Route 1095 di Celina Su ⥀ Traduzione e saggio di Marina Romani
Argo propone la versione italiana della poesia Route 1095 di Celina Su. A seguire il saggio Responsabilità e solidarietà: sulla traduzione della poesia di Celina Su a cura di Marina Romani
Route 1095
Provincia di Mae Hong Son, 2008
1. เขา้ ใจ
kao-jai
entra-cuore
Capire. Da Bangkok, mi ci vogliono sempre altri due giorni per arrivare. In un bungalow in mezzo ad un campo di riso, seduta, ascolto. Il trillo dei gechi, fragili, il gemito dei bufali d’acqua, il gocciolio lento di un ruscello, il gracidio delle rane. I beat distanti di musica trance, l’inno nazionale, le preghiere di una moschea, gong e canti di un tempio buddista, il silenzio degli spaventapasseri. Due ventilatori che ronzano, sempre.
Sono quasi dieci anni che vengo nel nord-ovest della Thailandia per lavorare insieme a una piccola ONG con bambini rifugiati birmani shan, eppure. Per entrare nel cuore non è necessario—
Quel ใจ (jai) indica sia la “mente” che il “cuore”. Quello a cui è più vicino è quello che non è
2. ปลุกใจ
plook-jai
sveglia-cuore
Risvegliare, incoraggiare all’azione. R- e K-, entrambi thailandesi, avevano organizzato una scuola informale, illecita, per i bambini rifugiati della zona. Senza essere pagati, per due anni. La frequenza giornaliera si aggirava attorno al 100%.
L’Ufficio del Distretto ha poi fatto chiudere la scuola informale. R- e K- hanno iscritto di nascosto i bambini a scuole thailandesi. Ora sono assistenti sociali invece che insegnanti. Puliscono il sangue dalle panchine, si occupano di assorbenti maxi, vanno a prendere i primi reggiseni al mercato del mercoledì, distribuiscono scarpe e uniformi, procurano certificati di nascita dall’Ufficio del Distretto. Il funzionario rimbecca, “Non lo sapete che è illegale aiutare chi non fa parte della vostra famiglia?”
3. ซ้ือใจ
seeuu-jai
compra-cuore
Influenzare tramite denaro. (Il mio potere qui è inquietante. Una laurea, un paio di proposte di finanziamento di successo, ma principalmente il mio passaporto). Dissona col modo in cui appaio alla gente del posto, tanto che indicano sempre il mio viso e mi chiedono da dove vengo. Magari dovrei lavorare a “casa”, o in America Latina, dove sono cresciuta all’inizio, anche se loro pensavano che sembrava come se io venissi veramente da… Dove conosco la lingua o forse riesco a navigare qualche situazione sociale).
R- e K- sono irrequieti, pronti ad andare avanti, ma continuano a lavorare, in parte per via dei finanziamenti che otteniamo. Sono una compra-cuore senza cuore. Loro dicono che siamo noi a renderla “una vera ONG”; loro sono “i lavoratori normali che aiutano i bambini”.
4. เกรงใจ
greng-jai
timore-cuore
Aver timore di avvicinarsi. Ho paura che il mio cuore non sia
pietrificato abbastanza. Non ancora. Dar retta ad infiniti
canti di lode per greng-jai nelle radio pop, nelle pubblicità
degli shampoo, nelle guide, nei miei manuali di lingua. Tener
strette le esperienze quotidiane in un’ineffabile politica di
paura e meraviglia.
Un mio amico aveva visitato Isaan, nel nord-est della Thailandia. Solo dopo aver lasciato Isaan ed essere arrivato a Bangkok, realizzò di aver dimenticato il passaporto. La proprietaria della pensione prese l’autobus delle 11 di sera per arrivare a Bangkok alle 4 di mattina col suo passaporto, e poi riprese l’autobus delle 5 di mattina per tornare a lavoro.
Cuori così grandiosi, così timorosi. Da una distanza sussurrata. Quando il mio amico visitò di nuovo Isaan, alcuni mesi dopo, scoprì che la proprietaria della pensione era violenta con i suoi lavoratori, specialmente con la rifugiata cambogiana, e non le pagava il salario. I lavoratori complottarono per mesi su come aiutare la rifugiata a scappare. In Cambogia. E nel frattempo, svilupparono una storia elaborata sul come lei dovesse andare via nel mezzo della notte non per scappare, ma per un’intricata “emergenza”, affinché la proprietaria della pensione non perdesse la faccia nel paese. Afferrare la poesia di una soggezione prosaica.
