Quanto di morte noi circonda ⥀ Intervista a Paolo Godani
Presentiamo oggi il secondo appuntamento con la rubrica-inchiesta sull’immaginario contemporaneo del lutto a cura di Luca Chiurchiù e David Watkins, Quanto di morte noi circonda. L’intervista di oggi è con Paolo Godani. Tutti i dialoghi finora pubblicati possono essere letti qui
«Quanto di morte noi circonda» è un verso di Elio Pagliarani. Ora, è anche il titolo di un’inchiesta di Argo sull’immaginario contemporaneo del lutto.
La morte è il rimosso del nostro tempo.
La morte è l’assillo del nostro pensiero e delle nostre scritture.
Queste due affermazioni, palesemente contraddittorie, coesistono nei discorsi dei nostri giorni, sgomitano alle soglie delle nostre impressioni e delle nostre incertezze. Abbiamo così deciso di porre alcune domande a scrittrici e scrittori che – venendo da vari ambiti e maneggiando vari strumenti – hanno affrontato la questione del lutto e della perdita, del rapporto con la morte e con la malattia, in un modo che ci interroga e ci costringe, di volta in volta, a prendere posizione.
È per vederci un po’ più chiaro. È per misurarci la febbre.
(L.C. e D.W.)
⥀
Proseguiamo l’inchiesta pubblicando un’intervista a Paolo Godani. Tra i suoi libri, teniamo particolarmente a segnalare: Il corpo e il cosmo (Neri Pozza), Tratti. Perché gli individui non esistono (Ponte alle Grazie), Sul piacere che manca (DeriveApprodi) e, di prossima pubblicazione, Melanconia e fine del mondo.
Il nome di questa rubrica è un verso di Pagliarani. Lo vorremmo usare come un termometro, provare a capire davvero «quanto di morte noi circonda», poiché i discorsi che circondano la morte sono, in questo senso, piuttosto contrastanti: da una parte ci viene detto che la morte è, per noi contemporanei d’Occidente, il rimosso per antonomasia, ciò che non vogliamo vedere e occultiamo costantemente; dall’altra, invece, che la morte è sovraesposta e che è (divenuta?) la vera e sola protagonista delle nostre storie. Tu come la pensi? «Quanto di morte noi circonda?»
Da un certo momento in avanti è diventato un luogo comune ritenere che le società moderne, rispetto a quelle tradizionali, tendano a nascondere e a rimuovere l’esperienza della morte. Questo discorso è una sorta di volgarizzazione dell’idea heideggeriana per cui per lo più gli esseri umani tendono a non «guardare in faccia» la morte, si accontentano di un’esperienza inautentica, sanno che si muore e questo basta. Ma si nota di rado che proprio questa stigmatizzazione di un rapporto inautentico con la morte ha la funzione di porla al centro della nostra esperienza, come se ogni momento, ogni evento della vita dovesse essere sempre confrontato con la presenza incombente della fine. Io credo che Heidegger racconti davvero qualcosa di ciò che siamo diventati. Credo che davvero per noi, per noi gente dell’ultimo secolo, la morte sia divenuta una presenza insistente, un incubo ricorrente che accompagna i nostri giorni. La manifestazione più eclatante di questo fenomeno è forse la medicalizzazione dell’esistenza, ma questa implica tutta una nuova percezione del nostro corpo come intimamente segnato dalla possibilità della malattia e dunque della scomparsa. Il nostro problema è allora di riuscire a sottrarre almeno qualche radura d’esistenza all’ombra che la morte sembra gettare ovunque attorno a sé.
Voglio dire, però, che una conclusione del genere, la conclusione per cui dobbiamo impegnarci a liberare la vita dal pensiero della morte, non la traggo in alcun caso dalla posizione di chi osserva un fenomeno dall’esterno. Non parlo a «voi» che siete, poveretti, impelagati in una distesa di morte. Al contrario, credo sia un’esigenza necessaria, proprio perché sento profondamente che quella presenza incombente avvelena i miei stessi giorni.
Giocando col suo stesso vocabolario, potremmo obiettare a Heidegger che la tendenza a schivare l’idea della morte e a rifugiarsi nelle chiacchiere impersonali del quotidiano abbia conosciuto un sostanziale cambio di rotta: uno dei motivi che hanno ispirato questa rubrica, in effetti, è proprio la constatazione della frequenza con cui, a partire dagli ultimi anni, si è assistito a una proliferazione di scritture autobiografiche incentrate sul lutto. Tu come interpreti questo fenomeno?
