Quanto di morte noi circonda ⥀ Intervista a Lanfranco Caminiti
Quanto di morte noi circonda, la rubrica-inchiesta sull’immaginario contemporaneo del lutto curata da Luca Chiurchiù e David Watkins, incontra oggi Lanfranco Caminiti. Tutti i dialoghi finora pubblicati possono essere letti qui
«Quanto di morte noi circonda» è un verso di Elio Pagliarani. Ora, è anche il titolo di un’inchiesta di Argo sull’immaginario contemporaneo del lutto.
La morte è il rimosso del nostro tempo.
La morte è l’assillo del nostro pensiero e delle nostre scritture.
Queste due affermazioni, palesemente contraddittorie, coesistono nei discorsi dei nostri giorni, sgomitano alle soglie delle nostre impressioni e delle nostre incertezze. Abbiamo così deciso di porre alcune domande a scrittrici e scrittori che – venendo da vari ambiti e maneggiando vari strumenti – hanno affrontato la questione del lutto e della perdita, del rapporto con la morte e con la malattia, in un modo che ci interroga e ci costringe, di volta in volta, a prendere posizione.
È per vederci un po’ più chiaro. È per misurarci la febbre.
(L.C. e D.W.)
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Lanfranco Caminiti è giornalista, saggista e narratore. È stato tra i fondatori della casa editrice DeriveApprodi. Tra il 2003 e il 2004 è stato direttore della rivista «Accattone. cronache romane» e, tra il 2006 e il 2007, de «il maleppeggio. storie di lavori». Tra i suoi libri, teniamo particolarmente a segnalare: Gli Autonomi I, II, III (curati insieme a Sergio Bianchi, DeriveApprodi) e Senza (Minimum Fax).
Lanfranco Caminiti, grazie davvero per aver accettato la nostra intervista. Ci tenevamo molto a dialogare con te perché nel tuo libro Senza (Minimum Fax, 2021) ti sei confrontato con lucidità con l’esperienza del lutto e con le conseguenze del dolore. In maniera altrettanto onesta ed equilibrata ti sei interrogato sulla parola che racconta questa esperienza, sui suoi limiti e le sue trappole, sulle sue potenzialità. E dunque, per cominciare: che cosa può la parola in questi casi? Che cosa ha potuto nel tuo caso?
Scrivere è stato per me il modo di parlare, il testo ha sostituito la voce. Non riuscivo in alcun modo a parlare di quello che provavo, a pronunciarne parola, a dire del mio senso di smarrimento, di solitudine – in verità non ci provavo neanche. Il mio linguaggio si era ridotto ai minimi termini – la sopravvivenza linguistica: parli con i gesti, con gli occhi, annuisci o fai di no con la testa, come uno straniero in un luogo di cui non capisci nulla di quel che si dice intorno, sei silente per obbligo, per il senso inutile della parola. Erano gli altri che mi raccontavano del loro smarrimento per la perdita di Paola, la ricordavano a mezzo di episodi, frammenti di vita – io assentivo, condividevo. Solo una volta avevo provato a dire a un’amica comune quello che sentivo, cosa significava la perdita di senso della mia vita; ricordo ancora quel che le dissi: Avevamo un gatto che acchiappava le lucertole nell’orto, le lasciava su un gradino delle scale con cui vi si accedeva, e poi ci aspettava; io sono come quel gatto che portava la lucertola acchiappata nell’orto alla sua padrona, e a chi porterò adesso la lucertola? Poi, ero scoppiato in un pianto irrefrenabile – in un posto pubblico, un giardinetto. Non erano le mie lacrime a preoccuparmi – piangevo già da solo, a casa – ma il senso di imbarazzo e difficoltà in cui mettevo, avrei potuto mettere chiunque mi avesse ascoltato: spingerlo a gesti di consolazione, a dire cose di circostanza. Non mi serviva questo. I limiti della parola – teniamo qui una distinzione tra parola e testo – erano la sua provvisorietà, la sua volatilità. La sua immediatezza. La sua circostanza. La sua delicatezza. Questo mi frenava, questo mi angosciava. Scrivere un testo era la mediazione possibile sulla parola, era dare forma alla parola. Renderla intellegibile. Che era dare forma al mio dolore, al mio lutto. Renderlo intellegibile. Tirarlo fuori da dentro, metterlo davanti a me, parlarci, interrogarlo. Una mediazione non solo per me ma anche per chi mi avrebbe letto, cioè ascoltato. Non sarei stato delicato con la morte. Era un lavoro solitario, in qualche modo ancora silente, ed era un contratto, un impegno, un patto che facevo con me stesso e con Paola – era quell’altra lucertola, ancora, che le portavo.
