Per una rivalutazione del concetto di inerzia: Epicuro e le piante
Si corre e ci si affanna, senza sosta. Da una parte, la fitta ed incalzante schiera di individualità agguerrite che mai si arrestano e mai riposano, dedite all’opera di continuo ed instancabile miglioramento di sé. Dall’altra, i passi stanchi e ormai quasi automatici di chi non ha più fiato per gridare né per dissentire; di chi non attende più segni o rivelazioni di sorta grazie a cui credere che qualche cosa possa finalmente cambiare. Eppure, in un caso come nell’altro, nella frenesia come nella rassegnazione, non si conosce arresto.
In una dimensione opposta rispetto a quella governata dal moto perenne, abita la placida inerzia: inerzia in cui si condensa il tempo dell’ozio, in cui si apre e dispiega lo spazio del respiro, in cui si coglie e ci si avvicina, seppur solo in parte, alla virtuosità di ciò che è immobile. Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, è proprio da questa zona di arresto ed apparente stasi che ha modo di scaturire quanto di più prorompente e rivoluzionario possa darsi in opposizione ai quei meccanismi di assillo ed automatismo a cui le condizioni del mondo attuale ci richiedono, se non impongono, di adeguarci. Convincendoci nel frattempo che chi si arresta è perduto e cercando, contemporaneamente, di inglobare nel vortice ininterrotto dei suoi processi pure quel tempo che dovrebbe invece essere dedicato al semplice, autentico godimento della vita. In un mondo che combatte l’inerzia come germe paralizzante, capace di rallentare la gigantesca macchina della corsa sfrenata e dell’inappagabile desiderio, resta ferma e sempre splendente la possibilità, concessa a chiunque, di trovare la propria bolla d’inerzia, la propria dimensione di autentico ozio e piacere.
Di fianco alle sempre identiche retoriche di rinnovamento e trasformazione, rappresentate da slogan ormai obsoleti e vuoti di significato, sorgono delle proposte di rottura con le vecchie istanze del cambiamento; proposte che svelano un orizzonte inedito e inesplorato, capace di mettere in discussione quanto si è soliti, per abitudine o senso comune, assumere. Scrive Cristina Campo, in uno dei suoi mirabili saggi, che «in un’epoca di progresso puramente orizzontale, nella quale il gruppo umano appare sempre più simile a quella fila di cinesi condotti alla ghigliottina di cui è detto nelle cronache della rivolta dei Boxers, il solo atteggiamento non frivolo appare quello del cinese che, nella fila, leggeva un libro. Sorprende vedere altri azzuffarsi a sangue, in attesa del loro turno, sul preferito tra i carnefici operanti sul palco. Si ammirano i due o tre eroi che ancora lanciano vigorose fiondate all’uno o all’altro carnefice imparzialmente (poiché è noto che di un solo carnefice si tratta, se anche le maschere si avvicendino). Il cinese che legge, in ogni modo, mostra sapienza e amore alla vita»[1].
Come allora per il cinese, capace di trovare nella lettura del suo libro un riparo dai furori che lo circondano, è così anche per noi possibile scorgere, fra le righe di due recenti scritti, un luogo di quiete e insieme di resistenza ai deliri dell’attuale.
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–La ricerca di Sul piacere che manca. Etica del desiderio e spirito del capitalismo (DeriveApprodi, 2019) di Paolo Godani muove da «l’impressione […] che la valorizzazione sistematica del lavoro del desiderio abbia portato all’espulsione del piacere dall’orizzonte della nostra esperienza»[2]. A partire da questa intuizione, l’autore tenta, da un lato, di rintracciare le voci e l’insieme di meccanismi — pratici quanto teorici — che hanno contribuito ad innescare questo processo di esclusione del piacere, e, dall’altro, di proporre una valida alternativa a tale infelice esito. Per reagire a questo disconoscimento, così da restituire al piacere il suo senso più autentico, non è necessario, secondo Godani, formulare un nuovo paradigma di pensiero, dal momento che, in realtà, un modello profondamente rivoluzionario rispetto al nostro abituale modo di vivere e sentire il piacere è già rintracciabile all’interno dell’opera e del pensiero di Epicuro. La posizione assunta dall’antico filosofo è stata tuttavia oggetto, nel tempo, di molteplici critiche, in particolar modo da parte dei Cirenaici, fermi nella loro convinzione di non poter parlare di piacere se non in meri termini di soddisfacimento di un bisogno o di un desiderio. Risiederebbe allora proprio in questo antico fraintendimento — osserva Godani — mediante cui è stato stabilito un rapporto di dipendenza non reciproca fra piacere e desiderio, l’origine della mistificazione della reale natura del piacere; errore nel quale, e molto tempo dopo, pure Freud o Lacan sarebbero incappati, così sfuggendo alla possibilità di concepire l’idea di un piacere essenzialmente puro ed autonomo.
