Quanto di morte noi circonda ⥀ Intervista a Franco Berardi Bifo
Quanto di morte noi circonda, la rubrica-inchiesta sulla presenza della morte nella cultura contemporanea curata da Luca Chiurchiù e David Watkins, dialoga oggi con il filosofo Franco Berardi Bifo. Tutti i dialoghi finora pubblicati possono essere letti qui
«Quanto di morte noi circonda» è un verso di Elio Pagliarani. Ora, è anche il titolo di un’inchiesta di Argo sull’immaginario contemporaneo del lutto.
La morte è il rimosso del nostro tempo.
La morte è l’assillo del nostro pensiero e delle nostre scritture.
Queste due affermazioni, palesemente contraddittorie, coesistono nei discorsi dei nostri giorni, sgomitano alle soglie delle nostre impressioni e delle nostre incertezze. Abbiamo così deciso di porre alcune domande a scrittrici e scrittori che – venendo da vari ambiti e maneggiando vari strumenti – hanno affrontato la questione del lutto e della perdita, del rapporto con la morte e con la malattia, in un modo che ci interroga e ci costringe, di volta in volta, a prendere posizione.
È per vederci un po’ più chiaro. È per misurarci la febbre.
(L.C. e D.W.)
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Franco Berardi, detto Bifo, è uno dei filosofi italiani più letti e più tradotti nel mondo. Tra i suoi numerosi libri, teniamo segnalare i recenti Il terzo inconscio. La psicosfera nell’era virale (Nottetempo, 2022), Disertate (Timeo, 2023) e Pensare dopo Gaza. Saggio sulla ferocia e la terminazione dell’umano (Timeo, 2025).
Franco, carissimo Franco, grazie per aver accettato questo invito. Subito diretti: in una delle sue frasi più celebri, Spinoza dice che l’uomo libero a niente pensa meno che alla morte, e che la filosofia non è una meditazione sulla morte, ma sulla vita. Secondo te, oggi, con l’odore di fine che viene da un po’ da tutte le parti, è ancora possibile sostenere questa posizione?
Potrei dirti che anche Spinoza può dire una sciocchezza qualche volta, no? Ma non è quello che intendo dire, piuttosto chiedo: chi è l’uomo libero? E libero da che? Libero dalla morte, soprattutto libero dalla morte.
Ecco, io non sono un uomo libero, vorrei non rimuovere la mia coscienza della morte. La parola «libertà» è uno dei miti fondamentali del pensiero moderno, e per lo più è un mito truffaldino.
Parliamo allora prima di tutto di libertà. Pico ne parla nella sua Oratio de dignitate hominis, dove la libertà dell’uomo nasce dalla concessione divina del libero arbitrio.
In quello spazio di indeterminazione che Dio ha concesso agli umani, la cultura occidentale ha costruito un castello di menzogne romantiche su cui si fondano i vari tipi di fanatismo eroico-machista del Novecento. Il fanatismo nazionalista, prima di tutto: la libertà del mio popolo contro il tuo popolo, la libertà degli uomini bianchi, fondata sulla sottomissione schiavistica degli altri eccetera. Ma anche il fanatismo dialettico di origine hegeliana: noi siamo liberi perché il determinismo storico vuole così, la piena realizzazione della ragione storica coincide con la libertà assoluta nell’identità con lo Spirito.
In nome della libertà i mercanti di schiavi hanno costruito la civiltà occidentale che oggi, nella sua agonia, farnetica e promette sfracelli, e distrugge quel poco di ragionevolezza che i movimenti operai hanno costruito nei due secoli passati.
Se libertà è questo suprematismo dell’umano, allora non sono un uomo libero. Non lo sono soprattutto perché il mio tempo si definisce in relazione al venir meno dell’energia, al mio personale divenire nulla, cioè alla morte. Sto parlando anzitutto di me come singolarità organica, cosciente e sensibile, ma impermanente. Ma sto parlando più in generale della civiltà umana.
Se gli umani non sono capaci di pensare il loro divenire nulla, se non riusciamo a pensare l’esaurimento dell’esperimento umano, continueremo a ripetere riti che si sono già rivelati inutili o catastrofici.