Non sono certo un esperto delle scritture a cui ti riferisci, ma in linea generale mi pare si possano fare due considerazioni. La prima è che si è andata diffondendo la convinzione secondo la quale un’opera letteraria è tanto più significativa quanto più riflette il vissuto elementare, affettivo, viscerale, del suo autore. È questo a fare la sua «autenticità». Il problema di queste scritture, mi pare, è che finiscono per dire tutte una sola e identica cosa: ho vissuto. La seconda considerazione riguarda, più in generale, la letteratura. Dal mio punto di vista, la grande letteratura non è quella che rimesta nel torbido del dolore umano, quella che ribadisce la nostra esistenza su ciò che vi è in essa di più orrendo, ma quella che riesce a cogliere qualcosa dello splendore dell’esistere anche nella situazione più atroce e a tirare fuori una musica anche dalla tortura. Se non avessimo questa letteratura, dovremmo accontentarci della cronaca nera.
Un filosofo umbro vissuto a cavallo tra il XVII secolo e i nostri giorni, nelle sue lezioni diceva talvolta che il Novecento ha paura dell’eterno, che è un secolo ammalato di vita. Ecco, ti chiederei di immaginare di essere a una delle sue lezioni, seduto un po’ dove ti pare – io ti immagino bene tra gli studenti, ma vedi un po’ te – mentre prendi appunti, ti segni questa frase e cerchi di darle un senso, aggiornandola magari all’epoca appena successiva, se di epoca successiva si può parlare, cioè i nostri giorni.
Credo che il nostro caro filosofo umbro, che di nome fa Omero Proietti, intendesse questo: che la cultura del Novecento era terrorizzata da ciò che è fisso, stabilito una volta per sempre, perché vi vedeva un limite invalicabile all’esercizio della volontà, e per questo si è affidata al divenire delle cose e al fluire della vita come a un farmaco miracoloso, senza rendersi conto che si trattava di un farmaco letteralmente mortifero. È accaduto quello che dice Spinoza, con una battuta: la cultura del Novecento si è comportata come quel pesce che, rendendosi conto di essere obbligato a vivere nell’acqua, decide di uscirne per vivere sulla terra.
Fuor di metafora, il punto è che se le cose sono eterne, e dunque necessarie, non c’è margine di manovra per la nostra volontà di cambiarle, ma se non lo sono, e la nostra volontà può intervenire in ogni momento per mutarle, questo significa che la loro consistenza è pressoché nulla. Il trionfo della volontà porta con sé una sola necessità: quella dell’annichilimento, della distruzione. E forse questo ha qualcosa a che vedere con il fatto che il Novecento sia stato anche il secolo delle guerre più sanguinose. Su questo punto, non mi pare che il XXI secolo abbia portato grandi novità.
Ne Il corpo e il cosmo, a un certo momento, dici che non è un caso se «la morte per noi è il cancro». Che cosa intendi?
Intendo dire che per noi il rapporto tra vita e morte è un intreccio indissolubile. Percepiamo che la malattia e morte segnano la vita di ognuno fin dall’inizio, come se le fossero consustanziali. Lo diceva molto bene Foucault nella Nascita della clinica: per noi la malattia e la morte non sono degli accidenti esteriori che colpiscono e mettono fine a una vita, ma sono il nemico interno, sempre in agguato, contro cui la vita lotta continuamente, sono il tarlo che sale dal di dentro, che ci corrode dall’interno. Non è un caso che il grande maestro della nostra modernità, in questo senso, sia Xavier Bichat, a cui dobbiamo la celebre definizione della vita come insieme delle funzioni che resistono alla morte.
Prima dicevi che il trionfo entusiastico della volontà trova il suo approdo pratico e politico nell’annichilimento e nella guerra. Questa percezione di un corpo essenzialmente corroso e tarlato dall’interno – che tipo di politica si porta dietro?
Credo siano due questioni connesse, in effetti.
Da un lato c’è la questione, più generale, della volontà come fondamento del nostro modo di rapportarci al mondo. Volere che le cose stiano in un certo modo, volere che siano diverse da come sono, significa immaginare la loro natura come qualcosa di essenzialmente sacrificabile, come qualche cosa che può essere annichilita come se niente fosse. Da qui il nesso tra volontà e distruzione.
