Quanto di morte noi circonda ⥀ Intervista a Giulia Scomazzon

Luca Chiurchiù e David Watkins, curatori della rubrica-inchiesta Quanto di morte noi circonda, dedicata alla presenza del lutto nell’immaginario contemporaneo, dialogano oggi con Giulia Scomazzon. Tutte le interviste finora pubblicate possono essere lette qui

 

«Quanto di morte noi circonda» è un verso di Elio Pagliarani. Ora, è anche il titolo di un’inchiesta di Argo sull’immaginario contemporaneo del lutto.

La morte è il rimosso del nostro tempo.
La morte è l’assillo del nostro pensiero e delle nostre scritture.

Queste due affermazioni, palesemente contraddittorie, coesistono nei discorsi dei nostri giorni, sgomitano alle soglie delle nostre impressioni e delle nostre incertezze. Abbiamo così deciso di porre alcune domande a scrittrici e scrittori che – venendo da vari ambiti e maneggiando vari strumenti – hanno affrontato la questione del lutto e della perdita, del rapporto con la morte e con la malattia, in un modo che ci interroga e ci costringe, di volta in volta, a prendere posizione.
È per vederci un po’ più chiaro. È per misurarci la febbre.

(L.C. e D.W.)

 

 

Giulia Scomazzon è una studiosa e una scrittrice. Ha pubblicato il saggio sul true crime Crimine, colpa e testimonianza (Mimesis, 2021) e il memoir La paura ferisce come un coltello arrugginito (Nottetempo, 2023), con cui ha vinto il Premio Bagutta Opera Prima.


 

Grazie Giulia Scomazzon di aver accettato questo dialogo, e soprattutto di aver scritto un libro così difficile da scrivere, La paura ferisce come un coltello arrugginito, in cui hai raccontato del lutto per la morte di tua madre, scomparsa per AIDS quando eri una bambina. Nella prima pagina spieghi che l’idea di fermare e ripercorrere su carta questa esperienza ti è stata suggerita dalla tua psicologa. Dunque la decisione di scrivere è stata, in qualche maniera, indotta? Oppure hai sentito tu l’urgenza, dopo tanto tempo e magari a fronte dei tuoi studi, di formulare a parole quanto ancora non sentivi risolto? Messa in altro modo, se vuoi: c’era per te la scrittura – scrittura scrittura, non quella accademica – prima dell’elaborazione del lutto?

Mi è capitato di ripensare di recente al fatto che nell’incipit del libro indico la psicoterapia come l’innesco del mio tentativo di recupero della memoria. Ora come ora, ritengo che sia vero solo in parte. La psicoterapia mi ha spronato a sperimentare la scrittura come un esercizio sistematico e severo di confronto con un lutto irrisolto, ma avevo già provato a estrarre un qualche tipo di significato dai documenti e dai pochi ricordi del passato in un piccolo video che avevo presentato per un corso universitario di cinema documentario. Mi piacerebbe tornare a quella forma espressiva con la sistematicità appresa attraverso la scrittura perché mi sento più a mio agio con le immagini e i suoni anziché con le parole. Con «più a mio agio» non intendo dire che credo di essere “più capace” di esprimermi attraverso il mezzo audiovisivo (sono una dilettante tanto in quel campo quanto in quello della scrittura), ma solo che quel mezzo mi sembra più adatto per perseguire il mio desiderio più profondo: dare all’immagine statica di mia madre un’impressione di movimento. Ho preso piena coscienza di questo bisogno irrealistico e ossessivo tempo dopo la pubblicazione e la cosa mi sembra, purtroppo, dimostrare la sostanziale irrilevanza della mia scrittura rispetto all’elaborazione del mio lutto.

 

Il tuo sembra un libro contro se stesso, che denuncia continuamente l’incapacità del suo farsi e di compiersi, ma anche, da parte tua, un timore costante di venir giudicata, di essere messa sotto accusa per quanto stai raccontando e – ancora più insistentemente, forse – per il modo in cui lo stai facendo. Non solo per il contenuto, quindi, ma anche per la forma, lo stile. Mi pare che questa ambivalenza, chiamiamola così, sia un tratto ricorrente in molte scritture della perdita, specie quelle in prosa. Tu come te la spieghi? E, soprattutto, come l’hai risolta? Che tono adottare per dire di esperienze simili?

