Religio Medici — Sfiducia e sragione di Antonio Carulli

La recensione del trattato teologico-politico uscito pochi mesi fa per Scuola di Pitagora

La community non ha bisogno di te. La tua funzione è fornire un soggetto – giuridico e ontologico – utile a giustificare la sovrapproduzione di predicati generata dai suoi atti virtuali. Spesso questo soggetto è poi un mero «profilo digitale»: i nostri film preferiti, le nostre canzoni, le nostre pregiudicatissime opinioni, il nostro orientamento «politico» e «religioso». Alle volte addirittura non è neanche tutto il nostro profilo digitale. Ricordi il giorno in cui ti sei iscritto? Lasciati gli altri in disparte, F. ti aveva spinto un attimo fuori dalla festa e, accostata la porta, ti aveva sottoposto un certo quesito. Con la sua educazione ed il suo garbo liberal F. ti domandò: vuoi veramente condividere questa informazione? Nel senso, potresti benissimo lasciarla qui – voglio dire – di modo che tu sappia sempre chi sei, certo, ma non per forza dobbiamo far diventare la cosa di dominio pubblico. I film va bene, a chi non piacciono i film? Le opinioni ecc. Ma l’orientamento religioso! Sono cose private dopotutto.

Sfiducia e Sragione (trattato teologico-politico) è l’ultimo lavoro di Antonio Carulli, edito da Scuola di Pitagora, ormai qualche mese fa. Certo, bastasse questo incipit raffazzonato a descriverlo, saremmo già sollevati dall’incarico. Invece questo testo rappresenta, a nostro modo di vedere, un ricondizionamento (per mantenere la metafora tecnologica) dell’«italian thought» al di fuori della cornice accademica. Sgalambrista più che sgalambriano, cioè più figlio che epigono di Manlio Sgalambro, Carulli si misura, attraverso una prosa acida e sottile, con l’annosa questione dello «spirito oggettivo». Per semplificare, con buona pace di Hegel, diremo che tale spirito sia nient’altro che la cultura di un’epoca, da intendersi come un certo dispiegamento di forze, in una certa società, teso a preservare la civiltà. In quel luogo del pensiero dove un tempo fiorivano le «culture dei popoli», però, oggi troviamo sedimentazioni calcaree. Troviamo cioè una diffusa apatia, una certa disillusione «post-veritativa» nei confronti della nozione stessa di cultura – intesa qui come un che capace di unire le azioni dei singoli – e, in fondo in fondo, troviamo le macerie degli usi e dei costumi, stancamente reiterati a livello locale e istituzionale. Non dovrebbe dunque stupirci se, sul cumulo di queste macerie, Carulli celebra la novena del Cristianesimo.

Getsemani, Oskar Kokoschka, 1916

Summa di una simile tonalità emotiva, la religione cristiana è oggi ridotta a best practice del vivere comune. Parodiata dalla vita democratica attraverso la reiterazione formale di riti, di mezzi, di intenzioni, la religione cristiana odierna vede annullarsi la dicotomia fra credente e non-credente, nella figura dell’«abituato». L’habitué del Cristianesimo è colui che recepisce le tradizioni dei padri, replicandole malamente. Egli non sa di aver innescato un movimento del potenziamento assoluto: non più fede in Dio ma fede nella fede in Dio. Egli pensa quel tanto che basta per giustificare la prassi, per fare di religione psicologia, per darsi degli alibi rispetto a preoccupazioni tanto ataviche quante oggi irrilevanti (la vita dopo la morte, la retribuzione ultraterrena ecc.). Questo Cristianesimo diffuso, meramente spaziale (aveva visto giusto Henry More) rappresenta, con la sua trasparenza, il destino di disfacimento verso cui tende la società odierna. Tuttavia una tale condizione non è necessariamente un male: se di sicuro «la filosofia mai avrebbe dovuto rappresentare il punto di vista degli uomini, né preferire alla conoscenza di Dio la conoscenza degli umani» (così Hegel), lo stesso bisognerà dire della religione (Dio mal sopporta l’uomo, Sgalambro docet).

Ma cos’è questa religione? Scartavetrato dalla sua corteccia teologica – tutto sommato un’altra best practice – Carulli associa la nozione di religione a quella di tradizione. Il punto, abbiamo detto, è che il Cristianesimo ha da rappresentare il disfacimento sociale, dato dalla disillusione generale e dal rapporto degenerato che l’uomo ha con il mistero (tanto più lo affermo quanto più me ne distanzio), da intendersi in tutta la sua generica potenza. Ecco, l’autore non sta qui intendendo che si debba tornare ad un certo Cristianesimo «delle origini» o che ci siano delle ricette per sopperire alla «crisi dei valori». Carulli sta anzi contrapponendo all’antropomorfismo deleterio con cui la questione religiosa è liquidata, un’«antropologia soprannaturale», e questo è «italian thought», signori! Un nostro pensato sicuramente deteriore ma efficace. Carulli contrappone, dicevamo, al tentativo odierno di nebulizzare la religione con la democrazia – attraverso la sua piatta reiterazione laicizzante – l’esperimento contrario: nebulizzare la spinta distruttiva della democrazia con la religione, attraverso il recupero dello «spirito» della tradizione e delle sue pratiche di conservazione. Il Cristianesimo, l’unica religione capace di sedimentarsi sul fondo della contemporaneità, come «impasto di tante cose, mobili e fisse, aeree e, soprattutto, terragne» nasconde un segreto gattopardesco: da un lato, la sua dimensione sacrale è l’unica capace di lasciare le cose come stanno, ma dall’altro, è anche l’unica capace di procrastinare in eterno la fine della democrazia, in funzione di un futuro escatologico che la democrazia stessa non può pensare, poiché condannata ad operare nel presente.

La Crocifissione,Oskar Kokoschka, 1916

Giungiamo allora all’apice del volume: una piccola «pedagogia per islamici». Muovendo dalla convinzione che la religione possa imparare dalla democrazia a “stare in società”, com’è accaduto con il Cristianesimo, Carulli riconduce i fondamentalismi ad un sentimento di rivolta contro le «lusinghe del secolo». Il terrorismo, per capirci, fugge queste lusinghe con la propria azione distruttrice. Il fanatismo che i processi democratici tentano di combattere, d’altra parte, non è che un fuoco fatuo, «una fiammata prima dello spegnimento». L’Occidente ha il suo dispositivo di sicurezza nell’apatia che coordina il quotidiano, mentre l’Islam vive ancora un’ansia (teologico-politica) della fine, data dallo scompenso religioso non ancora cauterizzato: piuttosto che vivere come a Roma, mi faccio esplodere (alias «Venezia è bella, ma non ci vivrei»).

Dunque nessun lieto fine, certo: dobbiamo fare con quel che abbiamo. Possiamo concederci l’accettazione consapevole di un destino così ambiguo? (Retto certo da una simile Weltanschauung). Si potrebbe imputare all’autore un certo afflato conservatore, marquardiano, tanto da essere stato etichettato, insieme con altri, nuovo intellettuale di destra (su Libero del 9 Dicembre 2018). E tuttavia, visto le compagnie speculative che l’autore si sceglie lungo il suo cammino, Sfiducia e sragione merita soprattutto di essere visto come uno spregiudicato tentativo (senza colore) di recuperare un pensare sicuro insieme con una teologia politica del credere. L’esercizio spirituale che questo saggio pratica, e di cui anche fa uso responsabile, è l’accettazione della tradizione come rimosso parlante, da trattare con simpatia e studiata affettazione, al pari della «donna sull’isola deserta che non hai scelta di non sposare».