Roberto Saporito, Il rumore della terra che gira, Perdisa Pop, 2010

Roberto Saporito narra con un linguaggio ridotto ai minimi termini, come già aveva saputo fare in Carenze di futuro, spingendosi però oltre: la storia viene semplificata, resa lineare, sembra quasi ignorare il mondo esterno alla percezione dei personaggi, restituendo spesso un’atmosfera rarefatta e quasi claustrofobica, adatta ai protagonisti solitari del romanzo. È un progetto ambizioso, quello che emerge dalle pagine de Il rumore della terra che gira: si ha quasi la sensazione che l’autore abbia cercato una mediazione tra la prosa, con le proprie necessità narrative, e la poesia, nella sua capacità di evocare sensazioni, descrivere impressioni difficilmente riducibili a nozioni chiare e razionali. Il risultato è un romanzo fluttuante e spesso sfuggente, che non tenta di approfondire e di scavare troppo nei personaggi, ma si limita a renderne gli stati, qui e ora, senza ricostruirne interamente le vite. Al lettore viene fornita solo la visione della contingenza, può sapere solo quello che passa per la mente e per i sensi del personaggio, viene costretto a seguirne il flusso. È appunto un progetto ambizioso, perché spesso questo tipo di approccio “in punta di matita”, leggero ed evanescente, può lasciare fuori il lettore, renderlo estraneo, ma allo stesso tempo può pungerlo con decisione in altri momenti di maggiore empatia.
Roberto Saporito (1962) ha studiato giornalismo e Il rumore della terra che gira è il suo quinto romanzo. Ferrato nel racconto – genere che in un certo senso non sembra abbandonare nemmeno nelle prove di più ampio respiro, quasi dei racconti lunghi – ne ha pubblicati molti su diverse riviste letterarie, su antologie e altrettanti in due raccolte personali.
Simone Colombo