Sempre sulla parola e i suoi limiti, sempre sulla possibilità di comunicare il lutto e il dolore. A un certo punto scrivi: «La morte esiste. Sento più affetto da persone che hanno perduto un loro caro, chi un marito, chi un fratello, chi un padre. Per quanto ogni lutto e ogni dolore possano essere diversi, e lo sono, e per quanto si possa o meno avere condiviso qualcosa nel tempo, c’è una condizione che ci fa comuni: l’assenza. Noi siamo gli Addolorati». Ci chiediamo e ti chiediamo: come restituire l’assenza ai non Addolorati? O per formularla altrimenti: quando scrivevi della tua perdita, pensavi a un lettore in particolare?
Il mio intento era restituire una presenza, qualcosa che c’era stata e non c’era più ma non per questo era fugace. Volevo che il segno tracciato da Paola nel mondo non fosse già subito coperto dalla sabbia, non fosse cenere dispersa nel mare – quello era un gesto privatissimo, una nostra complicità. Volevo che i fotogrammi di vita che tutti quelli che l’avevano conosciuta possedevano trovassero un album – qualcosa che in qualche modo restituisse una cornice, un filo che cucisse le cose, un montaggio. È una cosa che ho fatto anche letteralmente: in camera da letto ho disposto sulle pareti una trentina di fotografie di momenti diversi della nostra vita insieme e di Paola da sola, con la madre, con il figlio, con alcuni amici; è un racconto, una storia. Una storia che continuo a raccontarmi. Il libro è invece la stessa storia raccontata ad altri, più “spiegata”. L’enorme vita minima di Paola; enorme e minima, perché è zeppa di slanci e cadute ma è una vita “generazionale”, quella che ha vissuto buona parte di chi abbia attraversato il Sessantotto e le sue diramazioni. La nostra vita – niente di speciale, perciò, direi, ma qualcosa che non abbiamo mai smesso di coltivare. Quello che a me importava non era raccontare l’irredimibilità del mio lutto, ma attraverso il mio lutto il vuoto incolmabile, l’assenza, che si era creato nella vita comune. Se un lettore a cui pensare c’era, perciò, era Paola: non solo perché, sedimentata per anni, avevo l’abitudine di farle leggere le cose diverse che scrivevo – e conoscevo bene il suo occhio attento e scrupoloso – ma perché l’andavo consegnando ad altri: Pensi che vada bene così? Non sono troppo ellittico, e qui troppo diretto? Sto smozzicando troppo le frasi? Dovrei mettere più dettagli qui o suona meglio lasciare la suggestione?
Ricollegandoci in parte alla domanda di prima. Sei ben consapevole che il tuo libro è a tutti gli effetti un memoir, lo scrivi anche. E noi siamo ben consapevoli che «nichel» è la collana di narrativa italiana della Minimum Fax, e che magari esistono ragioni commerciali che la critica della ragion letteraria non conosce, ma ugualmente ti domandiamo: che effetto ti ha fatto vedere la parola «romanzo» in copertina? E, più a fondo, perché non hai scelto la finzione per trasfigurare il tuo dolore?