Che si identifichi, infatti, il piacere con la semplice soddisfazione di un desiderio o con la momentanea, e dunque effimera, sospensione di un dolore di fondo connaturato all’esistenza, è evidente come, in entrambi i casi, ad esso venga ugualmente imposta una condizione di subordinazione e dipendenza rispetto a qualcosa d’altro. La sola riflessione epicurea, pure anticipata in certo modo da Platone e Aristotele, pare al contrario essere riuscita a cogliere quello che è l’elemento veramente costitutivo ed essenziale del piacere, in virtù del quale è possibile spezzare qualsiasi legame di dipendenza a legarlo ora al desiderio, ora al dolore. E tale elemento, secondo il filosofo, non consiste in altro che nel suo essere del tutto connaturato e coestensivo alla vita stessa, dal momento che «vivere, in sé, è il primo e l’ultimo dei piaceri. E non perché sia la conditio sine qua non degli altri piaceri, ma perché vivere costituisce il massimo dei piaceri»[3].
È dunque nell’assenza di qualsiasi dinamismo o tensione verso un ipotetico oggetto di desiderio che si rivela la natura autentica del piacere costitutivo (o catastematico, per usare un termine epicureo), rispetto al quale ogni piacere particolare non potrà che rappresentare una semplice “variazione”, incapace, in quanto tale, di poterlo alterare sostanzialmente. Lungi dal porsi come un’etica che miri al soddisfacimento sfrenato di qualsiasi desiderio o che, al contrario, rinneghi e critichi il perseguimento di ogni piacere particolare, quella elaborata da Epicuro propone anzitutto di godere a pieno del primo bene di cui si dispone e che consiste nella vita stessa la quale, da sé, è già piacere primo — essendo il piacere consustanziale alla vita — ed ultimo — poiché costituisce il limite estremo oltre il quale un piacere ulteriore non può darsi.
Qualità prima dell’esistenza beata sarà allora quell’oziosità in virtù della quale qualsiasi attività l’uomo si troverà a compiere, non potendo vivere di sola contemplazione, sarà vissuta nell’intimo legame con quel piacere che costantemente la accompagna in quanto fondamento inalterabile dell’esistenza. Inerte e quieta sarà dunque la vita dell’uomo capace di arrestarsi e di vivere il proprio piacere non come un’esperienza intermittente, perennemente minacciata dalla comparsa di un qualche dolore, ma come la condizione prima che qualifica il manifestarsi di una vita.
Per questo, il continuare invece a proiettare al di là della vita presente la propria realizzazione, la propria felicità, il proprio piacere è ciò che maggiormente ha contribuito e contribuisce a svilire ciò di cui si dovrebbe al contrario massimamente godere e che consiste, appunto, nella semplice esistenza attuale. Che si parli in termini religiosi, politici o economici, è soprattutto questo atto di continua proiezione del Bene oltre ciò di cui già, del tutto gratuitamente, si può fruire che ha il potere di ridurre chi lo esercita ad una condizione di schiavitù. Perciò, allora, «il rifiuto di essere un servo, ma anche il rifiuto del lavoro, assumono una portata più ampia di quella di una rivendicazione sociale. Ciò che viene rifiutato, assieme alla servitù della condizione plebea e assieme alla schiavitù del lavoro, è la prospettiva di una vita sottomessa alla logica strumentale dei mezzi e dei fini, la prospettiva di un’esistenza che sacrifica il piacere in vista di qualche realizzazione di sé. […] E non è solo la rivendicazione di un diritto all’ozio da parte di qualcuno a cui la società concede al massimo di battersi per un derisorio diritto al lavoro, ma è l’affermazione di una forma di vita incompatibile con l’ordine sociale esistente e con il tipo di umanità che questo vorrebbe produrre»[4]. Un’umanità ovvero isolata, atomizzata, i cui individui hanno ormai perso la capacità di percepire sé e gli altri all’interno di una relazione che non rientri entro quella medesima logica dei mezzi e dei fini che le fa vivere il piacere come un obiettivo esterno e diverso rispetto alla sua semplice esistenza. Se, infatti, il rimanere irretiti entro le maglie di questa logica comporta — su un piano prettamente individuale — l’incapacità di cogliere il piacere come qualcosa di essenzialmente autonomo, esso impedisce, entro una dimensione collettiva, di vincere una volta per tutte l’isolamento dagli altri. Solo la rottura di questo vincolo saprà renderci in grado di scorgere, oltre alla reale essenza del piacere, la fitta trama che, sottesa alle nostre esistenze, dà forma a quella che Godani, altrove, chiama “vita comune”[5].
