Quanto di morte noi circonda ⥀ Intervista a Gilda Policastro

Inauguriamo oggi la nuova rubrica-inchiesta Quanto di morte noi circonda, a cura di Luca Chiurchiù e David Watkins, volta a indagare l’immaginario contemporaneo del lutto. Il primo dialogo è con Gilda Policastro, che della malattia e del lutto ha fatto le cifre della propria opera

 

«Quanto di morte noi circonda» è un verso di Elio Pagliarani. Ora, è anche il titolo di un’inchiesta di Argo sull’immaginario contemporaneo del lutto.

La morte è il rimosso del nostro tempo.
La morte è l’assillo del nostro pensiero e delle nostre scritture.

Queste due affermazioni, palesemente contraddittorie, coesistono nei discorsi dei nostri giorni, sgomitano alle soglie delle nostre impressioni e delle nostre incertezze. Abbiamo così deciso di porre alcune domande a scrittrici e scrittori che – venendo da vari ambiti e maneggiando vari strumenti – hanno affrontato la questione del lutto e della perdita, del rapporto con la morte e con la malattia, in un modo che ci interroga e ci costringe, di volta in volta, a prendere posizione.
È per vederci un po’ più chiaro. È per misurarci la febbre.

(L.C. e D.W.)

 

 

Per inaugurare l’inchiesta pubblichiamo un’intervista a Gilda Policastro, scrittrice che ha fatto della malattia e del lutto le cifre dell’intera sua opera, in versi e in prosa. A questo proposito, tra i suoi libri, teniamo particolarmente a segnalare: Il farmaco (Fandango, 2010); Non come vita (Aragno, 2013) e La distinzione (Perrone, 2023).


 

Gilda Policastro, anzitutto grazie per aver accettato il nostro invito. Vorremmo partire in maniera frontale e sprezzante, come questi tuoi versi tratti da La distinzione (Perrone, 2023): «Io e la morte siamo amiche da tempo, abbiamo fatto un patto: | ricevo diagnosi fatali, condivido, inoltre | ne parlo | non parlo d’altro | Se d’amore si muore, io vivo d’amore | per la morte». Ci dici cosa significa per te non parlare (pensare, trattare, scrivere) d’altro che della cosa di cui di solito non si deve parlare? Ci dici come si può fare a misurarsi con lo smisurato, farselo amico, perfino amarlo, almeno in letteratura?

Parlare di morte è un’ossessione ma anche un’appropriazione indebita, perché già con gli epicurei se ci siamo noi non c’è la morte, e dunque, stavolta col Benjamin del saggio sul narratore, quello che raccontiamo sulla morte è il compimento del «romanzo» di qualcun altro. Ho cominciato a parlarne perché stavo, come si dice psicoanaliticamente, elaborando un doppio lutto, e ho trovato anzi ho cercato una forma che mi aiutasse a trasmettere quello che mi pareva un incremento di conoscenza, per esperienza se non diretta assai prossima, rispetto alla caducità delle esistenze e alle brusche interruzioni dialogiche segnate dalla morte delle persone care (il «mai più» di cui parlava Leopardi, che ci strazia anche rispetto a cose «indifferentissime per noi», figurarsi rispetto a persone a noi vicine o vicinissime). C’è da dire che raccontare la morte, anche in modo finzionale, è di pochi, pochissimi e bravissimi: Mann, Tolstoj, Manzoni, andando a ritroso.

 

Un po’ come in una intervista impossibile. Giochiamo al facciamo finta e con l’indecidibile, se ti va.
Tu hai fatto delle tue esperienze traumatiche, lutto e malattia, il cuore vero, e certo di tenebra, delle raccolte che hanno scandito due tappe importanti del tuo percorso: Non come vita (Aragno, 2013), e, di nuovo, La distinzione, allacciate strette tra loro in modo dichiarato e inevitabile. Discorso simile, ma solo in parte, anche per il tuo primo romanzo Il farmaco (Fandango, 2010). Non ci sembra però che la ferita stia alla base soltanto di queste singole opere, ma di un intero modo di vedere le cose, e di conseguenza di renderle in letteratura. Di una poetica, quasi.
Al netto delle abiure presenti ne La distinzione, ci pare che quelle esperienze autobiografiche e traumatiche siano consustanziali, anche se ovviamente non sovrapponibili – non siamo mica Saint Beuve, alla tua scrittura: e dunque Pascoli, D’Arzo, Ortese, Rosselli, ecc. piuttosto che, mettiamo, De Angelis, Valduga, Magrelli, Bertoni, ecc.  (o addirittura Dante, Petrarca…), autori, questi secondi, che si sono misurati con la morte, il lutto e la malattia in un preciso istante, o in una precisa opera. E ancora diverso continua a sembrarci il tuo caso rispetto a quello di coloro che hanno fatto dei modi e dei culti del morire i temi, esclusivamente i temi, per quanto ossessivi, della loro produzione: su tutti Giulio Mozzi. Non elegia, quindi, non meditazione sulla morte e neppure soltanto motivo ricorrente, ma midollo ed essenza, quasi.
È così secondo te, è una lettura plausibile della tua poetica e della tua opera? E, messa in altri termini: di cosa parla Gilda Policastro quando non parla di morte e malattia (assassinii metafisici e rapporti amorosi per l’appunto non troppo sani compresi)? Di che cosa avrebbe parlato, se non le avesse avute così accanto, ci hai mai pensato?