Non credo che avrei potuto fare altrimenti perché la scrittura del libro per me è stata un processo nel senso propriamente giuridico del termine. Dentro a questo processo, che doveva sancire le responsabilità di una memoria persa, io ero l’accusa, la difesa e, inevitabilmente, uno degli imputati. Anch’io, come gli altri, ho “occultato” l’esistenza di mia madre, tanto da rimuovere ogni suo ricordo. Nel libro ho esposto tutte le attenuanti connesse al mio trauma infantile e per farlo ho dovuto addossare colpe anche gravi alle persone che ho più amato, non solo a una generica comunità o alla società dell’epoca. Se dovessi giocare a stroncare il mio libro, lo definirei palesemente acerbo; direi che l’autrice non si è nemmeno sforzata di immaginare un lettore che non fosse un succedaneo del padre, un co-imputato e un giudice che le è troppo vicino per permetterle di mettere a fuoco gli eventi che racconta. Mio padre è morto quattro mesi prima della pubblicazione senza aver mai letto mezza pagina di ciò che stavo scrivendo. Per questa ragione mi capita di pensare al mio libro come a un organismo che ha un centro, la scomparsa di mia madre, della protagonista immaginata, e dei confini, che sono la scomparsa di mio padre, il lettore immaginato. È qualcosa che mi provoca un’angoscia profonda, per questo non possiedo nessuna copia del libro.
Rispetto al tono, posso solo dire che personalmente non riesco a pensare a una scrittura della perdita se non come presa in carico di una responsabilità e di un rischio, qualcosa di connesso alla concezione giuridica e religiosa della testimonianza. C’è una bellissima frase di Stanley Cavell a cui ho pensato spesso durante la scrittura: «È riconoscendo questo abbandono alle mie parole, come a epitaffi irrealizzabili, che presagiscono l’addio della morte, che conosco la mia voce, riconosco le mie parole (non diverse dalle tue) come mie».

 

Ancora sulla stessa questione di prima, ma più a fondo. Un altro timore che emerge chiaro e costante, nello svolgersi del memoir, è quello legato all’ostentazione del dolore. Scrivi questo, infatti: «La letteratura non-fiction che funziona oggi è piena di memorie indiscutibili. I traumi sono eventi a cui il lettore può accedere come entrerebbe in un padiglione della Biennale di arte o di architettura; basta aver pagato il biglietto ed essere pronti a godersi l’esperienza estetica o intellettuale». Come evitare di assecondare il desiderio, pur sempre legittimo, di far funzionare fin troppo bene il proprio libro? E poi: quali sono secondo te gli scrittori che hanno raccontato i propri traumi più onestamente, non facendone biennale? Nel testo fai i nomi di Faulkner e di Christa Wolf, perché proprio loro? Ce ne sono stati degli altri?

Come ho detto sopra, nel libro mi preoccupo molto di esporre nel dettaglio le mie attenuanti, ma al contempo avevo la necessità di tenere fermo un punto anche a costo di risultare pedante: impedire che il racconto della mia infanzia divenisse il racconto di un’innocenza. Mi pare che l’infanzia come luogo letterario e, prima ancora, come figura dello spirito vada spesso incontro a questo rischio, cioè di diventare l’idealizzazione svilente di un tempo senza responsabilità. A me pare più interessante e importante rappresentare la crudeltà dell’infanzia perché lì si nasconde la sua vera potenza. Per questo ho sempre adorato i bambini dei racconti di Flannery O’Connor; la loro violenza mi pone di fronte all’origine oscura del sé, alla creazione drammatica di un destino, mi avvicina al mistero della mia stessa esperienza infantile, confusa e rabbiosa.
Nella letteratura che amo di più c’è una tensione costante e profonda tra la dimensione estetica e quella morale segnata dal problema della colpa e da una sorta di violenza tematica e formale. Flannery O’Connor e Graham Greene (non a caso, suppongo, l’altro grande autore cattolico di lingua inglese del Novecento) e soprattutto William Faulkner. L’urlo e il furore, Mentre morivo e Un letto di tenebre di William Styron – un romanzo che nasce e si sviluppa proprio in un confronto aperto con l’eredità faulkneriana – sono senza dubbio i tre libri sulla morte e il lutto che hanno segnato di più il mio immaginario letterario. In tutte e tre le opere l’esperienza della morte propria o altrui mette in moto meccanismi di sacrificio, di resistenza o di rifiuto oscuri e contraddittori. Parafrasando Flannery O’Connor, per me la morte è dei violenti.