Ah, ma io non sono mica uno scrittore. La prima volta che scrissi un racconto era il 1983, ero in carcere a Rebibbia, si intitolava Orecchio magico, e lo mandai a una rivista di allora, «Linea d’ombra», che lo pubblicò (poi, fu ripreso in traduzione tedesca in un piccolo libro con altri racconti, Die fixe Idee). Naturalmente, era una storia di carcere. Linea d’ombra in un articolo successivo, mi pare di Luigi Manconi, mi promosse tra i «giovani scrittori italiani» (avevo trentaquattro anni), con altri nomi che poi in effetti fecero quel percorso. Troppa grazia. L’anno dopo, mi pare, scrissi un altro racconto, Antipodi, e lo pubblicò «il manifesto». Era sempre una storia di carcere. Io vengo da una storia di militanza politica: ho sempre scritto saggi, documenti, volantini, fogli, anche se ho sempre amato la letteratura. Negli anni, ho affinato e consolidato un mio metodo: al mattino – mi alzo molto presto, da sempre, da ragazzo – leggo saggi, e a sera, a letto, leggo narrativa. Anche in carcere facevo così. La letteratura era un mondo che nutriva la mia immaginazione, come lo era il cinema, ma non era la lingua che praticavo e scrivevo, come non lo era il cinema. Credo che una svolta, una svolta linguistica, sia stata quando ho inventato, con altri amici, la rivista mensile «accattone – cronache romane»: in redazione c’erano Elena Stancanelli, Tommaso Giartosio, Giosuè Calaciura, Emanuele Trevi, Christian Raimo, Nicola Lagioia, Carola Susani, il compianto Rocco Carbone e negli incontri c’era ancora più gente, e citarli sarebbe lungo. Scrissi un solo “pezzo” – e non era granché. Si faceva questo: si raccoglievano durante il mese tutte le notizie di cronache romane e poi discutevamo insieme quali potessero essere una traccia perché diventassero un racconto, un’altra storia da quella che riportavano le agenzie, e ciascuno sceglieva quella che sentiva più “sua”. Limitai il mio lavoro a un compito di organizzazione: gli altri erano davvero scrittori, volevano davvero diventare scrittori. Vedevo come lavoravano, come cresceva la loro lingua, come si abbarbicava alle cose, ai personaggi. Durò un anno e mezzo, con buone soddisfazioni. Poi, inventai un’altra rivista, «il maleppeggio», che è un attrezzo di lavoro per i sampietrini romani, e con una nutrita parte di quella redazione ci lanciammo in quest’altra avventura, fatta di reportage sulle condizioni di lavoro, nel Lazio, ma non solo (arrivarono contributi di Giorgio Falco, Michela Murgia, che allora avevano spalancato lo sguardo e la lingua letteraria sul lavoro precario), anche in Europa. Finita anche quest’esperienza, durò un anno circa, divenni giornalista pubblicista e cominciai a collaborare stabilmente: mi affidavano storie lunghe da ricostruire – che so, il discorso di Kennedy Ich bin ein Berliner o la marcia di Selma di Martin Luther King – e così potevo documentarmi con rigore e poi trovare un tono per raccontare, mettevo insieme la mattina e la sera, insomma. Non ho mai smesso di scrivere piccoli saggi – curavo un mio blog – che prendevano spunto dall’attualità, e anche qui cercavo di sperimentare una mia propria scrittura, e ho iniziato anche a scrivere brevi storie, facendone delle lettere stampate che lasciavo nei bar del paese dove siamo venuti a vivere dopo Roma, camuffandone ironicamente episodi e personaggi; per un periodo ho lavorato anche per il «Gambero rosso». Insomma, io sono uno scrivente. Non avrei mai saputo o potuto scrivere una fiction di trasfigurazione. Credo che il “romanzo” sia talmente esploso che ci può stare dentro anche un memoir – forse il lavoro di Annie Ernaux è il più indicativo in questo senso. D’altronde, un bellissimo memoir sul compagno perduto, l’attore Gerard Philipe, di Anne Philipe (Le temps d’un soupir, Breve come un sospiro), che racconta la malattia, la felicità e il dolore, fu considerato un “romanzo”; i francesi dicono, più propriamente, un récit.
Nel tuo libro, ma anche in un tuo articolo su «Domani», hai fatto riferimento a un canone d’amore: l’insieme dei memoir in cui gli autori hanno raccontato della perdita del loro partner (Didion, Oates, Barnes, Savater, Bayley, de Beauvoir). In che modo (estetico, stilistico ma anche concreto) la lettura di questi testi ti ha aiutato, se ti ha aiutato? E più in generale: la letteratura aiuta? Sebbene tu vi abbia fatto comunque ricorso, da queste tue parole non sembra: «Leggere, è la prima cosa che smetti di fare. Voglio dire, leggere romanzi, storie, racconti. Letteratura, insomma. La grande narrativa. Non parliamo poi della saggistica – quella, neanche le copertine ti soffermi a guardare. E le informazioni, la cronaca del mondo non ti interessa più. Come se il tuo cervello, il tuo cuore si rifiutassero di farsi trascinare in sentimenti, in emozioni, in descrizioni. Nelle tonalità emotive, nello stile».