Ti guardo su YouTube. Sei nel 2022 e stai prendendo le distanze da Marx, da quella “tesi su Feuerbach” che dice: «finora i filosofi hanno interpretato il mondo, si tratta ora di cambiarlo». L’interpretazione non è propedeutica al cambiamento, ma è, essa stessa, tutto il poco cambiamento che ci è concesso. Il solo compito di un soggetto pensante, dici, l’unico modo che abbiamo di partecipare alla vicenda storica sta proprio nell’interpretare. «Cambiare oggi è essenzialmente cogliere il senso». Mi colpisce il guizzo che passa nella tua voce e che mi fa chiedere: per te, in questo interpretare il mondo, c’è una forma di gioia che persiste anche là dove l’oggetto della nostra interpretazione sembra essere avvolto nella tristezza più cupa?
Non vi è gioia se non nell’adesione sensibile al fluire. Il fanatismo romantico ha mobilitato le energie in una direzione eroica, cioè ha chiamato gli umani allo sforzo storico: sottomettere il flusso, piegare la tendenza alla volontà. Il soggetto moderno si vede miracolosamente posto al di sopra del flusso degli eventi, e si attribuisce il potere di sottomettere il flusso. Ma il soggetto è nel mondo e ne subisce i limiti e soprattutto l’impermanenza, la caducità.
Interpretare significa comprendere la tendenza per evitare di subirne i colpi e per coglierne a pieno le potenzialità. Interpretare significa cogliere la tendenza, e muoversi in sintonia con la tendenza, oppure agire per disertare la tendenza, per allontanarsene, per esserne autonomi.
Cambiare il mondo è una frase facile da dire, ma non significa molto. Noi non cambiamo il mondo, semmai partecipiamo a un processo che chiamiamo mondo. E tanto più possiamo influire su questo processo quanto più sappiamo comprendere le tendenze che lo tirano di qua e di là. Interpretare i segni, cogliere le tendenze, quindi agire o piuttosto non agire.
Nel libro sull’efficacia François Jullien introduce il lettore occidentale alla visione taoista dell’inazione: wu wei, come azione efficace che coglie il flusso e ne interpreta la direzione senza pretendere di dominarla.
Questa è un’inchiesta sull’immaginario contemporaneo del lutto, inteso come il processo materiale e psichico che la morte altrui innesca in coloro che restano. Tu hai scritto spesso della necessità di farsi amica la morte, di farsi amico il caos. Me ne puoi parlare meglio? E poi: come farceli amici, quando perdiamo i nostri veri amici, le persone che abbiamo amato? Pensi che si possa effettivamente intrattenere un’amicizia con la morte anche nel dolore concreto della perdita?
Per risponderti comincio parlandoti della tragedia che tutti abbiamo vissuto, cui tutti abbiamo assistito nell’ultimo anno: la tragedia del popolo di Gaza. Non mi sento ideologicamente vicino ai movimenti politici palestinesi, non condivido la loro idea di popolo e di nazione, non condivido la loro religiosità. Però mi sento vicino ai palestinesi perché condivido la loro fragilità, la loro vulnerabilità. In quanto organismo cosciente e sensibile (se vuoi puoi anche dire in quanto uomo, se non fosse che questa parola mi è venuta in sospetto) la loro sofferenza, la loro umiliazione mi ha posto in una condizione di dolore e di angoscia. Non mi importa niente dello Stato palestinese che sarebbe l’obiettivo per cui si sono mobilitati e sono morti a decine di migliaia. Pensa che idiozia morire per avere finalmente il proprio Stato. Ma so bene che questa idiozia politica è un modo (sbagliato) per dire autonomia, possibilità di respirare, vivere, muoversi.
So che l’identificazione come popolo è una necessità imposta dalla violenza degli altri che si auto-identificano come popoli. La mia sofferenza, la mia angoscia dipendono dal sentirmi vicino alle persone palestinesi, vicino a loro come singolarità vaganti, affettive, parlanti, insomma umane.
Da quando i sionisti hanno iniziato a mettere in atto la loro soluzione finale, nel senso propriamente hitleriano di Endlösung, mi sono accorto che giorno dopo giorno soffrivo per chi viveva, per chi continuava a vivere, per chi si ostinava a vivere. E provavo un sentimento di rilassamento, quasi di solidale sollievo ogni qual volta sentivo che un palestinese era morto, che non era più in mezzo a quelle rovine, a quell’angoscia. Quando sentivo che si era finalmente liberato da una vita nella quale ci sono anche i sionisti. Non voglio farne una proposta politica, intendiamoci: semplicemente una constatazione. Davanti alla singolarità che soffre incurabilmente non posso che desiderare il suo venir meno, il suo divenire nulla.