D’altro lato, c’è la questione più specifica di una politica del corpo. Bisogna ricordare l’ossessione fascista per il corpo integro, sano, forte. Le grandi scene di ginnastica collettiva, così come le grandi parate militari, esaltano la purezza del corpo ariano, ma questa esaltazione non è affatto una constatazione della sua superiorità. Non è che un progetto, un programma biopolitico: bisogna far sì che il corpo diventi integro, inespugnabile, indistruttibile. Un progetto del genere ha senso solo se il corpo, il corpo così come si presenta prima del «trattamento», viene percepito come qualcosa di fragile, come qualcosa di costantemente esposto alla minaccia della distruzione. C’è un film di Sokurov, Moloch, che lo mostra molto bene: vediamo il Führer ipocondriaco, paranoico, ossessionato dalla salute del corpo, impegnato con estrema ostinazione a proteggersi da una possibile invasione di agenti esterni, microbi, germi. Il corpo ha bisogno di essere difeso, fortificato, perché è continuamente in pericolo. Ma soprattutto, il corpo ha bisogno di venire trasfigurato, perché lasciato a se stesso non è che sangue e merda, non è che un ammasso informe di sostanze organiche, di impulsi biologici, di istinti, di tendenze caotiche.
Ho l’impressione che questa percezione del corpo sia una delle condizioni di possibilità della distruzione, e anche dello sterminio: si può pensare di ridurre un corpo umano a brandelli di carne, solo se si presuppone che in fondo il corpo umano, nella sua essenza più profonda, non sia altro che questo: brandelli di carne.
Nel tuo ultimo lavoro, che uscirà tra qualche mese, l’indagine di questo rapporto luttuoso che intratteniamo con il nostro corpo e che ci fa vivere, come in anticipo, il suo disfacimento, viene declinata su un piano ulteriore: si parla di un «lutto per le cose del mondo», come se assieme ai nostri corpi, anche loro, le cose, avessero perso la propria consistenza…
Esattamente. Credo che la nostra percezione morbosa del corpo sia una delle espressioni di una più ampia attitudine «nichilistica», quella che è particolarmente sensibile non solo alla fragilità, ma più in generale alla caducità di tutte le cose. Anziché valorizzare il fatto che una certa cosa sia o sia stata, anziché soffermarsi sulla potenza della sua presenza e sulla consistenza della sua essenza, siamo portati a dolerci del fatto che quella cosa non esista per sempre. Dico una certa attitudine o sensibilità, ma non si tratta solo di questo. Il fatto è che per noi, che ne siamo o meno consapevoli, la caducità delle cose è il segno inequivocabile della loro nullità.
In fondo, anche la disperata ricerca di senso che sembra attraversare tutta la grande cultura del Novecento testimonia della nostra certezza che il mondo, così com’è, di senso non ne abbia alcuno. Se dobbiamo impegnarci a dare un senso alle cose è perché siamo certi che, lasciate a loro stesse, le cose – e la nostra vita tra queste – siano perfettamente insensate. Il volontarismo di cui dicevo prima non è che una conseguenza inevitabile di questo nichilismo.
Abbiamo parlato di una vita assediata dal pensiero della morte, di un corpo intimamente ammorbato, degli esiti disastrosi della volontà e dei suoi mortiferi entusiasmi; abbiamo parlato di uno sguardo che tende a recidere le cose dalla loro essenza e a vederle circondate di insensatezza e di nulla: abbiamo parlato del tempo in cui ci è capitato di vivere. Nei tuoi libri, però, si parla spesso anche di un’altra esigenza. La diagnosi dei malanni e degli acciacchi affettivi della nostra epoca va di pari passo con il tentativo di far emergere, da quegli stessi malanni, un loro risvolto, più respirabile e gioioso. Questo curioso risanamento, in genere, passa per uno scarto minimo; come se questa salute, che ci lasci a volte intravedere, fosse già lì, da sempre, sotto ai nostri occhi, in uno stato ancora latente. È questa gioia latente che la filosofia, nella tua opera, si incarica di dischiudere, fino a rendere di nuovo plausibili delle esperienze che collimano con un’estasi calma.
