Regie senza films di Luigi Socci – Recensione di Alfonso Maria Petrosino

Esce in libreria per Elliot edizioni Regie senza films di Luigi Socci, poeta e performer, direttore artistico del poesia festival La Punta della Lingua.

Già dal titolo (a questo servono d’altronde i titoli, no?) si possono intuire alcuni elementi del libro Regie senza films di Luigi Socci: la cinematografia che impronta in particolare le prime due sezioni (Autofiction e Director’s cut) e la sovrapposizione tra soggetto e oggetto (morphing?), ovvero una declinazione molto personale di quella che si potrebbe definire in senso lato poesia lirica (e le definizioni, invece, a cosa servono?).

Documentario, doppiaggio, guardare in macchina, amatoriale, improvvisazioni sono i termini che confermano il primo punto. In questa luce i versi «La gente è perfettibile. / La gente è migliorabile. / La gente non è male. / La gente cammina in modo innaturale», grazie anche all’insistente anafora, fanno pensare alla folla moscovita di Dziga Vertov. La celebre omofonia della lingua inglese tra eye (occhio) e I (io) sarebbe un degno esergo se non al libro intero almeno alla sua prima metà.

Pullulano giochi di parole che sono a volte brillanti divertissement (si pensi a Bibliografia fantastica tutta composta da titoli freddure) e a volte (e per lo più) trovate rivelatrici: «La gente se la guardi nella faccia / la gente fa buon viso // La gente se la guardi fa una faccia» o, ancora, altrove «campo d’inazione» o «il leggio / del libro della memoria».

C’è un’ossessione per il corpo, a volte scatologica e spesso fantastica: «rivoltarsi come un guanto dalle molte dita / per toccare in maniera tentacolare // per toccare più cose / contemporaneamente / con le ventose» o «un brulichio di pollici e di indici», «salutando con trenta dita», «vedere solo sporgendosi, le dita / annidate nel palmo della mano / un attimo prima di cominciare / timidamente ad irradiarsi», «Grande madre dai trentasei capezzoli / o altrettanti tentacoli / a seconda del punto di vista»; un paio di volte arriva a strutturarsi in matrioske:

Senti come una testa nella testa
una testa più piccola all’interno
di una testa custodia.

Da ieri è primavera e si direbbe
una svolta epocale.
Una delle due teste ti fa male.
Non sai quale.

Che l’io sia il tema centrale lo dimostrano esplicitamente certi versi («io / – io chi? // io io / – io tu? // io, sì / – tzè // cioè? / – no così dicevo tra me e me // ah beh») e certi enjambement che staccano appunto i pronomi personali («al solito / tuo» «dillo con parole / tue» «vecchi / miei occhi»).

Le rime da canzonetta caproniana fanno sembrare subdolamente lievi e fruibili versi sotto i quali vibra una realtà proteica, sfuggente o vacua, a seconda, appunto, del punto di vista.

Sei rimasto seduto
dove stavi seduto da prima
senza il cappello per tenere il posto
che comunque nessuno vuole.

Ti attieni ai fatti.
Te li tieni stretti.
Guardi sembrare immobile
l’acqua dei rubinetti.

Scorrimento immobile che fa pensare inopinatamente al quadro Water from a running tap di Francis Bacon. Chiusure brusche e inserti sdrammatizzanti contribuiscono a ravvivare il tono e allo stesso tempo indicano gli scarti di pensiero (e di realtà) che la frase cela anzi rivela.

Prima e più che divertente è un libro divertito: si avvertono moti di derisione e ironia con tutti gli auto- e i meta- del caso. Il repertorio retorico attinge all’uso di parentesi, tmesi, cancellature e correzioni (dialogo al posto di monologo, bacio al posto di baco, taglio al posto di raglio), una traduzione così libera dal non essere più nemmeno traduzione (I have a dream), parodie di Leopardi («Dicono che non c’è / più religione / insistono col fatto che non c’è / mezza stagione / che non ci sono più le morte / stagioni di una volta, la presente / viva e sepolta non è imminente») e Dante da Inferno, Vita Nuova e Purgatorio insieme («Chi amor che a nullo amato non perdona / Chi amor che nella mente mi sragiona / Chi quando amor mi prese / della bulla persona / Chi quando amor mi spira»), un clin d’oeil a Ma il cielo è sempre più blu di Rino Gaetano («Chi fa cilecca / Chi ce l’ha stretta / Chi ancora ancora / Chi era anche ora») e un omaggio a Gozzano («cocci di socci» evoca il «coso con due gambe / detto guidogozzano»). Ma che il divertimento non sia fine a se stesso lo dimostrano, qualora lo si dovesse dimostrare, due testi come L’eternauta della porta accanto e Poesia visiva: il primo mette in scena sotto spoglie fantascientifiche le torture e l’uccisione in Argentina di Hector German Oesterheld e delle sue figlie e il secondo allude alla morte di Fabrizio Quattrocchi in Irak e alla manipolazione retorica conseguente.
Nella nota biografica l’autore si definisce «versificatore part-time, performer confessional, (ri)animatore poetico». La presentazione scherzosa è coerente coi testi seguenti ma non esaurisce affatto quello che il libro offre; a più riprese il fool confonde le battute e si accaparra brani concepiti per Macbeth o Lear:

Ci sono certi bui
che non ricordi gli occhi
se sono o no aperti

bui cosiddetti pesti
tra i cui contorni incerti
vedi o credi di farlo

ignaro se quel nero sia il primario
colore delle tenebre
o il retro delle palpebre.

Un fotogramma di cineocchio che al contempo cattura il buio (e sottolineo io) interno, esterno, eterno.


(Recensione di Alfonso Maria Petrosino, foto di Dino Ignani)

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