5. ใจเยน็
jai-yen
freddo-calmo-cuore
Essere equanime. Per rispondere, quando chiediamo se avessero avuto problemi con i soldati birmani, No. Quando chiediamo di nuovo, Ma no, no. A patto che pagassero la metà dei loro scarsi guadagni alla giunta militare come imposte. Purché ogni anno gli facessero da facchini per le loro armi. A condizione che gli stupri nei villaggi vicini li perseguitassero solo nel sonno.
Mantenere la calma, avere il sangue freddo, vivere senza gelare. Avere voce, poter accedere, spartire il proprio raccolto. Fare taglia-e-brucia sul proprio paradossale rifugio. Soffrire di un cuore temperato.
6.เขญ็ ใจ
ken-jai
spingi-cuore
Ritrovarsi bloccati in una vita improvvisata senza risorse. Stare in piedi con la schiena dritta, senza macchie sui denti, possedere tutte le dita, vivere a lungo, o solamente un po’ di più. Imparare a leggere, pensare ad alta voce, fare del cervello una tempesta. Sentirsi tirare e spingere allo stesso tempo.
Costruire un’altra capanna di paglia, estremamente infiammabile, anno dopo anno, e rimanere lì, intrisi dall’odore dolce di defolianti, circondati da formiche ardenti.
Camminare più lontano ogni settimana, andando a caccia di rocce sul letto del fiume, trasportandole a riva sulla schiena, riempiendo l’intero pianale del camion ogni giorno. Ridurle in polvere, impastarle fino a trasformarle in cemento, versarle nelle fondamenta di una casa per i figli di altri. Pesare il tuo valore in pietre.
7. ใจร้อน
jai-rawn
caldo-cuore
Avere la testa calda. Come me, sgraziata qui, incapace di leggere i sottili segnali sociali, incapace di manovrare anche autobus che si muovono lentamente. Passando di lì, una bambina, suo padre, sua nonna, e un cane sopra un motorino sfrecciano girando l’angolo, e dietro, chiocciando, un carro pieno di galline.
Due settimane dopo l’incendio della capanna, gli abbiamo chiesto se quell’anno fosse successo qualcosa di brutto, e non gli veniva in mente niente. Dopo che sua moglie “aveva trovato un nuovo marito”, dopo che lei aveva camminato per cinque giorni nella giungla solamente per finire in prigione per aver lavorato senza permesso, solamente una persona straniera potrebbe reagire a dettagli così insignificanti con un cuore bollente. Lascialo riposare, e al cuore crollerà una febbre da stadio (มีไขใ้ จ, mi-kai-jai, “avere-febbre-cuore”). In frantumi con sentimento.
8. กินแหนง
แดลงใจ
gin-naeng-kleng-jai
usa/mangia,
sospetta
dubita-cuore
Diffidare gli uni degli altri. Avere a cuore quello che è chiaramente un paese a medio reddito. Malaria eradicata, HIV / AIDS sotto controllo. La metro, ovattata e scintillante, se ne vola via. Il ghiaccio nei frappè di guava nei mercati all’aperto è, oh, così buono.
Fare fatica in un’economia politica dove riviste di capelli includono guide sulla svalutazione monetaria, e impiegati del 7/11 scambiano quattro chiacchiere sulle ONG. Dove donne lesbiche si fanno chiamare ทอมด้ี (tom-dee, lady-maschiaccio) perché ora “lesbica” significa “scena sexy tra ragazze” per i turisti sessuali. Dove le bancarelle di street food usano “Fondo Monetario Internazionale” come una parola in codice per “austerity” o “affare”: ไกท่ อด FMI! (gai-tawt-FMI, “pollo fritto FMI!”). Attraverso il microcredito, il potere del mercato, la promessa di un franchising.
9. หัวใจ
hua-jai
essenziale /
cervello-cuore
Il cuore anatomico. Trasalire per la violenza strutturale, l’“inadempienza” delle madri a far vaccinare i bambini. Le afflizioni più comuni dei rifugiati, schiene rotte, pterigio (occhi sfregiati dal sole), arresto della crescita per malnutrizione, dita mozzate e dolore fantasma. Lasciare la tecnologia medica ai farang; era la loro, innanzitutto.
Mantenere un cuore della giusta misura. Essere น้อย (noy, “piccolo”) è nutrire rancore, essere ยักษ์ (yak, “gigante”) è diventare brutale. Ma essere ใหญ่ (yai, “grande”) è semplicemente osceno, appariscente.