Ci siamo inoltre accorti che, in questo canone d’amore e del dolore, non è presente nessun autore italiano, se si eccettua un riferimento a D’Arrigo, che però ha scritto romanzi (e che romanzi). Come mai? L’hai notato anche tu?
Io vivo nel golfo dell’aria, quello dell’Horcynus Orca di D’Arrigo, che sta tra Acqualatroni in Sicilia e Nicotera in Calabria, la parte dove lo Stretto inizia a allargarsi nel Tirreno, dopo essere passato tra Scilla e Faro, tra Bagnara e Spartà. È, era, la terra dei pescatori delle due sponde – non solo nella caccia al pescespada. Terra di scambio, di comunità. È un orizzonte chiuso. Benché si viva sul mare noi non abbiamo uno sguardo lontano. Sappiamo che esiste un luogo dove l’orizzonte è solo acqua, è mari rossu, mare grosso, infinito, ma ce lo raccontiamo come una fata morgana. La realtà nostra è che se figgi lo sguardo un po’ sopra l’acqua, vedi terra. La prima volta che ho visto l’Atlantico sono rimasto a bocca aperta. E poi sono voluto andare a vedere la Finis terrae – davanti c’era solo acqua, acqua per sempre. Uno straniamento: come era possibile quella cosa? Allora, era vero. Le parole di Caitanello Cambrìa, pescatore del golfo dell’aria, per l’Acitana, sono il luogo della mia lingua del dolore e dell’amore ma anche dell’odio contro la morte, contro Nasodicane. La lunga agonia dell’orca che muore morendo e vive mentre muore era stato il mio strazio. Io ho ripreso a leggere quando ho sottoscritto il mio patto e ho deciso di onorarlo. Ma dovevo imparare a dare forma alle parole che urgevano dentro, e non potevo farlo che riattraversando i sentimenti e gli esperimenti di chi aveva vissuto la mia stessa esperienza ed era stato capace di raccontarla. Ho ancora decine e decine di foglietti dove appuntavo pensieri a mano a mano che leggevo – è stato il mio corso autodidatta di scrittura. Ho letto tantissimi libri – aggiungerei solo a quelli citati: La lettera a D di André Gorz, Il diario di un dolore di C. S. Lewis e tra gli italiani nomino qui solo Angelo Ferracuti, con La metà del cielo, e Pierluigi Battista con La fine del giorno. Tantissimi libri, tantissimi foglietti. Sono stati i miei compagni, i miei amici, questi libri, per mesi, per anni.
Una domanda personale ancora intorno allo stesso argomento, ma dalla prospettiva opposta. Hai ricevuto lettere o messaggi dai lettori? Hai conosciuto insomma altri Addolorati che nel tuo libro hanno ritrovato parte della loro esperienza? Vengono in mente le Lettere dal mondo che Isabel Allende ha raccolto dopo la pubblicazione di Paula, memoir sul coma e sulla morte di sua figlia…
Ho ricevuto oltre un centinaio di messaggi, in forma privata o anche con lunghi commenti sulla mia pagina FB, o mail. Li ho raccolti tutti insieme – ma non ho mai saputo bene cosa farne. Ancora adesso. Ogni tanto, li rileggo. Naturalmente ho risposto a tutti, uno per uno. Con attenzione, con dovizia, direi. Molti di questi messaggi privati erano proprio di persone che avevano vissuto la mia stessa esperienza, la perdita del marito o della moglie, e che si ritrovavano nelle mie parole, nel racconto della mia vedovanza. Non erano, per così dire, recensioni, il fatto “letterario” era oltrepassato in una comunicazione più emotiva, intensa – un ritrovarsi. Molti mi ringraziavano: uno mi ha scritto che non parlava più dalla morte della moglie e che il figlio, che mi conosceva per le storie della militanza politica e aveva comprato il libro per curiosità, glielo aveva portato e lui non solo si era ritrovato ma aveva cominciato a parlarne, aveva ricominciato a parlare. È noto che esistano veri e propri luoghi di incontro per vedovi dove si prova a elaborare insieme il proprio dolore – credo di avere anch’io accarezzato una volta la possibilità di iscrivermi. Però, poi, un certo malinteso pudore, forse, ti trattiene, oltre la considerazione che ognuno ha il suo proprio lutto e il proprio modo di coltivarlo e ti sembra di “spubblicare”, direbbe Caitanello, le tue cose, le cose “di casa”. Il mio piccolo libro ha funzionato come incontro, era il mio intervento: Ciao, sono Lanfranco – e mi hanno risposto: Ciao, Lanfranco.