Una differente forma di vita capace quanto e forse più degli uomini di fruire completamente della propria esistenza è quella rappresentata dal mondo vegetale. Chi, infatti, meglio delle piante conosce i privilegi e le virtù della vita oziosa, che nel suo far nulla si apre al tutto, esponendosi integralmente ed assorbendo tutto quanto possa rappresentare fonte di nutrimento e di arricchimento per sé? Di fronte all’affaccendarsi degli uomini, al susseguirsi incessante delle generazioni che ne rinnovano i volti e le storie, ai cambiamenti e ai processi di sviluppo e corruzione che trasformano la superficie del mondo, stanno le piante le quali «ostentano invece un’indifferenza sovrana verso il mondo umano, la cultura dei popoli, l’alternanza dei regni e delle epoche. Sembrano come assenti, smarrite in un lungo e sordo sogno chimico. Sono prive di sensi ma non sono affatto inaccessibili: nessun altro vivente, infatti, aderisce al mondo circostante con più intensità. […] A differenza della maggior parte degli animali superiori, non intrattengono alcuna relazione selettiva con quanto le circonda: sono, e non possono che essere, costantemente esposte alla realtà limitrofa»[6].
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È muovendo da tale constatazione, oltre che dall’attenta osservazione della vita vegetale, che Emanuele Coccia, nel suo La vita delle piante. Metafisica della mescolanza (il Mulino, 2018), propone una profonda riconsiderazione della posizione e del ruolo da queste ricoperti all’interno del mondo e della Vita, ampiamente considerata. Riflessione che non può non condurre ad un simultaneo ripensamento dell’idea di uomo che la tradizione storico-biologica ci ha consegnato. Richiamandosi all’intuizione aristotelica secondo cui esiste un’anima propria di quegli esseri che costituiscono il mondo vegetale, e che, lungi dall’appartenere a questi soltanto, è condivisa anche dalle altre specie di vita, l’autore propone non semplicemente di sovvertire la gerarchia delle forme viventi così come è stata storicamente pensata dall’uomo, ma persino di demolire l’idea stessa che una qualche gerarchia possa darsi. Il pensare, infatti, che si possa stabilire un ordine, una numerazione per ruoli e funzioni, fra le differenti forme di vita implica la possibilità di tracciare, fra queste, una linea di demarcazione che, per quanto fluida e mai del tutto definitiva, permetta comunque di comprendere distintamente lo spazio ad ospitare l’una e ad escludere l’altra. Ciò che invece Coccia propone, a partire dal recupero dell’antica considerazione della vita vegetativa come “luogo condiviso da tutti gli esseri viventi”, è un nuovo paradigma da opporsi a quel primo modo di concepire l’esistente e la Vita.
Al fine di una adeguata comprensione dell’essere del mondo, questo secondo modello, basantesi sui concetti di immersione e mescolanza, richiede un ripensamento in termini maggiormente radicali della nozione di immanenza; scrive infatti l’autore che «la vera immanenza è quella che fa esistere ogni cosa all’interno di ogni altra cosa: tutto è in tutto significa che tutto è immanente in tutto. L’immanenza è la relazione non tra una cosa e il mondo, ma tra le cose»[7]. L’immersione è quanto permette, come propria diretta conseguenza, di rompere con un’altra importante distinzione formale su cui il pensiero, ormai quasi per abitudine, usa poggiarsi, e che è quella che oppone reciprocamente l’idea di un soggetto — cui può riconoscersi, all’interno del rapporto, un ruolo di primo o secondo ordine, a seconda della prospettiva adottata — a quella di un oggetto. Tale modello ontologico può infatti essere ammesso fintanto che si ponga l’esistente in una dimensione di separatezza e distinzione rispetto a quanto lo circonda, che si tratti di altri esseri viventi o del mondo inanimato. Ma accogliendo, al contrario, l’idea per cui tale distinzione non possa più essere ammessa, se non tradendo la reale natura degli esseri, è ovvio che, con quella, vadano a cadere tutte le ulteriori differenziazioni che su di essa poggiano: «se la vita — scrive Coccia — è sempre, e non può che essere, un’immersione continua, meritano di essere riscritti molti dei concetti e molte delle cesure che applichiamo alla descrizione dell’anatomia e della fisiologia, e all’esercizio attivo delle potenze corporee che ci permettono di vivere; insomma, merita di essere riscritta la fenomenologia dell’esistenza concreta di ogni essere vivente. Per ogni essere immerso, l’opposizione tra movimento e arresto non esiste più»; e, conseguentemente, «un essere che non può più separare arresto e movimento non può nemmeno opporre contemplazione e azione»[8].