Stare dalla parte giusta del confine tempestoso. In Laos, con tante bombe americane avanzate da usare come vasi per le piante, decorazioni per ristoranti, per ricoprire giardini. In Cambogia, dove, così dicono, i caschi blu, soldati delle Nazioni Unite, hanno trasformato il paese in una democrazia negli anni ‘90. Ora stanno fermi, stretti a sex worker di cera.
10. ใจดี
jai-di
buon-cuore
Essere gentili.
ดีใจ
di-jai
cuore-buono / bene
Essere felici. Un’inversione di bontà, la felicità. Gravidanze adolescenziali, abuso di droga, gioco d’azzardo. Essere patologicamente sociali, giocare col destino per un cuore zampillante di lacrime.
เหน็ ใจ
hen-jai
vedi-cuore
Commiserare. Riscrivere in traduzione. Non tramite un integrarsi apparentemente perfetto o romanzate formalità. Contemporaneamente scomparire e tappezzare il mio stato d’essere—decoupage nel contesto di assenza di stato, apolidia senza documenti: Come se un rifugio fosse letterale o metaforico, conforto che solamente implora una dottrina. Mettere in discussione la leggibilità, se quello che ho scritto era quello che hanno letto: Le mie camicie non hanno colore. La parte superiore delle mie ginocchia cineree coperte dalla terra, come se questo posto potesse infiltrarsi nella mia pelle—Ogni golpe o presidente o insegnante che chiama i nostri nomi, che mi porta di fronte alla classe, che mi rende un reperto di—Quei simboli che non possono essere distrutti, cooptati, fottuti e tramandati, nemmeno con la bellezza di mezzo-sangue.
Provare sorpresa. Il mio cuore si è normalizzato; si è raffreddato.
11. ระหลาดใจ
praelad-jai
strano-cuore
Davvero? จริงๆไหม? Jing jing mai? Per Kamloo, Pao, Sangkor,
Pai, Swaymud, Amporn, Taworn, che hanno scritto. จริงใจ (jing-jai, “vero cuore”). Essere sinceri. Per rispondere a mille domande, ne abbiamo create di nuove: Riguardo alle giunte militari su giorni e giorni annebbiati ed eserciti ribelli su notti dagli occhi annebbiati, riguardo al furto di paure. Riguardo al calciare palle di sepak in alto verso il cielo, vagando nella notte per scrutare le sepolture segrete delle memorie “perdute” di lei, nell’età che chiamiamo “undici”.
(I biglietti erano così cari, 3000 baht a persona. Allora abbiamo camminato per cinque giorni e cinque notti. Nella giungla, due giganti mimetizzati ci hanno dato tre polpette di riso. Mia sorella che aspettava pazientemente il suo ottavo compleanno, il suo turno di andare a Bangkok, per raggiungere mia zia, per lavorare—)
Ogni inciso tra parentesi una caramella gommosa che mi perseguita, appiccicata alla bocca, infilata sotto la lingua, quasi mascherata dal sapore melenso dei pesticidi nei campi d’aglio.
(Mio padre stava raccogliendo bambù e dando da mangiare ai bufali, ma dopo due anni abbiamo di nuovo attraversato il confine verso la Thailandia quando i soldati hanno sparato alla gente vicino al mio—Mia madre è ancora malata e non può toccare l’acqua piovana. E quando questi permessi di lavoro scadranno, ce ne andremo, torneremo al confine, vivremo in uno spazio intermedio, alla deriva, svanendo in una linea che dobbiamo attraversare ancora, e ancora, e).
Un cittadino modello, anni 5
(Da grande, diventerò un soldato thailandese, e arresterò i migranti birmani trafficanti di droga, ma le loro madri saranno molto, molto. Con i figli in prigione, perché non possono vederli, perché loro non sono cattive).
Photo ©: Celina Su
Route 1095 da «Landia» (Brooklyn, NY: Belladonna*, 2018), pubblicata per la prima volta su Boston Review (2017).
Responsabilità e solidarietà: sulla traduzione della poesia di Celina Su
Né io né Celina siamo cresciute parlando inglese, eppure questa è la lingua che pervade innumerevoli dimensioni della nostra vita. Ed è la lingua della nostra amicizia. Durante le nostre conversazioni sulle politiche del linguaggio, riflettiamo spesso sulla fluidità nel navigare diversi registri linguistici e culturali, e sulle relazioni di potere che emergono in diversi spazi – istituzionali, politici, personali.