Ora proviamo ad allargare lo sguardo, se ne hai voglia. In uno dei primi passaggi del libro, sulla scorta delle riflessioni di un tuo amico psicologo, accenni al fatto che non vi è stata ancora un’elaborazione sociale della figura del vedovo: una notazione parecchio rilevante. È come se il lutto duraturo per la perdita della persona amata, nel nostro immaginario, potesse appartenere esclusivamente alla sfera del femminile, e forse per due questioni, diciamo così, di genere. Prima: il dolore che non passa delle vedove, anzi il dolore che per loro non deve passare, nasconde in fondo la solita richiesta, rivolta alle sole donne e non poi così inconscia, di una fedeltà e di una purezza tutte astratte; seconda: il dolore che non passa femminilizza l’uomo, lo rende indifeso, esposto, devirilizzato. Qui le tue parole: «Lori dice che il vedovo è una condizione incompiuta, un momento di vuoto, di assenza, qualcosa che non è ammessa. Qualcosa che negli altri crea dolore, rimozione, fastidio quasi. Forse sarà un retaggio della biologia, della nostra differenza biologica, o forse dell’accumulazione dei ruoli. Una vedova ha un senso, e uno scopo. È una cosa compiuta, un atto compiuto della natura. Un vedovo è un rottame, una cosa guasta. Va sistemata, accudita, rimessa in funzione, prima o poi. Presto. Se la lasci lì, si ingrippa, arrugginisce, muore. È destinata così. Io sono un vedovo, che altro posso dire?». Ecco: te la senti di dirci altro?
Ci fu un dibattito nella società ateniese sulla “sorte” destinata alle vedove, se potessero avere diritti, in che misura, intendo anche diritti proprietari, se potesse essere loro restituita una libertà di scelta sul proprio destino. Non ricordo chi era fieramente contrario al fatto che le vedove si potessero risposare – si parla di un tempo in cui la vita media era abbastanza corta e quindi della possibilità che si diventasse vedove ancora giovani. Un nuovo matrimonio avrebbe violato la dignità del precedente, si disse. Come potesse essere una offesa per l’uomo, il marito, sfortunatamente morto, e la sua gens. Si può leggere qui come la traslazione “sociale” di un sentimento “filiale”: spesso sono proprio i figli che trovano inopportuno che la madre si risposi – una sorta di egoismo dell’affetto, che sembra sempre indivisibile e non moltiplicabile. Per fortuna, prevalse invece il buon senso e forse anche il bisogno di regolare gli “interessi” – vedove di buona famiglia e di proprie ricchezze potevano ancora essere un buon “partito” da sposare, per emergere. Ma in molte società, anche mediterranee, le cose andavano diversamente. Questa “sacralità” della donna-vedova è in qualche modo rimasta in società dalle economie lente e familiari: nell’evidente disastro provocato dalla morte del capofamiglia, se i figli vanno subito a lavorare, la madre-vedova ha il compito di accudirli, preparare il cibo, lavare le loro biancherie, stirare le loro camicie, custodire i soldi che guadagnano; un vero e proprio lavoro di cura, di badanza. Il nucleo familiare rimane insomma unito – si adegua e si organizza, sopravvive senza inserirvi elementi “esterni”, non di sangue, che possono essere sempre un fattore di disturbo, di disunità, oltre che di interesse su eventuali proprietà (la casa, un terreno, per dire). Conosco più di una situazione familiare di questo genere, in cui i figli per costruire la propria autonoma vita (fidanzarsi, sposarsi, possedere una propria casa) hanno aspettato la morte della madre – accaduta in una loro età ben adulta. Per un vedovo, non c’è uno scopo simile – non si può pensare che cucini per i figli o stiri le loro camicie, il suo ruolo sociale è diverso, ma appunto ora è monco. E non può fare le veci. Non può curare, è lui stesso che ha bisogno di cure. Per questo è “imperfetto”. In questo senso, lo smarrimento del “ruolo” diventa un infragilimento della persona. C’è un elemento curioso – non ho una statistica, solo un’impressione dovuta alla mia lettura delle “carte” che si affiggono in paese per comunicare la morte dei paesani o un loro trigesimo: in genere, se in età avanzata, i vedovi seguono in un tempo relativamente breve la morte della moglie. Non succede il contrario con la stessa frequenza. E non credo dipenda solo dalla maggiore longevità femminile, anche se, indubbiamente, c’è un elemento biologico di differenza.
