Quanto di morte noi circonda ⥀ Intervista a Laura Liberale
Inauguriamo oggi la seconda serie della rubrica-inchiesta Quanto di morte noi circonda, a cura di Luca Chiurchiù e David Watkins, volta a indagare l’immaginario contemporaneo del lutto. Il dialogo di oggi è con la scrittrice, tanatologa e indologa Laura Liberale
«Quanto di morte noi circonda» è un verso di Elio Pagliarani. Ora, è anche il titolo di un’inchiesta di Argo sull’immaginario contemporaneo del lutto.
La morte è il rimosso del nostro tempo.
La morte è l’assillo del nostro pensiero e delle nostre scritture.
Queste due affermazioni, palesemente contraddittorie, coesistono nei discorsi dei nostri giorni, sgomitano alle soglie delle nostre impressioni e delle nostre incertezze. Abbiamo così deciso di porre alcune domande a scrittrici e scrittori che – venendo da vari ambiti e maneggiando vari strumenti – hanno affrontato la questione del lutto e della perdita, del rapporto con la morte e con la malattia, in un modo che ci interroga e ci costringe, di volta in volta, a prendere posizione.
È per vederci un po’ più chiaro. È per misurarci la febbre.
(L.C. e D.W.)
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Laura Liberale è scrittrice, tanatologa e indologa. Tiene corsi di formazione nell’ambito filosofico e in quello delle Medical Humanities. Tra i suoi libri, teniamo particolarmente a segnalare le raccolte poetiche La disponibilità della nostra carne (Oèdipus, 2017) e Unità stratigrafiche (Arcipelago Itaca, 2020) e i romanzi Tanatoparty (Meridiano Zero, 2009) e Planctus (Meridiano Zero, 2015).
Grazie, davvero grazie Laura Liberale per aver accettato questa intervista. Non sarà semplice farti delle domande capaci di tenere assieme le tante prospettive da cui hai osservato e continui a osservare il lutto e la morte, due questioni che attraversano e informano tutti i tuoi lavori – di studiosa, di poetessa, di romanziera. Quindi se me lo permetti comincio direttamente, senza girarci troppo intorno: cosa ti ha chiamato dapprincipio al lutto e alla morte?
La chiamata è stata precoce, per indole e vicende familiari. Verosimilmente ti direi la paura, coi suoi incubi e le sue somatizzazioni.
Ecco alcuni versi dalla tua ultima raccolta, Unità stratigrafiche (Arcipelago Itaca, 2020): «forse tutti ci spegniamo accendendoci di azzurro | propagando dal ventre un’onda | un bengala di fine festa | lo suggerisce la chimica di un verme: | morire, inglobandosi nello spettro della luce». In queste parole c’è parecchio della tua poetica: la centralità del trapasso ovviamente, ma anche la ritualità, l’antispecismo, una certa luce. Insomma, tantissima vita anche quando a dominare sembra esclusivamente la morte; laddove ci aspetteremmo il buio, un blackout, qualcosa comincia invece a brillare. Nei tuoi versi la morte non è mai soltanto morte, il lutto non è mai soltanto lutto. E dunque, domanda difficile, cosa sono?
L’equivoco sta nel contrapporre morte a vita, quando – come insegnano gli hindu – morte si contrappone a nascita.
Cos’è la morte? Visto che, come indicato oggi da più parti, dell’essere coscienziale sappiamo solo quello che finora abbiamo creduto di poter sapere, e viste le ricerche particolari che, insieme ad altri, sto portando avanti, vorrei dirti che forse quella «tantissima vita», che tu vedi effondersi in una certa luce, per me non è soltanto una faccenda letteraria (il che avrebbe naturalmente delle ripercussioni notevoli anche sulla sfera del lutto).
Ecco altri tuoi versi da La disponibilità della nostra carne (Oèdipus, 2017): «All’orecchio del moribondo | perché nelle orecchie degli estirpati | sia versata la riconciliazione | all’orecchio del moribondo | hai soffiato l’inassolvibile | mormorato ciò che non può niente | sulla loro ininterrotta ascesa al ventre | aggrappati ai lacci delle tue scarpe | niente sulla loro pretesa di compimento». Rileggendoli, mi viene in mente che l’intera tua opera poetica può essere vista come un soffio mormorato alle orecchie di tutti i moribondi del mondo. E però: oltre alla poesia, che cosa si può davvero dire a chi sta morendo, se non «ciò che non può niente»?