E quando mi giunge notizia della nascita di una bambina o di un bambino in quei territori palestinesi in cui la persecuzione e la violenza sono quotidiani, mi chiedo perché c’è ancora qualcuno che ritiene di avere il diritto di mettere al mondo un innocente destinato a soffrire fin dai primi giorni della sua vita, destinato a morire di freddo in una tenda.
Non essere è meglio che vivere in un mondo dominato dai nazisti, dai sionisti, o dai putinisti. Insomma non essere è meglio che essere in condizione di vulnerabilità e di angosciosa dipendenza da un assassino. Ma ormai in ogni luogo del mondo siamo in condizioni di precarietà e sofferenza. Grazie al cielo la maggioranza delle donne stanno sospendendo la procreazione. È il segno di speranza che io vedo all’orizzonte del secolo: l’auto-terminazione del genere umano.
Dopo Gaza, dopo il genocidio che è ancora in corso contro i palestinesi dei territori occupati e del Libano, credo che solo per auto-accecamento possiamo continuare ad attenderci qualcosa dalla storia. Chi pensa che la lotta prepari una condizione migliore, finalmente libera, felice, per i palestinesi, mente a se stesso. Quel che ci insegna l’esperienza dello sterminio degli ebrei e la successiva creazione dell’entità sionista è questo: che solo diventando carnefici possiamo, come popolo, emanciparci dall’essere le vittime.
Come popolo possiamo essere oppressori oppure oppressi, sterminatori oppure sterminati.
Solo come singolarità possiamo fuggire a questa maledizione, se riusciamo a sgattaiolare, a nasconderci, o, al peggio, a venir meno, a finalmente morire.
Dopo Gaza è urgente pensare in termini extra-storici: la storia non è finita, ma continua come asservimento interminabile. Perciò è urgente pensare ai margini, collocarsi ai margini per pensare. Non c’è più pensiero nella storia, perché la storia non ha più sorprese pensabili. È l’inferno che si ripete, ed è stupido, senza pensiero. Pura tracotanza del non pensiero.
Inoltre è urgente elaborare la coscienza che la terminazione del genere umano è finalmente all’ordine del giorno. So che non è facile dire quel che sto dicendo, tanto è vero che i miei amici talvolta pensano che io stia scherzando, e pensano che i miei scherzi siano di pessimo gusto. Ma qualcuno si deve pur assumere la responsabilità di dire la cosa indicibile.
Il conformismo, la rimozione (Verdrängung) e il disconoscimento (Verlugnung) rendono arduo pensare ciò che pure è evidente, che la storia degli uomini è solo ottusa ripetizione dell’orrore, e non ha più niente da rivelare.
L’unica rivelazione è proprio il suo esaurimento, che per tanti segni mi pare all’ordine del giorno, o piuttosto mi pare nell’orizzonte del secolo.
Nel poco tempo che mi resta mi propongo di pensare il divenire nulla della storia umana, e in questo mi pare di essere in sintonia con la maggioranza delle donne di tutto il pianeta, che rifiutano consciamente o inconsciamente di generare le vittime del collasso climatico, geopolitico, psichico, che sono quel che resta della storia.
Tutto era già scritto nel De rerum natura, dove Lucrezio suggerisce di pensare dal punto di vista del divenire nulla. Come Epicuro, Lucrezio parla del nulla dal punto di vista della coscienza che esperisce il suo divenire nulla.
Considera come sia stata nulla per noi la durata
Del tempo eterno, trascorsa prima che nascessimo.
Questo è dunque lo specchio che la natura ci mostra
Del tempo futuro, successivo alla nostra morte.
Forse vi compare qualcosa di terribile, o qualcosa
Di funesto? Non appare più tranquillo di ogni sogno?