Intanto più che la morte direi che il motivo guida della mia “opera” (sembra pomposo, ma voglio semplicemente denotare il complesso delle cose che scrivo senza usare il termine produzione, che fa subito area commerciale) è la malattia: quell’accadimento funesto in cui, come dicevo ai tempi del Farmaco, accade in verità solo che il corpo smetta di funzionare come tutti gli altri corpi e si segnali per una sua unicità e peculiarità. In termini emotivi la malattia è l’attesa di quel compimento narrativo di cui diceva Benjamin, ma la parte più interessante di una storia non è quasi mai il suo compimento bensì l’a un tratto, che nel caso della malattia è la diagnosi. È quello, il vero choc, il momento della rivelazione del cos’è, esattamente, che non funziona (sempre che lo si possa poi stabilire con certezza). Ne consegue l’ingresso in un nuovo territorio, una dimensione che nella narrazione corrente diventa una “lotta” o una “battaglia”, con questi connotati militareschi che giustamente, come si osserva spesso, non rendono giustizia a chi quelle battaglie poi fatalmente le perde, se di battaglie si trattava. Ma nella mia poesia (e pure nella narrativa) entra un altro aspetto, direi infraordinario: tutto quello che circonda la malattia in termini di dispositivi (i tubi, molto presenti ne La distinzione, come è stato osservato da un critico e poeta molto acuto come Antonio Perozzi) ma anche di effetti: gli odori, i pigiami, la vita di corsia, il «tu» generalizzato. Un mondo di cui sono debitrice non solo ahimè all’esperienza personale ma a Mann, che credo in quest’ambito sia un capofila indiscusso. Una delle pagine più belle mai scritte è quella in cui Castorp si chiede ragione delle sue lacrime, dal punto di vista della composizione chimica, dopo la morte del cugino pure molto amato. Segno che è ormai entrato effettivamente nella dimensione conoscitiva del sanatorio e la vita della materia lo domina più dei sentimenti. Se non avessi intercettato questo tipo di sensibilità, l’ossessione della minaccia incombente, della corruzione del corpo e della sua progressiva scomparsa, non so di cos’avrei parlato, forse di questo ma in altre forme, o forse non avrei nemmeno scritto. Non saprei, ci devo pensare ancora.

 

Più che i Rilke e Blanchot convocati di solito in questi casi: c’è un racconto de L’uomo invaso in cui Bufalino immagina che Orfeo si volti apposta, che scelga di perdere Euridice per poi poterne cantare. Provocatoriamente, e molto: credi che il trauma, come ha intuito Giglioli, sia la cosa che ci dobbiamo augurare e infliggere, e che ci si augura e ci si infligge, per poter scrivere davvero? Forse gli editori e gli organizzatori dei premi letterari non si lascerebbero troppo scandalizzare dalla domanda.

È una versione un po’ cinica del pensiero sull’«estremo» di Giglioli, però è indubbio che il dolore, in qualunque gradiente, sia una forma di contatto più forte con il senso profondo e disperato delle cose, che restano disperate pure senza il trauma (o la sua incombenza): di cinismo in cinismo, mi viene in mente Tommaseo che dice a Leopardi infelice perché gobbo, ma Giacomino era gobbo (doppia gobba, peraltro) perché la vita è questa roba qui, in cui qualcuno è gobbo, e non l’ha deciso, gli è capitato. Solo che lui lo avvertiva in maniera più distinta, più acuta, aiutato dallo studio e dalla infelicità personale come specola, via d’accesso a quella universale. Quelli che questa percezione non l’hanno, in effetti non scrivono libri memorabili. Ma non è che per forza si debba conquistare il senso della malignità dell’esistenza collezionando morti e lutti, no, non credo che sia condizione imprescindibile. Basta da un lato leggere un po’ di più e dall’altro guardarsi un po’ meno dentro e di più intorno.