Sguardo ancora più largo. Sei più volte ritornato, nei tuoi interventi sui giornali e sui social, sul lutto, o meglio sui lutti dovuti al covid. Hai affermato con forza che l’impossibilità da entrambe le parti di potersi dire le ultime parole è un trauma che riusciremo a elaborare con molta difficoltà, e non subito. A quattro anni dallo scoppio della pandemia, dei camion carichi di bare, degli addii non dati e non ricevuti, cosa ne pensi?
So che è stata istituita una «giornata delle vittime» del covid – a Brescia hanno suonato insieme le campane delle chiese e si sono deposti dei fiori al monumento delle vittime nel cimitero della città. Tutto encomiabile ma temo che dimenticheremo presto. Io non credo che “ritorneremo” alla morte, alla nostra “sorella Morte”, alla consapevolezza e al pensiero della morte, alla morte come fatto della vita collettiva, di una comunità. È difficile pensare che possa cambiare qualcosa “dopo” se non è cambiato niente “mentre”. E la realtà è che la morte non è tornata “familiare” con il contagio. Quando il contagio si è esteso, comunque la morte era “confinata”, soprattutto in Rsa e case di riposo – posti, cioè, già nascosti alla visibilità collettiva e, io direi, anche al sentimento collettivo. Sono “depositi”, confinamenti di esseri umani. Luoghi dove noi stessi – figli, familiari – abbiamo nascosto i nostri vecchi, anche perché non possiamo più curarli e badarli, perché le nostre vite, tutto il tempo delle nostre vite si è assoggettato al lavoro, alla performance produttiva, nella testa, nelle fibre dei sentimenti e non ne avanzano; e perché la sociologia e l’antropologia delle nostre famiglie è cambiata – famiglie piccole, piccolissime, denatalizzate, divorziati, single, già i bambini sono una fatica e un intralcio, figurarsi i vecchi. Al Sud resistono i nuclei familiari “con” vecchi ma solo perché è un dato economico – sono portatori di pensione, per lo più miserabili, ovvero le pensioni sociali, ma di estremo aiuto in situazioni familiari che sono per lo più miserabili. E laddove invece le condizioni economiche lo permettono ma non quelle sociali – considerando che l’assistenza statale è debolissima – li si lascia nelle loro case, facendoli badare da qualche rumena o bulgara, soluzione “privatissima” ma dello stesso tenore delle altre. La morte rimane perciò una questione individuale, personale – una “pratica” da chiudere in fretta. Mi ha molto colpito tempo fa ritrovare al suo posto di lavoro una persona che aveva perduto la mamma, anziana, un paio di giorni prima – senza neanche godere del tempo di lutto previsto per legge. Cosa farei a casa? – mi ha detto. Abbiamo “velocizzato” l’elaborazione del lutto, del dolore perché lo pensiamo come un tempo morto, non-valoriale, e pure un tempo che non ha valore d’uso in questa società, o non sappiamo più come usare, o ci spaventa usarlo in solitudine. La realtà è che abbandoniamo alla loro solitudine i nostri morti. Ho idea che in realtà il problema si ponga più per noi âgées, che immortali siamo stati, ci siamo sentiti, come ogni adolescente, e ci sentiamo ora mortalissimi: che tipo di società lasceremo? Che paese lasceremo, che paese si ritroveranno? Ma erano domande che si ponevano anche prima del contagio. Le catastrofi, e il contagio è stato una catastrofe, sono anche occasioni per interrogarsi: dopo il terremoto di Lisbona del 1755 ci fu una enorme riflessione in Europa, ne parlarono Voltaire, Rousseau, tra gli altri – unde malum? È in dio stesso, è nell’uomo? E sono anche occasioni per interrogare le istituzioni: dopo il terremoto di Messina e Reggio del 1908 qualcuno capì – nei ritardi, nelle lentezze, nelle burocrazie degli aiuti – che forse sarebbe stata necessaria creare una organizzazione ad hoc, fatta di volontari competenti e sperimentati, capace di intervenire immediatamente a prestare i primi soccorsi; era il nocciolo della Protezione civile: ci abbiamo messo più di cinquant’anni per iniziare a organizzarla. Nella catastrofe di adesso le nostre domande erano se il virus fosse scappato da un qualche laboratorio cinese e se vaccinarci potesse essere solo negli interessi di Big Pharma. Tutto molto più “secolare”. Mi verrebbe da dire che c’è un decadimento, un declino delle domande che si pone l’umanità dopo le catastrofi.