Pochi giorni fa ho avuto il piacere di condurre insieme a un’altra tanatologa, Barbara Carrai, un laboratorio sul tema del morire. Barbara ci ha fatto fare un esercizio consistente nello stare seduti davanti a un’altra persona (possibilmente qualcuno che non conoscevamo) a occhi chiusi, cercando di sentirla, di sentirne la presenza viva, avvicinando le mani ma senza arrivare a sfiorarla. Dopo un po’ ci ha detto di aprire gli occhi e di restare con lo sguardo nello sguardo dell’altro. E lì è accaduto qualcosa di potente: un rapidissimo dissolversi dei confini, del senso di separatezza, una forma di scioglimento. Ho pensato: questo è lo sguardo che vorrei ricevere alla fine, e che vorrei poter dare. Ma l’ho pensato dopo. Non c’erano pensieri, né parole, mentre avveniva. E in fondo non si trattava nemmeno di sguardo ma di presenza. Quel che si può dire a un morente, se parola ha da essere, dovrebbe sorgere da e in questo spazio di presenza.
Ancora sul legame tra poesia, morte e lutto. Lo ha spiegato bene Blanchot: la poesia nasce dalla perdita, dall’abbandono, dall’assenza in senso lato: il mito di Orfeo ci racconta anche di questo e lo confermano i capolavori della letteratura di tutti i tempi, più di recente la poesia confessional del Novecento e del nuovo millennio. Quali sono gli autori contemporanei e non che, secondo te, hanno messo meglio in versi il proprio dolore per la scomparsa dell’altro? Posta diversamente: sono un tuo studente e quindi ti chiedo: prof., quali raccolte del distacco mi puoi consigliare?
Poiché le parole sono sempre il congelamento di un’approssimazione senza scampo, concedimi di riformulare quel «mettere meglio» con: «Hanno tentato al loro meglio» di esprimere il dolore per la morte dell’altro.
Mi vengono in mente:
Francesca Del Moro, Ex madre (Arcipelago Itaca, 2022).
Michela Gorini, Diario del sangue delle ossa (Ladolfi, 2021).
Ivano Ferrari, La morte moglie (Einaudi, 2013).
Ennio Cavalli, L’imperfetto del lutto (Aragno, 2008).
Milo De Angelis, Tema dell’addio (Mondadori, 2005).
La scomparsa dell’altro, della sua “presenza”, può però avvenire anche in vita e il lutto farsi quindi anticipatorio: penso in particolare alla corposa raccolta Alzheimer d’amore. Poesie e meditazioni su una malattia, curata da Franca Grisoni (Interlinea, 2017).
Tieni lezioni di medicina narrativa all’interno del Master in Death Studies dell’Università di Padova e anche laboratori sugli stessi temi. Stando alla medicina narrativa, le storie – quelle lette e quelle raccontate e scritte in prima persona – conservano un potenziale terapeutico: non sono soltanto catartiche, ma ci danno la possibilità di adottare un nuovo sguardo sulla tragedia capitataci e così di attenuare, anche se per poco, la nostra incertezza costitutiva, che si acutizza proprio al cospetto di eventi come la malattia o la perdita di una persona amata. E tuttavia, non posso fare a meno di pensare al fatto che molti dei più grandi scrittori del distacco – da Handke fino ad Aidt, passando per Auster, Forest, Didion, per dirne alcuni – concordano sul fallimento della scrittura come terapia e come mezzo di elaborazione del lutto. In questi memoir (pur sempre pubblicati sponsorizzati presentati tradotti ripubblicati consigliati dagli psicologi eccetera) c’è almeno una pagina in cui gli autori e le autrici dichiarano l’inutilità, se non proprio l’oscenità, di quanto vanno scrivendo. Le virtù curative delle storie e della letteratura in generale sono messe in discussione proprio da coloro che hanno più dimestichezza con le parole, forse perché ne conoscono i limiti, le trappole, la seduzione a far del bello che esse possono indurre. Allora ti faccio questa domanda: come ti spieghi questa ambivalenza? Tu hai mai sentito che le parole non fossero all’altezza del tuo dolore o del dolore degli altri? Ne hai mai diffidato? Se sì, quando? Quando ti hanno deluso?
Più che altro diffido di me, quando non sono all’altezza delle migliori parole che potrei usare.
Forse la questione non è tanto che le parole siano o non siano all’altezza del mio o dell’altrui dolore, quanto riconoscere come possano concorrere ad accrescerlo. Nel caso del lutto, le parole possono farsi racconto, e per lo più racconto frammentario, solo quando l’inarticolabile grido di dolore concede qualche tregua, quando dalla sommersione del caos emerge un qualche punto di osservazione e di ascolto orientante.