Ti ringrazio davvero per questo che dici. Mi pare dica molto bene quello che cerco di fare. Nel lavoro che citavi prima, che si intitolerà Melanconia e fine del mondo, provo a mostrare, per esempio, che può esistere un rovescio della melanconia, un rovescio che non è una specie di guarigione, ma, diciamo, un fare buon uso della melanconia. Cerco di spiegarmi un po’ più concretamente. Il malinconico, cioè chiunque di noi, è qualcuno che, fra l’altro, soffre di una profonda inibizione all’azione, derivante dal fatto che per lui ogni cosa di questo mondo vale quanto ogni altra, cioè poco o niente. Guarire dalla melanconia dovrebbe voler dire fare in modo che il soggetto riacquisisca il gusto di agire. Ma il rovescio della melanconia consiste piuttosto nel valorizzare quella stessa inibizione. L’assenza di azione, infatti, è anche una condizione per la contemplazione delle cose così come sono, indipendentemente dalle nostre preferenze e dai nostri desideri, una condizione per quella che hai chiamato giustamente un’estasi calma. A questo proposito, nel libro prendo volentieri a prestito l’immagine della «natura morta», che in inglese si dice, più simpaticamente, still life, vita ferma o vita statica. Intendo dire che la vita può essere statica perché si è depressi, ma può esserlo anche perché si è impegnati a non far altro che vedere tutto ciò che c’è in questo mondo.
Sei uno che nel 2024 usa parole come «beatitudine». Al di là dello spinozismo da cui proviene l’accezione specifica di questa parola, immagino che il tuo modo di fare possa essere confuso con quello di un inguaribile ottimista o, peggio ancora, di uno che si diverte a imbellettare le cose. Eppure, a ben vedere, questo presunto ottimismo altro non è che una ripresa di un senso classico della filosofia, sia perché richiami in causa figure classiche del pensiero, sia perché riprendi, più in generale, un atteggiamento metafisico… Forse ciò che potrebbe venire percepito come “ottimistico” è semplicemente l’attrito che si viene a creare tra il male che tratti di volta in volta e queste figure. Nel caso del lutto e della morte, un primo attrito che mi viene in mente è quello tra il modo che abbiamo delineato poco fa e quello che si trova per esempio nella filosofia di Epicuro.
Sì, sono sicuro che in molti reagirebbero nel modo in cui dici. Probabilmente, io stesso avrei reagito così, una ventina di anni fa. Ciò che mi ha fatto cambiare idea – e per me è stata una scoperta straordinaria – è la constatazione che il nostro «pessimismo», il nostro pensiero critico, il nostro atteggiamento più disincantato e «cinico» nei riguardi della vita e del mondo è in massima parte un erede inconsapevole del pessimismo religioso, e in particolare della visione cristiana per cui questo mondo è una valle di lacrime e questa vita è una condanna.
È per questo che quando ci si rivolge ai grandi pensatori classici si produce, come dicevi, un attrito stupefacente. È un po’ come quando ci si è abituati a vivere in un clima perennemente plumbeo e poi si riscopre che esiste anche il cielo limpido – e che il grigio delle nubi, in fondo, non fa che nascondere l’azzurro.
Prendiamo Epicuro, per esempio. Fra le altre cose, afferma che non è importante la durata della vita di ognuno, bensì la sua consistenza. Se un’esistenza è lunga, ma costantemente tormentata dai turbamenti dell’animo, per esempio da un costante timore della morte, allora quell’esistenza è come se fosse avvelenata, annichilita nella sua stessa essenza. Una vita del genere può durare anche un secolo, ma è come se fosse già morta. Viceversa, beata è quella vita che non soffre di mancanze né di turbamenti, ma gode della propria sussistenza. E questo è un punto delicato, perché Epicuro ritiene che sia generalmente in nostro potere liberarci da mancanze e turbamenti. Per lo più, infatti, soffriamo di mancanze fittizie, prodotte dall’idea che abbiamo bisogno di chissà cosa per vivere felicemente. Mentre in realtà – ed è il fondo dell’insegnamento epicureo – per vivere bene abbiamo bisogno di molto poco: soddisfatte le necessità vitali (la sete, la fame, il freddo), abbiamo bisogno solo dell’amicizia e della filosofia. Dell’amicizia, perché gli esseri umani non possono vivere da soli, e della filosofia, perché è necessario conoscere la natura delle cose per comprendere sino a che punto siano insensati i timori che avvelenano la nostra esistenza: il timore della sofferenza, la paura della morte, il terrore del giudizio divino.