 

A proposito di traumi. Mi sembra singolare il fatto che, quando ripercorri gli anni della tua adolescenza, per ricostruire la storia del tuo lutto e della tua rimozione, ripensi soprattutto alle tragedie, viste in tv, che hanno segnato i primi del Duemila: l’attacco alle Torri Gemelle (peraltro rievocato anche nel tuo più recente racconto Una specie di elogio funebre), lo spettro del Millennium Bug, la strage di Beslan…
E dunque una provocazione: ciò che vale la pena di essere raccontato, di una vita così come della Storia, è solo il trauma? Che cosa può restare, se qualcosa poi resta, oltre a questo?

La tv ha plasmato la mia sensibilità. Gli anni confusi della morte di mia madre, da quando devo averla percepita attraverso i segni sul suo corpo fino a quando ho compreso che non l’avrei rivista, racchiudono un solo ricordo perfettamente nitido: un piccolo televisore collocato nella mia cameretta che mi proietta addosso un’infinità di luci elettroniche, mentre attorno a me c’è il buio ed è un buio che non mi spaventa se riesco a stare con lo sguardo ben fisso sullo schermo, se mi faccio magnetizzare da quella superficie che spara immagini. Non credo minimamente che la sola cosa che vale la pena raccontare, sia di una vita sia della Storia,  sia il trauma, credo invece che il trauma della mia vita cercasse disperatamente un confronto con i traumi della Storia, in modo specifico nelle immagini televisive di questi traumi perché la televisione ha avuto l’enorme potere di rassicurarmi nell’infanzia e quando, nella prima adolescenza, ho realizzato che poteva anche emanare continue immagini di morte, di paure e violenze, il mio rapporto col medium è diventato quasi ossessivo. Blue, il film di Derek Jarman sul ricovero per le complicazioni legate all’AIDS che lo porteranno alla morte, si apre con il racconto del regista che, assieme a qualche amico, ascolta un notiziario sulla guerra in Bosnia e dice una cosa che, a quanto ho capito, si ispira a qualcosa scritto da Emerson o Thoreau: «Che bisogno abbiamo di così tante notizie dall’estero mentre tutto ciò che riguarda la vita o la morte sta accadendo e operando in me?» Lo dice come se fosse una formula magica per rivendicare l’individualità del proprio dolore, ma poi le notizie sull’assedio di Sarajevo lo raggiungono dentro i confini dell’ospedale e diventano un’eco del suo tormento e del suo isolamento.

 

A un certo punto, nel corso del racconto, il tuo sguardo si allarga. Prima affermi che il tuo lutto è rimasto sospeso e irrisolto anche per colpa di chi, magari in buona fede e per vergogna sociale, ti ha nascosto per molto tempo la vera ragione della scomparsa di tua madre. E poi che è occorsa, nel tuo caso così come in quello degli orfani a causa dell’AIDS, una doppia rimozione. Da un lato, cioè, non è stata data la possibilità di esprimere il proprio cordoglio ai figli di chi aveva contratto una malattia su cui gravava, e grava ancora, uno stigma pesantissimo; dall’altro, invece, nell’immaginario (occidentale) di fine ventesimo secolo, si è pensato ai sieropositivi soltanto come a delle persone “devianti”, poste ai bordi di qualsiasi comunità, non tenendo conto di quanto invece il virus, proprio come l’eroina, si fosse diffuso a tutti i livelli sociali, e come le persone malate, buona parte di loro, conducessero invece una vita “normale”, per usare una parola di poco senso. Tra queste persone, tua madre. Da un simile punto di vista, il tuo memoir sembra quasi conservare un intento storico, di documento, e quindi, in un certo senso, anche politico. Sottende cioè la volontà di ridare legittimità a un tipo di lutto, personale e collettivo, a cui non è stato concesso spazio e visibilità. È così? E per rimanere in tema di politica e di storia: anche per l’uso delle foto, La paura ferisce come un coltello arrugginito mi ha fatto ripensare non poco ad Amianto di Alberto Prunetti e a Piccola città di Vanessa Roghi. Ti è capitato di leggerli?

Desideravo fortemente che il libro restituisse una mia volontà documentaria e politica. C’è stato un lavoro sulle fonti testimoniali e sull’archivio che è, nel migliore dei casi, approssimativo, specie se confrontato con i lavori di Prunetti e Roghi dove quella dimensione interagisce perfettamente con le dinamiche emotive della scrittura. Avrei voluto fare di più, ma al solito sbandiero le mie attenuanti: io non ho ricordi di mia madre. Setacciare archivi e interrogare testimoni mi ha messo costantemente di fronte a questa evidenza di cui continuo a sentirmi colpevole.