 

Per rimanere in tema, ma per rovesciare la prospettiva: reputi che la scrittura possa sublimare il dolore (Freud, Klein, ecc.): essere terapeutica e catartica, come ora indicano, d’altronde, le Medical humanities? Nel tuo caso è stato così?

Credo che siano due cose molto diverse, la scrittura come terapia e la letteratura che parla di morte, di malattia o di dolore. Non necessariamente la prima approda alla letteratura, cioè a qualcosa di condivisibile. Utile a un proprio percorso, non necessariamente all’avanzamento della conoscenza complessiva. Io sconsiglio sempre ai miei allievi di scrivere di eventi traumatici nell’accaldismo, chiamiamolo così. Raffreddare per dire qualcosa di più autentico, sembra un paradosso ma è fondamentale. Ernaux ha parlato del suo aborto quarant’anni dopo: mi pare una buona misura.

 

Sempre nel tuo caso, e in parte collegandoci alla precedente domanda: hai letto degli autori specifici per fronteggiare il lutto e la malattia? Sappiamo che Dove lei non è di Barthes e La montagna magica di Mann sono due degli ipotesti portanti, rispettivamente, di Non come vita e La distinzione. Ma quali sono stati gli altri scrittori a cui ti sei rivolta per poter elaborare, in termini non solo formali e stilistici, il lutto e la malattia? Ce ne sono stati? E, riportando di nuovo la questione a un livello più generale: pensi che, almeno la lettura, possa aiutare in questi casi anche chi non è un “professionista delle lettere”? Esiste la letteratura – vera, buona – che possa fare anche del “bene”, in senso, ça va sans dire, sitiano?

Durante le fasi del lutto, leggevo molta critica per i saggi cui stavo lavorando e i romanzi da recensire prima per Alias poi per la Lettura. Un libro che mi ha tenuto compagnia durante un altro tipo di lutto, una separazione amorosa, è stata la Recherche, in particolare La prigioniera, che sarebbe poi diventato uno dei miei libri totemici. Leggere un’opera mondo, in casi in cui si voglia uscire dalla propria vita, è sicuramente una medicina possibile. Ma quando si vuole leggere per uscirne, in realtà si sta già un po’ guarendo, perché la fase acuta del dolore è irredimibile, non c’è nessuna consolazione nelle parole degli altri, nemmeno, ahimè, in quelle dei libri. Questo nella mia esperienza.

 

Ora soprattutto in qualità di studiosa: già nel 2012, in Polemiche letterarie (Carocci), ti chiedevi perché, da Giglioli e dagli altri critici letterari, non venissero prese in considerazione quelle opere alla cui base sta un trauma reale, e non il trauma dell’assenza di trauma. Pensi che oggi la situazione sia cambiata? Secondo te vi è una sufficiente attenzione critica (anche accademica, se vuole) a questo tipo di testi, che nel frattempo, nel giro di poco più di dieci anni, si sono moltiplicati?

Purtroppo quando un’occasione di conoscenza o di produzione di senso diventano tema di moda, non c’è più modo che restituiscano un’impressione di verità. La narrativa recente è piena di traumi, soprattutto di donne, malattie, abbandoni, disastri familiari, aborti e così via. Non ho grande passione per il racconto del trauma in sé, senza quella distanza di cui dicevo prima. Ho interesse per i libri belli, scritti, molto scritti, di qualunque cosa parlino.

 

Sempre in Polemiche letterarie mettevi in guardia dal «ricatto emotivo» che testi simili possono innescare. Ci spieghi questa espressione che ricorre in diversi tuoi scritti? In quale modo hai cercato di non incorrervi nelle tue opere (quelle non apertamente finzionali)? Esiste davvero, davvero, la possibilità di aggirarlo?

È un terreno impervio, certamente. Il ricatto emotivo è l’idea per cui il solo fatto di aver attraversato un’esperienza dolorosa ci debba guadagnare non già l’affetto, la vicinanza e la compassione, com’è sensato che sia (pure se poi ognuno di dolori ha i propri e non è scontato che uno stesso tipo di dolore richieda un’analoga grammatica della cura, proprio come per le malattie…), no: si pensa che il dolore, il trauma, l’esperienza eccezionale (che poi non lo è, perché di abbandoni, di genitori e figli morti sono arcipiene le cronache e le vite), siano immediatamente riconvertibili in narrazione o poesia. È in quell’immediatezza l’equivoco: quanto più siamo vicini, tanto meno l’esperienza del dolore è davvero condivisibile. Ripeto: le lacrime per la morte di Joachim sono chimica, non effusione-esibizione di dolore.

