delle persone che avevano davanti. Talvolta la “solerzia impiegatizia” mi ha costretta a lunghe e dolorose trafile: un giorno, ad esempio, l’impiegata delle poste ha rifiutato di darmi una busta spedita a mio figlio per quanto in lacrime le avessi spiegato quanto mi fosse costato tirare fuori il suo documento di identità e il certificato di morte (servivano anche la fotocopia del documento e la delega del padre, che non era raggiungibile al momento). In generale, quando tu sei ancora in piena fase di rifiuto della realtà, la burocrazia te la sbatte in faccia con una naturalezza disarmante: penso alla voce «deceduti» nello stato di famiglia, alla domanda sul numero di figli in un questionario, alla scomparsa della voce «figli a carico» nella busta paga. Per non parlare di tutto ciò che è da chiudere: gli account digitali, l’iscrizione all’università, gli abbonamenti, il conto in banca. Tutte cose che per fortuna ho potuto in buona parte delegare. C’è stato tuttavia chi è sfuggito alla solerzia in nome della compassione: il giovane poliziotto che mi è venuto incontro in quel giorno terribile ha verbalizzato l’avvenuto riconoscimento, sebbene io mi fossi rifiutata di effettuarlo. Le persone incaricate di dare notizie così terribili e di gestire i primi momenti in cui i superstiti possono avere reazioni improvvise e violente contro sé stessi sono in genere figure professionali sensibili e preparate, come ho avuto modo di apprendere nel corso dei seminari organizzati dalla fondazione De Leo.

 

Come dicevamo all’inizio, mi sento solo di dire «grazie» dopo aver letto questi tuoi due libri: grazie perché alla fine di questo viaggio mi sono sentita più viva, meno sola e in qualche modo consolata in un abbraccio. Ho percepito una presenza – nell’aria, nell’ombra, nella luce – che mi stava accanto mentre leggevo… una sorta di prodigio che si compie tra le pagine. E in quell’abbraccio ho sentito un richiamo al mio compito di madre, figlia, compagna, amica, sorella: una maggior fede e fiducia nel mio ruolo nel mondo. Mi sento di dire che la tua poesia mi ha in-segnato molto: in particolare sul senso di resistenza, vicinanza, amore. Vorresti commentare questa mia sensazione? E alla luce di questo, pensi che sia cambiata la tua prospettiva e il tuo modo di “vivere la morte”, anche attraverso la poesia?

Sono io a ringraziare voi per questa preziosa occasione di dialogo e per l’attenzione dedicata alla mia scrittura. Le sensazioni che riporti rafforzano la mia speranza che chiunque abbia subito un trauma possa leggere, tra le righe dei miei libri, che le cose possono cambiare, a patto di accettare tutto l’aiuto possibile (sì, anche quello farmacologico) e di non chiudersi al bene che la vita può offrire. A cambiare non è stato il mio modo di vivere la morte, quanto il modo di vedere il suicidio. Certamente eviterò di contribuire, come purtroppo ho fatto in passato, alla romanticizzazione di questo gesto così definitivo e violento verso di sé e verso tante altre persone. Mi guardo bene dal giudicarlo né posso dire di comprenderlo: lascio questo tema, su cui sono sempre in troppi a parlare, a chi ha le competenze in materia e a chi può offrire una testimonianza del proprio tentativo di darsi la morte. Io posso solo dispormi, come tutti dovremmo fare, all’ascolto.

 

Infine una domanda che rivolgiamo a tutti gli intervistati. Il nome di questa rubrica è un verso di Pagliarani. Lo vorremmo usare come un termometro, provare a capire davvero «quanto di morte noi circonda», poiché i discorsi che circondano la morte sono, in questo senso, piuttosto contrastanti: da una parte ci viene detto che la morte è, per noi contemporanei d’Occidente, il rimosso per antonomasia, ciò che non vogliamo vedere e occultiamo costantemente; dall’altra, invece, che la morte è sovraesposta e che è (divenuta?) la vera e sola protagonista delle nostre storie. Che pensi al riguardo? Quanto di morte noi circonda?

La morte fa parte della nostra vita e della nostra quotidianità: è banale dirlo ma tutti dobbiamo morire e veder morire qualcuno che amiamo, talvolta anche in maniera violenta e inattesa. In molti abbiamo conosciuto il desiderio di darci la morte. La Storia con la S maiuscola è scandita da fatti di sangue. Nondimeno non credo che la morte sia la vera e sola protagonista delle nostre storie: i libri dedicati al lutto, compresi questi miei che stiamo commentando, più che di morte parlano di amore. Della ricerca di un modo per continuare a dialogare con l’invisibile, di mantenere vivo il legame con i nostri cari, oltre la soglia.

 

 

 

*Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.


This work was supported from OP JAC Project “MSCA Fellowships at Palacký University II.” CZ.02.01.01/00/22_010/0006945, run at Palacky University in Olomouc, Czech Republic.

Francesca Del Moro