(vv. 972-977)
Ora un passo indietro. Nel 1978 su «A/traverso» – la rivista del maodadaismo, che l’Università di Yale ha considerato come una delle ultime espressioni delle avanguardie artistiche del Novecento – uscì un articolo che si intitolava Requiem per Alice: già allora eravate consapevoli che una stagione era finita, e con essa un modo di intendere il mondo e la storia. Alla rivoluzione si era ormai sostituita la mutazione – un altro concetto che hai esplorato a fondo – ed era sopraggiunta la repressione. Ma non è esattamente di questo che vorrei parlare. Piuttosto mi interessa sapere: tu come hai vissuto, allora, quel lutto collettivo, generazionale? E ora come lo vedi? Perché, secondo te, gli anni Sessanta e gli anni Settanta non si riesce ancora a elaborarli, qui in Italia?
Non vorrei parlare degli anni Sessanta e Settanta, ma di quel giro di anni che seguono il ’77 bolognese, romano, londinese. Quel dopo ’77 contiene lampi di premonizione del precipitare di un processo da cui oggi siamo travolti. L’ultimo numero di «A/traverso» (inverno 1981), dopo che tutto era già finito, si apre con un articolo che si chiama La traversata del deserto. Il tono è drammatico, disperato. Ma quel che mi interessa in quel testo è l’intuizione che l’arte della politica ha perduto la sua efficacia: nel deserto non conta la volontà, non c’è governo, perché i processi che contano sfuggono alla volontà e all’azione. Oggi lo vediamo con chiarezza: quel che ha importanza non è la volontà, ma i processi macro della geopolitica e del cambiamento climatico, i processi micro del collasso psichico, della devastazione mentale, l’epidemia depressiva l’epidemia di overdose da oppiacei…
I movimenti dei due decenni precedenti al ’77 avevano cambiato la vita quotidiana, avevano reso possibile una festa collettiva, una prossimità dei corpi che oggi appaiono inimmaginabili. La solidarietà, la complicità, la condivisione erotica erano processi di trasformazione profonda che la politica poteva solo parzialmente rappresentare.
Ma quel che è accaduto dopo, nei quarant’anni successivi, non è una restaurazione politica, è una mutazione antropologica, per usare un’espressione che fu coniata da Pasolini.
Gli anni dei movimenti hanno creato uno spazio di condivisione gioiosa, e anche di condivisione del lutto, della sofferenza. Condivisione, solidarietà. Questo fu reso possibile da condizioni oggettive e soggettive (maturità della classe operaia industriale, emergere del soggetto intellettuale collettivo, gli studenti, incontro fra questi due corpi sociali…) ma non poteva (forse) durare in eterno.
Si poteva vincere? Non credo che si potesse vincere nel senso di sostituire il soggetto di movimento al soggetto dominante, allo stato del capitale. Ma si poteva istituire una sorta di sperimentazione permanente, una cultura della divergenza, si poteva dare una dimensione stabile alle innumerevoli esperienze di autonomia. Forse si poteva: il movimento di Bologna fu un laboratorio di questa possibilità, ma il movimento di Bologna fu aggredito e distrutto, non solo dalle truppe di Cossiga, ma anche (e oggi direi soprattutto) da forze interne che non accettavano l’idea di una radicale estraneità alla politica.
In parte collegandomi alla domanda precedente, ma a più di quarant’anni di distanza. Alla fine del 2020, dopo la prima ondata di covid, ti sei messo ad ascoltare le voci di alcuni ventenni e trentenni italiani, cercando di comprendere quali fossero stati gli effetti della pandemia sulle generazioni dei giovani adulti, in termini affettivi, politici, lavorativi e, più in generale, psichici. Da questo Sondaggio dell’anima pubblicato su «Effimera» sono emersi atteggiamenti e parole da «terrestri timidi», come li hai chiamati tu, ossia parole e atteggiamenti che si potrebbero definire malinconici, quasi di persone in lutto, appunto. Orfani dell’utopia, della rivoluzione, del futuro… e di che altro, per te? Che idea ti sei fatto di questa collettiva anima timida, e ora come la ripensi, a quattro anni da quel sondaggio?