 

Domanda che ci sta molto a cuore, speriamo di non farla troppo lunga e di essere chiari. Recentemente ti sei espressa intorno alla “letteratura dei casi miei” e ai “libroidi”. Da una parte i memoir di lutto, malattia e traumi firmati da autori di professione, come Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi, e dall’altra i libri-testimonianza dei non-scrittori, gli stessi libri che Luca Rastello definiva le nuove agiografie, come Cattivo sangue di Elena Di Cioccio.
Ci è sembrato di capire che, per te, il confine che li separa non è così facilmente ravvisabile. Ciò che li dovrebbe distinguere davvero è piuttosto una forma più marcata e consapevole, la trasfigurazione dell’esperienza e del fatto proprio in letteratura: per farla semplice, lo stile. Eppure non ti sembra che i libri più letterari, quelli degli scrittori-scrittori, rinuncino di proposito alla letterarietà e allo stile? Al di là del risultato finale, non ti pare cioè che nella volontaria spoliazione da uno stile che rischia di contraffare la reminiscenza e di farla apocrifa, per citare ovviamente Busi, stia la loro vera cifra? Non è un caso, forse, che in questi stessi libri la parola e la letteratura siano considerate come qualcosa di assolutamente difettoso e insufficiente, costantemente messe sotto processo, e anzi vissute come una specie di colpa, di condanna…

Nell’ultimo libro di Dario Voltolini, Invernale, che ha molto a che fare con i temi di cui stiamo parlando, ricorre la metafora calcistica (il padre, cui il libro è dedicato, era un appassionato e lo praticava anche) e a un certo punto c’è una distinzione a cui non avevo mai pensato: quella tra «stile» e «classe». Lo stile è una conquista (tanto che Sanguineti diceva in un suo noto verso di non averne, come suggello di a-poeticità o di distanza dalla poeticità forzata, ostentata, quella che lui chiamava «poetese»), ma la classe è qualcosa di innato, è quello che diciamo talento. Ora, questo talento è riconosciuto in tutti gli ambiti artistici, tranne che nella scrittura, che si pensa, non so con quanta ragione, che sia l’arte più democraticamente accessibile: basta un foglio un pezzo di carta e un’emozione, ed ecco la poesia. Non è così, per me: uno come Milo De Angelis, certamente ha letto moltissimo, ma quei giri di senso che fa fare alle cose quando le dispone in versi, quello ce l’ha. È qualcosa che tieni, come dicono al sud.

 

Abbiamo chiuso la domanda precedente con la colpa e la condanna. Non pensi che tradurre in parole i propri traumi ponga gli autori a un confronto terminale con la propria scrittura? E quindi: qual è il rapporto di Gilda Policastro con la parola?

Io ho un rapporto di tensione continua con la sintassi: quando parlo, quando scrivo, quando converso con gli amici. È la cosa che più mi interessa, come le parole si dispongono nelle frasi, e a cosa si dà peso e a cosa si rinuncia nell’articolarle. Gli scrittori che credono nell’ordine del mondo, di solito sono paratattici. Io credo nel caso e nel caos, e quindi non solo sono ipotattica, ma ho un’attenzione maniacale per questo aspetto. Dove poi maniacalità non coincide per forza con ricerca e meno che mai conquista della perfezione, e anzi, è interessante anche il margine di errore, quello che sfugge, per l’appunto, al controllo.

 

Infine, ringraziandoti ancora, una domanda che rivolgiamo a tutti. Il nome di questa rubrica è un verso di Pagliarani. Lo vorremmo usare come un termometro, provare a capire davvero «quanto di morte noi circonda», poiché i discorsi che circondano la morte sono, in questo senso, piuttosto contrastanti: da una parte ci viene detto che la morte è, per noi contemporanei d’Occidente, il rimosso per antonomasia, ciò che non vogliamo vedere e occultiamo costantemente; dall’altra, invece, che la morte è sovraesposta e che è (divenuta?) la vera e sola protagonista delle nostre storie. E dunque, Gilda Policastro, che pensi al riguardo? Quanto di morte noi circonda?

Poca, pochissima: i social ci hanno abituato a un vitalismo stolido, a un’idea iperbolica di vite coi filtri, di cui siamo abili curatori noi stessi, nella loro rappresentazione fasulla. Mi ha colpito che un amico mi abbia detto, in un periodo per me molto difficile sul piano personale, che gli faceva piacere sapermi così contenta e appagata. Lo deduceva dai miei profili, ovviamente, senza considerare che nei miei profili c’è un avatar.

 

 

 

*Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.


This work was supported from OP JAC Project “MSCA Fellowships at Palacký University II.” CZ.02.01.01/00/22_010/0006945, run at Palacky University in Olomouc, Czech Republic.

Gilda Policastro