Poiché l’hai giustamente citata, ti dico di Naja Marie Aidt, Se la morte ti ha tolto qualcosa, tu restituiscilo. Il libro di Carl (Utopia, 2021). In questo caso ho percepito un certo “disagio” non tanto a livello di parola, quanto a livello di montaggio testuale; parlo nello specifico di una piccola cosa: la scelta incipitaria (non sto a riportare qui il testo, peraltro di sole sei righe), che mi è parsa quasi un’intenzione d’effetto. Poche pagine dopo, quel brevissimo incipit viene appunto ricomposto nel brano più esteso da cui è stato (forse dall’editor e non dalla Aidt, mi verrebbe da pensare) estrapolato e messo in apertura.
Ma le “trappole”, il senso di fallimento, perfino di vergogna, non dovrebbero mai spegnere le voci dolenti.
Sempre in riferimento al rapporto tra scrittura e perdita, ma dal punto di vista dell’insegnante e della tanatologa: nei tuoi corsi incoraggi all’adozione di schemi narrativi “archetipici” come quello del viaggio dell’eroe. In effetti, quest’ultima, classicissima struttura si presta bene a restituire la portata concretamente trasformativa – che lo si voglia o meno – dell’attraversamento di un evento traumatico. Quando invece i tuoi studenti non seguono un tracciato archetipico, noti comunque delle costanti? Cioè: tu che hai sentito e letto moltissime di queste storie, anche e soprattutto raccontate da chi magari non ha troppo a che fare coi libri, hai l’impressione che esista un modo comune di restituire l’esperienza lutto al di là, o forse al di qua, della letteratura?
Ai miei studenti, e sto parlando delle Medical Humanities e della scrittura autobiografica con focus su morte e lutto, propongo sempre, in primis, lo schema archetipico, perché l’obiettivo didattico è quello di dare strumenti di “riposizionamento” interpretativo rispetto all’esperienza, di mostrare una Yellow Brick Road per l’uscita dallo stallo narrativo, un sentiero che guidi dall’insensatezza alla significatività. Detto ciò, più che di «un modo comune di restituzione dell’esperienza al di là\al di qua della letteratura», parlerei di modi differentemente percorribili di attraversamento del lutto: penso soprattutto al supporto di altre forme di espressione creativa. Nel mio ambito di insegnamento, la scrittura da sola non basta mai; il coinvolgimento deve essere olisticamente multidisciplinare.
Ora su Tanatoparty (Meridiano Zero, 2009), il tuo primo romanzo. È un libro estremo: non solo per l’atto che chiude la storia, ma perché tutti i temi a te più cari, di cui già ci hai detto, vengono portati al parossismo, e dunque in qualche modo deformati, resi quasi repulsivi: il rito funebre diventa spettacolo, la conservazione dei corpi loro mera esposizione, le istanze ambientaliste fanatismo. Verrebbe da pensare che questo romanzo sia il contraltare di tante tue poesie. È così? E, in caso affermativo, come mai?
Contraltare? Mi ci fai pensare adesso. Tanatoparty come “voce” di un coro dissonante, disturbante, vischioso; i testi poetici come armonia contrastiva? Sto scherzando. Non saprei risponderti. Molti anni intercorrono fra l’uno e gli altri; le cose da mettere a fuoco sono per molti versi cambiate.
Più volte hai dichiarato di aver scritto Tanatoparty dopo la morte di tuo padre, per elaborarne il lutto. Perché hai scelto la finzione, e una finzione così, diciamo, iperbolica? Non ti sembra che oggi la tendenza sia opposta? Non ti sembra cioè che oggi siano moltissimi i libri dal vero, specie i memoir, sul lutto? Da quindici anni a questa parte, e cioè da quando è uscito il tuo romanzo, in Italia sono stati pubblicati molti libri del distacco in cui gli autori di fronte all’indicibilità della perdita hanno affermato la necessità, almeno per loro, di abbandonare la finzione, se non la letteratura intera. Come ti spieghi questo fenomeno (che è letterario ma va oltre la letteratura)? Quali di questi memoir hai letto e ti hanno colpito?
Prima risposta: perché, dopo la morte di mio padre, sono riuscita soltanto a dare voce a un’iperbolica fiction, immergendomi nelle angosce postmoderne legate all’invecchiamento, alla decadenza, alla malattia e al morire, nelle tecniche di conservazione dei corpi, nelle fiere del settore funerario… Potremmo dire che l’ho presa larga. Sapevo che il lutto avrebbe richiesto un ulteriore lavoro di scrittura, ma le parole dell’intimità, per un po’, sono state indisponibili. Poi, finalmente, nel 2011 è uscito Ballabile terreo, che è l’anagramma del nome di mio padre.