Orfani soprattutto dell’altro, del corpo dell’altro, del piacere dei corpi che si toccano. La pandemia è stato il momento in cui la mutazione antropologica, e soprattutto la mutazione psichica e psicosessuale, è diventata più evidente. Ma la mutazione ha lavorato lungamente sotto la pelle: l’esplosione dello schermo nella vita quotidiana ha tolto tempo alle carezze, ma poi ha trasformato la stessa percezione del corpo, rendendolo sempre più difficile, sempre più inaccessibile. Mi pare che la disforia, come la chiama Paul Preciado, sia la forma generale della corporeità contemporanea.
La sensibilizzazione fobica alle labbra, che la pandemia aveva trasformato in regola sanitaria e poliziesca, è il cuore di questa mutazione. Ma prima della pandemia c’era stato il lungo processo di virtualizzazione del linguaggio, dello sguardo, della relazione. Perciò la pandemia non ha fatto che regolarizzare una mutazione che era in corso da un paio di decenni.
In questi anni non ho mai smesso di collezionare foto delle scritte che fioriscono sui muri cittadini, particolarmente nella zona universitaria.
Me ne viene in mente qualcuna:
«C’erano frasi d’amore sui muri
Erano tutte col verbo passato
E il mio nome adesso è cancellato» (questa è piuttosto bella, letterariamente parlando)«Abito il mio corpo senza sapere come si fa»
«Prima ero solo / adesso solo ero» (questa è geniale)
«Meglio solo» (questa è definitiva).
«Tesoro, invadimi all’alba»
Mi pare che queste scritte descrivano la fenomenologia della sensibilità giovanile contemporanea altrettanto bene delle tre parole che l’Oxford Dictionary ha scelto come parole dell’anno alla fine del 2024: brain-rot, romantasy e demure. Sono le parole più usate nei social network, e paiono una diagnosi psicopatologica. O piuttosto un’auto-diagnosi.
A proposito di generazioni e di fine del futuro. Nel tuo pensiero, vecchiaia ed estinzione divengono categorie attraverso cui guardare non a un aspetto circoscritto dell’esistenza di un individuo, ma alla realtà stessa, e soprattutto quella occidentale, nella quasi totalità delle sue espressioni. In un capitolo del Terzo inconscio (Nottetempo, 2021), per esempio, sembra che tu faccia una duplice operazione. Da una parte, critichi l’immagine pubblicitaria della vecchiaia, che vorrebbe spacciare questa fase della vita come un’avventura tutta da scoprire. D’altra parte, sembri indicare, proprio nella vecchiaia, il luogo in cui è possibile ritrovare un «nuovo paradigma»…
Anzitutto ti debbo dire che l’invecchiamento ha caratteri brutali che non è facile immaginare. Io non immaginavo una perdita di energia così drammatica come quella che ho esperito negli ultimi quattro-cinque anni. Si potrebbe dire che sono fatti miei, ma non sono fatti miei, visto che la popolazione tende a diventare mediamente sempre più anziana. Un aspetto al quale mi pare che nessuno ha pensato finora (magari mi sbaglio) è l’effetto di lungo periodo della denatalità.
Proviamo a immaginare: all’inizio del secolo ventesimo c’erano due miliardi di persone, all’inizio del ventunesimo otto miliardi. Strabiliante. Ma adesso prova a immaginare che alla precipitosa salita segua una altrettanto precipitosa discesa, e che alla fine del secolo ventuno ci siano nuovamente due miliardi di abitanti, o magari tre, o magari quattro. Ma il punto non è quanti sono. Il punto interessante è che mentre nel 1920 c’era una maggioranza (crescente) di giovani, mentre negli anni ’60 ci fu un boom di nascite che fece crescere la porzione ventenne fino a provocare il ’68, nei prossimi decenni la popolazione sarà sempre più composta di anziani. Adesso gli ultra-65 sono un terzo. Prova a immaginare che diventino la metà, o che diventino due terzi. È del tutto probabile, anzi, ai tassi di riproduzione attuali direi che è certo.
Una società di vecchi è un incubo che neanche il peggior romanzo di distopia è in grado di immaginare. Non solo perché la gente sarà sempre più incapace di far funzionare la macchina produttiva, ma soprattutto perché l’energia psichica crollerà in una diffusione inimmaginabile di depressione. Un oceano di tristezza.
Bene, tutto questo è assolutamente impensato. Manca un pensiero che faccia i conti con questa caduta dell’energia, il futurismo e il tecno-ottimismo contemporaneo della destra più aggressiva mi pare siano un tentativo di esorcizzare questa tendenza che per buona parte si è già fatta realtà.