Una tra le pagine più dure e più belle del tuo libro ci ricorda che la distanza che ci separa dal morente, per quanto nostro amato e per quanto da lui amati, a un certo punto diventa incolmabile: «Viaggiavi verso qualcosa di oscuro, io no. Eppure, tu eri arrivata da qualche parte. Senza ritorno. E io con te. La morte non è un’esperienza umana – viviamo un giorno alla volta. Ma quando domani non c’è giorno, non è già morire?».
Ci diresti qualche parola in più sul senso in cui la morte non può dirsi umana?
La morte non si può esperire – non è una discesa negli abissi o una scalata sulle cime più alte e dici: Cavolo, vediamo com’è. Ho visto la morte in faccia – è un’espressione comune, dopo un incidente o una malattia, ma alla fine non ti ha ghermito, sei rimasto di qua, e non sei mai andato di là. E quando si muore davvero per un incidente, non hai mai il tempo di elaborare la tua morte, di farla entrare a fianco della tua vita. Diversa, molto diversa è invece la consapevolezza di una vita a scadenza, o ormai scaduta – quando ti viene detto che forse ti rimangono mesi, se ti va bene. Credo sia persino diverso dal condannato a morte che può sperare fino all’ultimo minuto nella telefonata del governatore, in un qualche ricorso del proprio avvocato, che fermi tutto – una cosa ancora nelle possibilità e nelle pratiche e nelle procedure umane, non un miracolo. È impossibile nell’esuberanza e nel tran-tran delle nostre vite quotidiane capire questa forma di vita, questo oltrepassamento della vita, questa lenta familiarizzazione con la morte. Con la propria morte – non con la morte degli altri, cosa che ti accade per un qualche mestiere di medicina. Non siamo esenti dalla morte nel corso della nostra vita – tutto ciò che vive, che vive o ha vissuto con noi non può che morire: un nostro animale domestico, i nostri nonni, i nostri genitori, qualche sfortunato amico, persino quella pianta o quell’albero che avevamo piantato in giardino sperando che diventassero rigogliosi. Ma tutto ciò ha a che fare ancora con la nostra umanità, con i nostri sentimenti – non con le fibre del nostro corpo, con il disfacimento del nostro corpo. È questo elemento orribile di consapevolezza, la differenza. Il nostro corpo ci lascia, non risponde ai nostri comandi, compie gesti opposti e contrari a quelli per i quali si è affinato in centinaia di migliaia di anni, per i quali i suoi organi, i suoi arti si sono progettati. Una sorta di regressione della biologia, che è una regressione dell’essere umani. Essere gettati fuori dalla vita. Dalla vita che sappiamo, dalla vita come la sappiamo. Dalla vita che avevamo vissuto, dalla vita che viene intanto vissuta dagli altri. E cos’altro è la non-più-vita se non già un avvicinarsi alla morte? Non è già un morire? Come è possibile vivere dentro la morte? Ogni giorno che passa, per l’animale morente, è uno stare con la morte. Ogni giorno che passa, per l’animale vivente, è uno stare con la vita.
