Roma| di Alfonso Cuarón | recensione di Enrico Carli

Genere: drammatico Regia: Alfonso Cuarón Durata: 135 min. Cast: Yalitza Aparicio, Marina de Tavira, Nancy Garcia, Jorge Antonio, Veronica Garcia, Marco Graf Paese: Messico Anno: 2018

Roma, Leone d’oro al 75° Festival di Venezia, è un film di geometrie familiari.

Se negli Stati Uniti le case sono generalmente munite di verande – punti d’osservazione che affacciano verso l’esterno – nelle regioni più calde a sud degli States, del Centroamerica e del Sudamerica, le abitazioni sono dotate di un cortile interno. Il patio è quel luogo tra il dentro e il fuori dove la vita famigliare transita continuamente. Al contrario della veranda, il patio è un fuori affacciato verso l’interno.

Nel suo film più intimo e personale, Alfonso Cuarón comincia proprio da qui; un ristagno d’acqua sul pavimento che sta per essere lavato riflette un aereo che passa. Siamo negli anni ’70 della sua infanzia, in un quartiere borghese di Città del Messico chiamato Colonia Roma, e siamo invitati a entrare per circa un anno filmico (della durata di 135 minuti) nelle vicende degli abitanti della casa, ad affacciarci insieme alla domestica Cleo in quell’interno di famiglia.

Come Cleo, siamo tenuti in un certo senso a occuparci della casa e di chi ci vive, anche delle faccende più sgradevoli come l’onnipresente cacca del cane all’ingresso del patio, e vedremo come, nel corso della storia, quel territorio “minato” su cui la famiglia si muove non rappresenti soltanto un’allegoria delle vicissitudini a venire, ma turbi sottilmente l’ordine della casa fino al punto da rimproverare a Cleo, più volte di quante non faccia donna Sofia, non tanto quella disattenzione, ma quel deliberato rifiuto a coinvolgersi con la feccia (cosa che la porterà a non desiderare il figlio).     

Tra il dentro e il fuori, gli ambienti comunicano tra loro e informano lo spettatore anche in assenza degli interpreti, lo informano degli spazi e del tempo, della bellezza immutabile delle cose che riposano nella memoria, perché Roma è un film di geometrie familiari che perciò rimanda al vissuto personale di molti di noi, in quella porosità del tempo evocato, ricco di dettagli e sensazioni vaghe come la nostalgia, una tenda che ondeggia in una stanza vuota, un assolato terrazzo coi panni stesi. Anche il bianco e nero è uno di questi elementi, un linguaggio codificato della memoria, una rassegna profilmica di oggetti e situazioni consegnate alla nostalgia del cinema. Suoni (l’arrotino che grida per strada, la banda che scandisce il tempo) e sapori (il limone come condimento, l’uovo alla coque) rimandano anch’essi a gesti ordinari che furono, rituali mattutini, serate passate in famiglia davanti alla tv, così come il sottofondo della radio o le manovre di un parcheggio, perché in quella successione cadenzata e fumosa c’è il pathos dell’ultima attesa prima dell’abbraccio paterno.

Privo di qualunque accompagnamento musicale che non sia diegetico alla storia, scritto con pochi, stringati dialogati, sono le pure immagini che raccontano in Roma, e lo fanno nel modo denso e fotografico con cui ce le restituisce la memoria. Eppure Roma non è affatto un film statico, i movimenti di macchina e i piani sequenza cari a Cuarón ed altri cineasti messicani (Iñárritu, Ruizpalacios) sono un linguaggio delle azioni soggettive, laddove il soggetto è un limite, un restringimento improvviso di campo in una visione distesa come può esserlo il colpo d’occhio. Si pensi alla sequenza della guerriglia storicamente conosciuta come il Massacro di Corpus Christi (il governò sparò sugli studenti uccidendo 120 manifestanti) che intravediamo dal negozio di prodotti per l’infanzia insieme a Cleo, prima che i corpi paramilitari facciano irruzione portando la morte laddove si celebra l’inizio della vita; ma anche quella, magistrale, della spiaggia, dove la soggettiva è di natura emozionale e ci mostra in questo caso non ciò che Cleo vede ma ciò che prova, il coraggio che supera la paura, e questo prima dell’esplosione di gratitudine, affetto e sensi di colpa della piramide d’abbracci che campeggia giustamente sulla locandina del film.

In maniera trasversale, siamo dentro il cortile dell’immaginario di Cuarón, nella sua officina creativa; trasversalmente non solo per l’accorato ritratto della domestica Cleo che elegge a punto di vista (piuttosto che il piccolo se stesso, il minore dei quattro figli, che parla sempre di cose bizzarre e inventate), ponendo al centro del film il suo sguardo di donna di origine mixteca, di ragazza senza età, di madre senza figli; ma anche perché parte di quell’immaginario che da spettatori già conosciamo è posta lì in nuce, in uno schermo televisivo che contiene gli elementi futuri della filmografia del piccolo regista in erba, quando il suo alter ego guarda Abbandonati nello spazio di John Sturges, film di fantascienza del 1969 che subito ci riporta alla mente il suo Gravity (2013), svelandocene la genesi. Allo stesso modo, la guerriglia in strada del massacro di El Halconazo, quando Cleo esce dal negozio, rimanda al suo I figli degli uomini (2006).

Per questi e altri motivi, Roma non è affatto un film freddo, congelato nel suo bianco e nero abbagliante, nella sua bellissima forma estetica, nelle citazioni e nei virtuosismi registici. È, semmai, un film pudico, che restituisce dalla giusta distanza il, scrive lo stesso Cuarón, “ritratto intimo delle donne che mi hanno cresciuto, in riconoscimento al fatto che l’amore è un mistero che trascende spazio, memoria e tempo”. Pudico, appunto, come può esserlo l’amore quando si osserva nello specchio della memoria.  

Le verande stanno agli Stati Uniti come i cortili al Centroamerica e, come cantava De Gregori, “gli aerei stanno al cielo come le navi al mare”. Le forme si congiungono nelle similitudini e nelle geometrie familiari, si torna sempre a quel cortile, in qualunque posto si vada, per quanto ci si allontani e per quanti giri si facciano intorno al pianeta, c’è un momento in cui si è lasciato un pupazzo abbandonato vicino alla conduttura dell’acqua, forse perché si è stati chiamati a pranzo e nel frattempo diventati adulti, e in quel momento ancora carico di occasioni, si può tornare, e da lì guardarsi intorno senza alcuna fretta di crescere.  

Abbagliante.