Una società dominata dall’Alzheimer, dalla depressione non è forse il perfetto contraltare alle fantasie trans-umaniste che circolano, e trovano nella presidenza Trump il loro trionfo psicotico? Ho visto in Netflix il film che racconta la vita di un idiota californiano che prende centocinquanta pillole, fa ore di esercizi fisici, mangia solo roba sintetica eccetera perché vuole vivere centoventi anni. Il titolo del film è Don’t die. Questo personaggio, che si chiama Bryan Johnson, va in giro per il mondo a costituire gruppetti di fanatici che vogliono la tecno-immortalità.
Non so se hai mai sentito parlare di un romanzo di Norman Spinrad (anni ’90) che si chiama Bug Jack Barron (Jack Barron e l’eternità nell’edizione italiana). Era una storia truce di ricconi che rapivano ragazzini per farsi trasfusioni e rubargli gli organi e roba del genere.
Ecco, una riflessione sulla vecchiezza come divenire nulla mi pare un antidoto all’angoscia da impotenza, alla depressione da senilità. Un antidoto difficile, intendiamoci. Lucrezio aiuterebbe.
È come se riuscissi a invertire il segno che siamo soliti attribuire a certi atteggiamenti e a certe nozioni: l’auto-estinzione diviene qualcosa come una via d’uscita, la rassegnazione una postura che collima con la resistenza. Anche l’hikikomori, nel tuo pensiero degli ultimi anni, diventa un curioso personaggio concettuale, quasi il portatore sano di un disincanto e di una distanza dall’azione che potrebbero funzionare come antidoti al ritmo insostenibile in cui siamo generalmente immersi. Eppure, a volte, tra le tue parole, sembra ancora fare breccia un’enfasi che è forse difficilmente compatibile con la forma di vita di cui l’hikikomori è l’emblema, come quando parli di quella necessità di farsi «amici del caos» di cui dicevamo prima. Come si tengono assieme queste due tendenze contrapposte?
Farsi amici del caos è un modo per intendere la musica e il ritmo del tempo in cui siamo costretti a entrare che lo vogliamo o no. Al tempo stesso però si tratta di leggere interpretare e alla fine risignificare quella depressione che per gli psichiatri sarebbe la malattia dominante del secolo.
Un gesto filosofico indispensabile è quello di depatologizzare alcune forme di comportamento come quelle che si definiscono depressive, o come quelle che si etichettano come disturbi dell’attenzione.
Pensa a queste ultime: ti pare mai possibile dire che un ragazzino che riceve una quantità di impulsi informativi (cioè di stimolazioni nervose) mille volte superiore a quella che riceveva un normale individuo di un secolo fa si possa considerare malato di ADHD perché non riesce a concentrarsi? Immagina di stare davanti allo schermo del cinema e che il proiezionista acceleri la pellicola di dieci, cento volte… tu non capisci più niente. Ma è colpa tua, sei forse ammalato, oppure il proiezionista ti ha fatto uno scherzo assassino?
Così anche la depressione. Ti sembra che si possa considerare patologico il comportamento di un ragazzino che vive nelle condizioni descritte da Ken Loach in Sorry we missed you?
Un ragazzino cui viene detto che l’estate che ha appena dovuto tollerare non è che un pallido anticipo di quella che dovrà sostenere fra dieci anni? Ti pare patologica la solitudine di un ragazzino che vive in una società in cui tutti hanno un cellulare da quando avevano sei mesi?
No, depressione non è proprio la parola giusta. Certo si tratta di malinconia sistemica, ma si tratta anche di diserzione da una società neurologicamente intollerabile.
Sempre nel Terzo inconscio hai ricordato come l’Occidente contemporaneo si ostini a obliare la morte, a occultarla; freudianamente, ma anche concretamente, a spostarla. Questo però per quanto riguarda la morte individuale, quella del singolo che non accetta l’idea della fine del suo percorso biologico, lo stop al suo ciclo di produzione e consumo. La morte puntiforme, come l’ha definita Baudrillard. Per quanto riguarda la morte della specie umana, la morte totale (che avvenga per collasso climatico o per guerra nucleare la questione non sembra troppo cambiare), essa viene invece data per certa: in qualche modo, e senza troppo scandalo, per scontata. Secondo te una simile consapevolezza come influenza quella che di solito chiami psicosfera?