I memoir sul lutto. Meno delle storie personali di malattia (che oggi trovano i canali diretti, immediati del mondo social e dell’aggiornamento in tempo reale), ma stanno comunque aumentando; dico «meno», senza dati alla mano, semplicemente sulla base del fatto che le storie di malattia rientrano per lo più nel modello delle cosiddette narrazioni di “restituzione”, di “lotta” per il recupero della salute (o il contenimento dei danni), mentre i memoir sul lutto richiedono un tempo di elaborazione più complesso, e a parer mio, comunque, andrebbero sempre accolti con benevolenza, nell’ottica di un’etica della condivisione e della testimonianza.
La mia lista personale:
la già citata Naja Marie Aidt;
Joan Didion, L’anno del pensiero magico (Il Saggiatore, 2021);
Karen Green, Il ramo spezzato (Baldini+Castoldi – La nave di Teseo, 2018);
Christian Bobin, Più viva che mai. Una storia d’amore dura per sempre (San Paolo, 2010).
Ci tengo poi a segnalare anche il potentissimo lavoro teatrale di Evelina Nazzari (Torna fra nove mesi).
Anche un altro tuo romanzo sembra essere in controtendenza coi libri del distacco contemporanei, almeno quelli italiani, per tono e stile. In Planctus (Meridiano Zero, 2015), metti in scena – quasi letteralmente – dei personaggi diversissimi e disastratissimi, un po’ commoventi e un po’ grotteschi, tutti accomunati dal bisogno di superare un abbandono, di elaborare un lutto. La domanda è questa, e un po’ seriosa: può l’esperienza del dolore legare persone diverse? Esiste un elemento che fa i dolori tutti uguali, che rende ogni lutto, per quanto irripetibile, alla fine, comune?
L’esperienza del dolore non è un legante. È semplicemente universale. Ma, certo, può creare prossimità e condivisione.
C’è una piccola e bella storia buddhista, Cinque semi di papavero. Parla di una giovane donna che si ammalò di cuore in seguito alla morte del figlioletto.
Portava in braccio il suo cadavere e vagava di casa in casa, chiedendo a tutti di guarirlo, finché le fu consigliato di recarsi da un maestro che abitava nelle vicinanze. Così la donna portò a costui il figlio morto. Il saggiò la guardò compassionevolmente e disse: «Per poter guarire il bambino, ho bisogno di alcuni semi di papavero. Vai e chiedine cinque in una casa in cui la morte non sia mai entrata». La donna, allora, in preda al suo profondo dolore, andò in cerca di una dimora dove la morte non fosse mai entrata, ma invano. Abitazione dopo abitazione, sentiva solo storie di perdita e di sofferenza. Alla fine fu costretta a ritornare dal saggio. Alla sua quieta presenza, la mente le s’illuminò e comprese il significato delle sue parole. Portò via il corpo e lo seppellì nella terra, poi tornò e divenne una conoscitrice della verità.
Qualcuno accoglie il lutto della donna, la forma in cui esso si manifesta in lei, la sua peculiarità, la sua unicità, e lo fa senza giudizio, concedendole il tempo necessario per comprendere la verità dell’universalità del dolore.
Infine, ringraziandoti ancora, una domanda che rivolgiamo a tutti. Il nome di questa rubrica è un verso di Pagliarani. Lo vorremmo usare come un termometro, provare a capire davvero «quanto di morte noi circonda», poiché i discorsi che circondano la morte sono, in questo senso, piuttosto contrastanti: da una parte ci viene detto che la morte è, per noi contemporanei d’Occidente, il rimosso per antonomasia, ciò che non vogliamo vedere e occultiamo costantemente; dall’altra, invece, che la morte è sovraesposta e che è (divenuta?) la vera e sola protagonista delle nostre storie. E dunque, che pensi al riguardo? Quanto di morte noi circonda?
Che non sia che ciò che teniamo fuori dalla porta ci rientra a bomba dalla finestra, spaccandoci tutti i vetri?
Come hai detto anche tu nella domanda, è la morte a essere circondata dai nostri discorsi.
*Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.
This work was supported from OP JAC Project “MSCA Fellowships at Palacký University II.” CZ.02.01.01/00/22_010/0006945, run at Palacky University in Olomouc, Czech Republic.