 

Per riprendere la domanda precedente, e per porgertene una che abbiamo fatto anche ad altri durante questa inchiesta. Che riscontro hai avuto dai lettori? Hai incontrato altri “invisibili”, altri orfani dell’AIDS, dopo la pubblicazione del tuo memoir? A questo proposito, mi pare degno di nota il fatto che tu racconti della tua conoscenza con Charlie, una ragazza francese che ha vissuto la tua stessa esperienza. Scrivi che questo incontro, benefico e liberatorio, è avvenuto grazie a un tuo post su una pagina Instagram intitolata «theaidsmemorial». Con il libro, invece, come ha funzionato? Ti sembra che alcuni dei lettori di memoir della perdita o della malattia abbiano lo stesso, umanissimo, bisogno di ritrovare negli scrittori dei propri simili, di fare comunità? E questi memoir, poi, ci riescono? Alle corte, e con una domanda difficile: che cosa chiediamo o dovremmo chiedere ai libri incentrati su traumi davvero vissuti? Tu che cosa gli chiedi?

È una domanda che mi è stata posta spesso e la risposta ha sempre deluso i miei interlocutori. Charlie era e rimane l’unica orfana di AIDS con cui ho costruito un dialogo e le sarò grata in eterno per questo. Mi hanno contattato alcuni parenti, amici e conoscenti delle vittime di quella strage di trentenni, ma solo due figli di persone sieropositive, che però hanno perso i genitori in un’età relativamente adulta, molto dopo il picco di mortalità dei primi anni Novanta. La cosa che mi è dispiaciuta di più è che non sono riuscita a entrare in contatto con quegli amici d’infanzia, a cui faccio brevemente cenno nel libro, che hanno vissuto una storia simile alla mia o persino più crudele. Magari, molto semplicemente, la notizia del libro non è mai arrivata alle loro orecchie. In fondo, il mio non è proprio un successo letterario e forse loro vivono vite serene lontano dal passato, dal nostro paesino d’origine. Va detto però che parliamo di un paese di soli 14 mila abitanti, di un contesto di frequentazioni comuni e di una comunità in cui le voci si espandono alla velocità della luce… Mi dico che non devo farne un’ossessione, anche nel caso in cui fossero venuti a conoscenza del mio libro, è un loro diritto ignorarmi. Ciò nonostante per me è impossibile non pensare questa a cosa come a una prova ulteriore, che si somma al confronto mancato con mio padre, del fatto che il mio “atto letterario” è stato un colpo a vuoto, almeno nell’ottica di un’auto-cura.
Odio mettermi nella posizione della corte, ma se proprio devo farlo chiederei ai libri incentrati su traumi vissuti la stessa cosa che William Faulkner chiedeva ai poeti e agli scrittori nella conclusione nel suo famosissimo discorso per l’assegnazione del Nobel: aiutare l’uomo a resistere e prevalere. Il solo complimento che accetto con piacere, cioè senza un senso di vergogna o totale inadeguatezza, è quando mi si dice che sono stata coraggiosa perché è la prima e forse la sola cosa che mi premeva dimostrare agli altri o a me stessa: finché si esercita una qualche forma di coraggio, la paura può non vincere, anche se questo ci impegna in una lotta potenzialmente infinita che non sancirà mai vincitori e vinti.

 

C’è una notazione volutamente spietata nel tuo libro e riguarda la «scala del lutto», come la definisci tu. Eccola: «La gente ama dire che non c’è nemmeno un termine per definire un padre o una madre che hanno perso il figlio: non sono orfani, non sono vedovi, sono troppo addolorati per avere un nome comune come etichetta per distinguerli dagli altri perché il loro dolore ha qualcosa di innaturale e di inarrivabile: i giovani dovrebbero naturalmente morire dopo i loro genitori, lo sanno tutti. C’è del vero se pensiamo alla nostra società, che ha un bassissimo tasso di mortalità neonatale e una crescita demografica nulla, ma in un mondo diverso, un mondo in cui la maggioranza delle donne partorisce di media cinque o sei bambini, un genitore che perde un figlio è meno preoccupante di sei figli che perdono un genitore. So che è una mia fissazione un po’ lugubre, ma il punto per me è che anche la scala del lutto e del dolore è stabilita da quegli adulti di cui io non mi sento parte, da cinquantenni che, logicamente, preferirebbero veder crepare un loro genitore in casa di riposo che un figlio in un incidente stradale». Al di là della condivisibilità logica e storiografica di questa affermazione, quello che qui mi interessa è altro. L’esperienza del lutto ha sempre un che di paradossale. Da un lato pensiamo essa sia unica, irripetibile, e che la scossa del nostro dolore conservi sempre un grado maggiore rispetto alle altre. Dall’altro lato, però, non possiamo non fare a meno di constatare come le manifestazioni di questo dolore – non le conseguenze oggettive, le manifestazioni – si assomiglino: è per questo, appunto, che cerchiamo i nostri simili, che leggiamo di autori che hanno vissuto le nostre medesime esperienze. Tu che ne pensi di questa paradossalità?