L’estinzione come destino è presente nel fondo dell’immaginario contemporaneo come un controcanto realistico alle utopie neofuturiste della tecnocultura. Ma non è concesso portare alla coscienza questa percezione subliminale. È vietato. Non proprio vietato, ma ignorato.
Alenka Zupančič, una psicoanalista slovena di formazione lacaniana, ha scritto un libro che si chiama Disconoscimento (Meltemi), in cui si parla proprio di questo. Ci sono situazioni in cui siamo costretti a far finta di non sapere.
Sappiamo che le emissioni inquinanti che hanno portato la terra oltre il limite del collasso climatico non si fermano, non si fermeranno, e che anche se si fermassero il loro effetto continuerebbe a devastare la vita prossima nei prossimi decenni. E comunque no, non si fermeranno, perché i poteri del mondo dicono Drill baby drill, e perché ciascuno di noi ha bisogno di usare l’automobile eccetera.
Parlerei qui di uno stress pre-traumatico: generalmente si soffre di un trauma che si è iscritto nella memoria, e chi è traumatizzato non riesce a liberarsi di un evento passato. Invece la generazione che è nata in questo millennio è traumatizzata da un evento futuro, o piuttosto dall’orizzonte futuro nel quale si muove. Basta pensare alla percezione cosciente o subconscia del collasso ambientale, dell’irreversibile mutazione climatica e degli effetti di invivibilità fisica che essa proietta sull’esistenza di ognuno. Ma dalla mutazione climatica, a cascata, derivano effetti sociali (migrazioni), politiche (nazionalismo e razzismo dilaganti), e quindi psichici.
Questo trauma dell’imminente determina una paralisi: la soggettività non è in grado di progettare un futuro, perché Il futuro è segnato. L’azione politica è impotente di fronte a fenomeni che hanno il carattere dell’irreversibile, e ogni progetto esistenziale è fragile.
La vecchia provocazione punk no future ha perso il suo carattere di premonizione distopica, per rovesciarsi in una sorta di invocazione: salvateci dal futuro, sfuggiamo al futuro.
Come sappiamo non c’è che un modo per sfuggire al futuro, e quel modo è il suicidio.
In questa maniera diventa facile spiegare la scelta ultra-reazionaria di una parte maggioritaria dell’elettorato giovanile che porta al potere forze ultra-reazionarie la cui missione evidente è scatenare l’inferno sulla terra. Forze che si propongono esplicitamente la devastazione climatica finale (Drill baby drill), che rivendicano il genocidio come programma, forze che hanno fatto del grido franchista Viva la muerte! il loro programma dichiarato.
Guardando a ciò che sta succedendo in Medio Oriente. Sei tra quelli che, fin da subito, hanno reso un po’ meno probabile la rimozione collettiva di quanto sta accadendo, che è pure – come per tutte le guerre – un fronteggiarsi di lutti, un sistematico accusarsi reciproco su chi sia il vero carnefice. Un orrore simile sembra riverberarsi anche nei nostri discorsi, troppo spesso semplificatori e ideologici. Alla luce di questo ti chiediamo: come evitare una trappola del genere? Quale può essere una posizione capace di rendere conto della sproporzione del massacro che si sta compiendo a Gaza (e non solo) e del trauma della comunità ebraica del 7 ottobre?
Prima ho parlato di un trauma del futuro, ma qui dobbiamo invece parlare del trauma in senso proprio, quello che inscrive nel futuro la traccia del passato. Il passato come una ferita che stravolge per sempre la possibilità di immaginare il futuro. Il fatto che gli eredi delle vittime dell’Olocausto mettano in scena in modo quasi ossessivo una riedizione dell’Olocausto mi fa pensare che tutti i discorsi che abbiamo fatto nella seconda parte del secolo passato fossero scritti sull’acqua.
Mai più nazismo, mai più genocidio voleva dire: la ragione universalistica può liberarci dalle conseguenze del trauma, cioè dalla ripetizione dell’orrore.