Infine una domanda che rivolgiamo a tutti gli intervistati. Il nome di questa rubrica è un verso di Pagliarani. Lo vorremmo usare come un termometro, provare a capire davvero «quanto di morte noi circonda», poiché i discorsi che circondano la morte sono, in questo senso, piuttosto contrastanti: da una parte ci viene detto che la morte è, per noi contemporanei d’Occidente, il rimosso per antonomasia, ciò che non vogliamo vedere e occultiamo costantemente; dall’altra, invece, che la morte è sovraesposta e che è (divenuta?) la vera e sola protagonista delle nostre storie. Che pensi al riguardo? Quanto di morte noi circonda?
Forse sono vere entrambe le cose, perché quello che è accaduto, quello che accade è che non c’è più un discorso pubblico sulla morte, un discorso condiviso in interiore homine – in alto e in basso. E il discorso pubblico sulla morte e la rassicurazione personale erano la resurrezione: si moriva, la vita finiva ma c’era un compenso, un risarcimento. E che risarcimento: eterno. Dopo la morte, c’era ancora la vita, un’altra vita, la vera vita, una vita anche più giusta, più equa, incorporea ma beata: d’altronde, il corpo era il luogo dei nostri affanni, potevamo finalmente liberarci di quelle spoglie. Di quella fatica che era stata il vivere. Questa accoglienza della morte non credo esista più tra noi: dove ancora persiste penso sia più in una forma di esorcizzazione della morte, per colmare la paura che ti invade quando cominci a pensare, a percepire che la tua vita sta per arrivare al capolinea. Nel mondo, c’è chi ha rovesciato tutto questo in un “desiderio di morte” – penso al fondamentalismo islamico, agli shahid che muoiono convinti, pronti a volare verso il paradiso, e non vedono l’ora che tutto si compia: dare tanta morte e desiderare la propria morte si incastrano perfettamente. È una morte all’ammasso. Lo shahid, che a modo suo è un combattente, è diverso dal cecchino, che pure produce morte: il cecchino uccide in modo selettivo, un morto alla volta, e, soprattutto, deve poter vivere per continuare il suo lavoro, lo shahid invece uccide in modo casuale e riscatta quella casualità con la sua propria morte distinta, motivata, individuata. C’è la guerra asimmetrica e c’è la morte asimmetrica. È impossibile parlare di morte oggi in Occidente – un pensiero storico cioè, storicizzato – senza pensare al fatto che in realtà la tangibilità pubblica della morte ci è stata portata: penso agli attentati ai treni di pendolari di Atocha, alla metro di Londra, alla sala Bataclan a Parigi, all’aeroporto di Zaventem e alla metropolitana di Maelbeek in Belgio, al camion lanciato sulla folla riunita per la festa nazionale a Nizza, al concerto di Ariana Grande a Manchester, al camioncino che falciava sulle Ramblas a Barcellona. Siamo circondati dalla morte, siamo assediati dalla morte – penso anche alla guerra in Ucraina, penso al 7 ottobre e poi a Gaza. Ma in qualche modo proviamo ad allontanare la morte allontanando la guerra – confinandola in qualcosa che ci commuove ma non ci riguarda, non riguarda il nostro corpo, come è successo invece in tutte le guerre: il primo immediato pensiero era la coscrizione. Mandiamo aiuti umanitari, mandiamo armi, mandiamo denari, mandiamo pensieri, rafforziamo le nostre misure di sicurezza – ma non mandiamo corpi, perché il nostro corpo ne morirebbe, ne potrebbe morire. E questo non siamo più in grado di sceglierlo. Noi abbiamo sacralizzato il nostro corpo, la nostra vita, nella forma più assoluta della contemporaneità, la sua mercificazione: in una continua produzione di necessità individuali. Preso atto che non c’è resurrezione di questo unico corpo che ci è dato, ce lo teniamo come meglio possiamo. È inimmaginabile che possano esserci delle necessità collettive – una qualche forma di coscrizione – cui siamo obbligati: con il covid è successo proprio questo. Ciascuno di noi è convinto di sapere cosa sia meglio per il proprio corpo, per la propria vita, per allontanare la morte. Possiamo persino capire che si muoia casualmente in un attentato di uno shahid – ce ne disperiamo, ma è stato il biglietto della lotteria sfortunato, e a noi non capiterà.
*Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.