Ho pensato a lungo al lutto come a un fatto privato e incomunicabile, ma poi ho avuto la fortuna, durante gli studi, di incontrare il pensiero di filosofi che hanno radicalmente modificato il mio approccio alla questione. Lévinas e, soprattutto, Ricoeur mi hanno permesso di realizzare che il lutto non è una questione individuale o, almeno, non dovrebbe esserlo. Il lutto è un’esperienza relazionale che impegna o dovrebbe impegnare la piccola o grande rete di prossimità del defunto nell’esercizio della memoria e della compassione. C’è una cultura antica che ci impone di dare cura a coloro che soffrono da più vicino la perdita e questa cultura si è articolata in dei riti che per me hanno un valore curativo fondamentale. Ad esempio, per quanto possa suonare macabro, io sono una convinta sostenitrice delle camere ardenti e delle veglie in presenza della salma. Ho il terrore che l’ospedalizzazione della morte possa un po’ alla volta privarci del confronto con il corpo senza vita di colui o colei che abbiamo amato. Quella visione è l’innesco vitale e violento di un processo che non dovrebbe automaticamente essere traumatico, cioè straordinario, perché morire e nascere sono costanti esistenziali. Viviamo in un’epoca in cui quasi ogni esperienza della sofferenza viene sussunta nella categoria patologizzante del trauma e questo mi mette a disagio perché ci rende una massa vulnerabile informe.

 

Infine, una domanda che rivolgiamo a tutti gli intervistati. Il nome di questa rubrica è un verso di Pagliarani. Lo vorremmo usare come un termometro, provare a capire davvero «quanto di morte noi circonda», poiché i discorsi che circondano la morte sono, in questo senso, piuttosto contrastanti: da una parte ci viene detto che la morte è, per noi contemporanei d’Occidente, il rimosso per antonomasia, ciò che non vogliamo vedere e occultiamo costantemente; dall’altra, invece, che la morte è sovraesposta e che è (divenuta?) la vera e sola protagonista delle nostre storie. Che pensi al riguardo? Quanto di morte noi circonda?

Non credo sia possibile né necessario sciogliere questa contraddizione. Anzi, mi pare più doveroso approfondirla. In termini di pratiche culturali e sociali, stiamo evidentemente rimuovendo il pensiero della morte dall’esperienza del reale e dalla nostra dimensione affettiva concreta. Penso al Covid, meglio, penso ai bollettini numerici quotidiani e alle immagini del convoglio militare che di notte ha trasportato oltre sessanta cadaveri da Bergamo ai forni crematori dell’Emilia-Romagna come alla manifestazione più potente di un processo che, dal mio punto di vista, non serve a rimuovere, ma a sedare il significato della morte. L’invecchiamento della popolazione è andato di pari passo con l’emarginazione dei soggetti più esposti alla morte. Se gli ospedali e le case di riposo, ovvero gli spazi vissuti in cui la vita termina, funzionano come schermature della morte, la nostra appartenenza alla mortalità dovrà cercare altri spazi, soprattutto virtuali, in cui poter esercitare il proprio potere. Il problema, mi sembra, è che la nostra sensibilità non muta con la stessa rapidità degli spazi comunicativi e degli immaginari mediatici. In questo scarto, in cui la morte accade sempre a distanza, si diffonde un’angoscia che la scrittura e l’arte in genere dovrebbero combattere con orgoglio.

 

 

 

*Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.


This work was supported from OP JAC Project “MSCA Fellowships at Palacký University II.” CZ.02.01.01/00/22_010/0006945, run at Palacky University in Olomouc, Czech Republic.

Giulia Scomazzon