Quelle di moto, arresto, azione, contemplazione appaiono come categorie ormai prive di significato all’interno di un orizzonte che vede la libera circolazione di ogni particella di mondo entro ogni altra. Ciò nonostante, l’uomo, per il quale tale processo di immissione in sé del mondo e di fuoriuscita di sé nel mondo si dà per tramite del respiro, continua a concepire se stesso come profondamente radicato negli ambienti fisici e culturali che si trova ad abitare. Se si sente radicato, osserva Coccia, è perché la radice è comunemente considerata come il simbolo di ciò che è stabile, fermo, eternamente trapiantato in un determinato tempo e in un determinato luogo. Ma la presa in prestito di questo termine di origine vegetale determina un misconoscimento di quella che è la reale natura del soggetto a cui si riferisce, e ciò perché della radice, appunto, si considera solo l’elemento puramente terrestre, quello ovvero che la tiene ben piantata al suolo, senza invece considerare quella che ne costituisce la controparte aerea, altrettanto fondamentale alla vita dell’insieme a cui entrambi appartengono e che consiste nella pianta. Se nella pianta, infatti, è senz’altro possibile riscontrare una continua tensione verso il centro della Terra, è d’altra parte fondamentale ricordare che esiste, in essa, una seconda forza, una sorta di conatus altrettanto costitutivo, che la spinge, con una intensità uguale e contraria, a sfidare e vincere la forza gravitazionale, per accrescersi nella dimensione aerea, in direzione del Sole.
È questa ostinazione nel rinnegare l’idea dell’intima connessione di ogni parte del tutto con ogni altra, così come nel continuare a percepirsi secondo un modello “falsamente radicale”, che può condurre a edificare interi sistemi di pensiero e modelli politici sulla base della cieca convinzione di essere visceralmente, ontologicamente legati ad un certo luogo il quale, in quanto “casa” o “habitat esclusivo”, parrebbe rivendicare e meritare una difesa da qualsiasi presunta minaccia esterna. Nel proprio sentirsi radicati, questo dare voce unicamente all’elemento terrestre significa costringere e relegare ogni individuo entro il solo spazio oltre il quale le sue radici non possono estendersi. Ammettere la legittimità della componente aerea significa, al contrario, assecondare il libero sviluppo dei suoi rami ideali; riconoscere ovvero che l’ampiezza del suo sguardo e della sua esperienza di vita possa essere molto più vasta rispetto alla ristrettezza dei confini entro cui le sue radici lo hanno collocato. Per questo, comprendere la reale natura della radice nel momento in cui ci si presume radicati, così come accogliere il paradigma dell’immersione mediante cui si assorbe tutto e dal tutto si è assorbiti, è quanto di più autentico e virtuoso l’uomo possa attingere dalla vita delle piante. È in questa mancata renitenza al flusso ininterrotto del cosmo che consiste infatti la magnifica inerzia delle piante; inerzia che può, ancora una volta, coincidere con la sola capacità di fruire e godere senza residui della propria esistenza e di tutto ciò che la attraversa. Così pure l’uomo, guardando alla vita vegetale ed emulandone la virtù, potrà finalmente cessare di percepirsi come separato non solo dagli altri soggetti umani, ma dal cosmo intero.
Forse, come spesso accade, a rivelarci i migliori antidoti contro i nostri mali sono le calme e sagge voci di chi ci precede, che si tratti di aliti di vita umana o vegetale.
1 C. Campo, Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 65.
2 P. Godani, Sul piacere che manca. Etica del desiderio e spirito del capitalismo, Roma, DeriveApprodi, 2019, p. 23.
3 Ivi, p. 61.
4 Ivi, pp. 141-142.
5 P. Godani, La vita comune. Per una filosofia e una politica oltre l’individuo, Roma, DeriveApprodi, 2016.
6 E. Coccia, La vita delle piante, Bologna, il Mulino, 2018, pp. 12-13.
7 Ivi, p. 93.
8 Ivi, p. 45.

Chiara Mammarella
Nata nel ‘94, ha studiato filosofia all’Università di Macerata. Si interessa alle differenti forme espressive che possono ospitare questa materia e dare corpo alla sua voce. Attualmente è redattrice presso la rivista Bruniana & Campanelliana.
Non ho mai studiato filosofia, ma questo articolo mi ha rapita. Cercavo il nome per un logo. Ora ho l’idea ben chiara nella mia mente. Grazie.