Infatti Epicuro, in un passo che citi in Sul piacere che manca, arriva a dire una cosa straniante, se non inaccettabile per una sensibilità che, come la nostra, è implicitamente ammaestrata dalla visione cristiana: ovvero, che non bisogna compiangere, né provare pietà per l’amico morto prematuramente.
Per quanto riguarda la morte, in particolare, il discorso di Epicuro è molto semplice. La lettera a Meneceo dice precisamente: «il più tremendo dei mali, la morte, nulla è per noi, dal momento che, quando ci siamo noi, non è presente la morte, e quando essa sarà presente, allora non ci saremo noi. Quindi la morte non ha valore né per i vivi, né per i morti, perché per gli uni non c’è, mentre gli altri più non sono». Come si vede, l’idea è che vi sia una sorta di eterogeneità, di esteriorità assoluta della vita e della morte, cioè che la vita e la morte non si toccano in nessun punto, ma si escludono a vicenda. È per questo che non ha senso tormentare la vita con il pensiero della morte. Ed è per questo che l’amico che muore prematuramente, se ha vissuto una vita integra, non avvelenata, non va compianto, dato che la sua vita è stata buona. Ma si vede altrettanto bene che questa liberazione dal timore della morte non implica in alcun modo la prospettiva di una vita eterna: solo la prospettiva di una vita beata entro i limiti della sua durata.
Un’altra parola che può destare sospetto, tra quelle che ricorrono nella tua opera, è «eterno», quella cosa di cui Proietti, come ricordavamo all’inizio di questa chiacchierata, diceva che la nostra cultura ha paura. Oltreché paura, direi diffidenza, una diffidenza che, a forza di abitudine, è divenuta spontanea. Al nostro orecchio, quello dell’eterno sembra essere destinato a rientrare in un vocabolario essenzialmente religioso; quale può essere, invece, il senso di un’eternità che non abbia nulla a che spartire con la fede?
Sì, sì, hai perfettamente ragione. Ma come accennavo anche prima, per me il religioso sta semmai dalla parte dell’effimero. Intendo dire che il religioso fa la sua comparsa ogni volta che la realtà delle cose si presenta come mancante, dimidiata, mutilata. Solo se è percepita in questo modo, ha bisogno di essere redenta e salvata. L’eterno della religione, in questo senso, si presenta sempre come un rimedio all’intrinseca nullità delle cose. Quello che voglio dire parlando dell’eternità delle cose, e di noi stessi, è qualcosa di molto semplice: le cose, tutte le cose, compresi noi stessi, hanno una loro consistenza, una loro realtà, che è necessariamente iscritta nell’ordine del mondo. Anche le cose la cui durata è finita non mancano di questa consistenza. Né possono perderla dal momento in cui, come si dice, «non ci sono più», perché in realtà ognuna esiste eternamente nello spazio di tempo che è il suo.
Che, come dicevo, tutte le cose siano iscritte nell’ordine del mondo non è dovuto al fatto che qualche intelletto superiore abbia voluto così. È solo perché tutte le cose sono parti di quella totalità degli esistenti che siamo soliti chiamare mondo o, in termini più strettamente filosofici, essere. Si potrebbe certo obiettare che non solo noi stessi, che siamo mortali, ma anche l’essere stesso, la totalità delle cose che sono, potrebbe un giorno finire nel niente. Ma dire così significherebbe – e in questo davvero non mi discosto di un millimetro dai classici – non comprendere che le cose sono precisamente nella misura in cui escludono da sé il non-essere. Faccio presente, di nuovo, che il religioso non sta dalla parte di chi afferma l’eternità delle cose, bensì dalla parte di chi afferma che esse provengono dal nulla, dato che proprio dal nulla Dio le ha create, e al nulla sarebbero destinate a far ritorno, se Dio non avesse deciso di salvarle.
*Immagine in copertina realizzata da Andrea Capodimonte tramite Midjourney.
This work was supported from OP JAC Project “MSCA Fellowships at Palacký University II.” CZ.02.01.01/00/22_010/0006945, run at Palacky University in Olomouc, Czech Republic.