Forse stiamo scoprendo che quei propositi furono solo illusioni idealistiche. Non c’è alcun modo per sfuggire alla reazione animale, alla ferocia che il trauma attiva. Forse la storia non è altro che la reazione feroce contro una ferita che abbiamo subito per entrare nella storia.
Per questo la storia è diventata, come ci avvertiva Elsa Morante quando non avevamo voglia di ascoltarla, una ripetizione interminabile dello stesso orrore. Perché lo è fin dal principio.
La diserzione che io vedo come unica isola in cui può ritrovarsi la vita buona (la vita bella) non è solo diserzione dalla guerra, diserzione dal lavoro, diserzione dal consumismo. Deve essere diserzione dalla storia, altrimenti non è che aspirazione al disertare.
Ma la diserzione dalla storia cos’è? Com’è possibile la diserzione dalla storia?
Non ho una risposta, però una cosa posso dirla, sia pure con timidezza: da centomila anni gli umani (anzi le umane) generano schiavi, sapendo che saranno schiavi, sapendo che la loro vita sarà solo tormento. Generano carne da cannone sapendo che sarà carne da cannone. Le madri piangono. Ma perché piangono se il figlio che hanno generato non aveva altro destino che quello di morire sotto la frusta del faraone, sotto le pallottole dell’esercito nemico (e tutti gli eserciti sono nemici)?
Ecco, la mia intuizione è che ora le umane sanno che sarà sempre così, e che generare vuol dire soltanto consegnare innocenti anime alla violenza del faraone, alla violenza del cannone. Per la prima volta in centomila anni è possibile non generare. Ci sono tecniche per fare l’amore senza generare, e il mondo è diventato così triste che ormai sempre di meno si fa l’amore.
Ecco, vedi, la diserzione dalla storia è cominciata.
Siamo, per la prima volta in centomila anni, nella condizione ultima.
Perché non vogliamo pensarla? Pensarla con gioia, voglio dire, pensare l’ultimità come possibilità, non come terrore.
Infine, ringraziandoti ancora, una domanda che rivolgiamo a tutti. Il nome di questa rubrica è un verso di Pagliarani. Lo vorremmo usare come un termometro, provare a capire davvero «quanto di morte noi circonda», poiché i discorsi che circondano la morte sono, in questo senso, piuttosto contrastanti: da una parte ci viene detto che la morte è, per noi contemporanei d’Occidente, il rimosso per antonomasia, ciò che non vogliamo vedere e occultiamo costantemente; dall’altra, invece, che la morte è sovraesposta e che è (divenuta?) la vera e sola protagonista delle nostre storie. E dunque, che pensi al riguardo? Quanto di morte noi circonda?
Brecht diceva: se questo resta com’è siete perduti. Adesso è chiaro che questo resta com’è, solo peggio. Dunque siamo perduti.
Ma non è la morte in attesa dietro gli angoli che rende orribile il presente. No. È il dolore, l’umiliazione, la fatica, lo sfruttamento, la tracotanza, la solitudine. La morte non c’è. Ci dicono che la morte è dietro l’angolo, ma non è vero. La morte non c’è. L’ha detto Epicuro, l’ha ripetuto Lucrezio. Quando ci sono io non c’è la morte, quando c’è la morte io non ci sono.
Vorrei salutarti con una poesia di Maria Zambrano, la poeta e pensatrice andalusa che rinnova la tradizione stoica traducendola nella sensibilità ultima, con un’anticipazione che va al di là del secolo in cui visse, il ventesimo, cioè il penultimo della storia della civiltà umana.
Que todo se apacigue como una luz de aceite
Como la mar si sonerie,
Como tu rostro si de pronto olvidas.
Olvida porque yo he olvidado
Ya todo. Nada sé.
Cerca de ti nada sé.
Nada sé bajo tu sombra, amarilla
simiente del árbol del olvido.
Y todo volverà a ser como antes.
Antes, cuando ni tu ni yo hablamos nacido.
Pero nacimos acaso? O tal vez no?
Todavia no.
Nada, todavia nada. Nunca nada.
Somos presente sin pensamientos.
Labios sin suspiros, mar sin horizontes,
Como una luz de aceite se ha extendido el olvido.
*Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.
This work was supported from OP JAC Project “MSCA Fellowships at Palacký University II.” CZ.02.01.01/00/22_010/0006945, run at Palacky University in Olomouc, Czech Republic.