Nella sua scrittura, Celina affronta in maniera profonda questi temi. Poeta e accademica impegnata, Celina è professoressa di scienze politiche a City University of New York e autrice di numerose pubblicazioni su participatory governance, pedagogia critica, e diritti civili e razziali. Landia (Belladonna*, 2018), la sua prima collezione di poesie, è una riflessione su geografie reali e immaginate, topografie di lotta e ineguaglianza, intimità dello spazio, confini e l’attraversamento di essi. Nelle parole del poeta Cam Scott, le poesie di Celina sono «sbalorditivi glossari di anti-imperialismo».
Della scrittura di Celina, mi colpiscono la sensibilità verso le relazioni multiculturali e la pressione che lei pone sul linguaggio stesso. Celina sconvolge le gerarchie linguistiche e usa l’inglese per evidenziare disuguaglianze sistemiche. Allo stesso tempo, riflette sulla sua posizionalità all’interno di strutture discriminatorie globali. L’inglese può essere un simbolo di egemonia imperiale. Ma quello di Celina non è estrattivo: il suo inglese è spazioso e multi-dimensionale, diventa terreno per analisi critica, e serve a portare alla luce squilibri di potere.
C’è una sezione in Landia che mi ha coinvolto profondamente: la poesia multilingue Route 1095. Ho chiesto a Celina il permesso di tradurla in italiano. Nella mia pratica di scrittura e traduzione, sono attratta da ciò che emerge nell’attraversare lingue e culture, e nelle responsabilità etiche e politiche che questi attraversamenti interculturali comportano: chi ha il privilegio di attraversare, tradurre, ed essere tradotta? Trasportare le parole di Celina in una lingua che conosco intimamente rappresenta per me un’esplorazione di questi temi.
Il processo di traduzione di Route 1095 è stato anche uno spazio per interrogare la mia posizionalità e le gerarchie che fanno parte del mio uso del linguaggio. Essendo una persona bianca, queer, nata in un villaggio abruzzese, e avendo vissuto in Europa e negli Stati Uniti, non posso afferrare le sfumature e le profondità di certe esperienze. Il lavoro di traduzione mi permette di dare voce a questa impossibilità e, allo stesso tempo, sfruttare la mia lingua per condividere il lavoro di Celina con un pubblico più ampio.
⥀
Il viaggio di Celina sulla Route 1095 è cominciato nell’inverno del 2001, quando si trovava in Thailandia per collaborare su un progetto di youth empowerment. «Route 1095», Celina spiega, «è una strada tortuosa attraverso le montagne che connette il centro urbano di Chiang Mai alla cittadina di Mae Hong Song, al confine settentrionale col Myanmar. Varie comunità vivono e viaggiano in queste zone, tra cui i Thai e gli Shan, migranti birmani, gruppi chiamati “tribù delle colline”, genti indigene e migratorie come i Lisu e i Karen».
La scuola informale con cui Celina collaborava era organizzata da insegnanti thailandesi:
«c’erano diseguaglianze nel gruppo, e tensioni tra la comunità thailandese locale (specialmente burocrati del governo) e i migranti birmani. Nonostante ciò, gli insegnanti volontari – che non erano né impiegati né supportati dal governo locale – avevano ottime relazioni con le comunità di migranti e rifugiati. Come illustro all’inizio della poesia, la scuola aveva una frequenza giornaliera quasi completa, che è sorprendente considerando il fatto che non era obbligatoria. All’inizio, il mio obiettivo era semplicemente di connettere il gruppo al panorama internazionale delle ONG e fare in modo che la scuola ricevesse fondi per l’acquisto del materiale scolastico».
Per più di un decennio, Celina è tornata in Thailandia vivendo ogni anno per vari mesi con le comunità locali. Negli anni, ha sviluppato una relazione profonda con la scuola informale – con gli insegnanti, gli studenti, e le loro famiglie. Nonostante avesse imparato molto sulle politiche locali e le ineguaglianze nelle comunità di migranti birmani, si trovava continuamente ad affrontare quesiti cruciali: «come supportare le comunità locali, e allo stesso tempo fare in modo che esse abbiano il pieno controllo su risorse e decisioni? Cosa significa essere simultaneamente un insider e un outsider?» Celina è particolarmente fiera di alcuni dei bambini che facevano parte dell’organizzazione sin dall’inizio. A quel tempo avevano 5 anni, ed ora ricoprono i ruoli di Executive Director, Tesoriere, e Insegnante Principale. Finalmente, Celina dice, «nessuno prende decisioni al posto loro».
Dopo aver passato tanto tempo a collaborare con educatori e attivisti locali, Celina ha capito di non possedere davvero il vocabolario per descrivere questa esperienza. Non voleva dare forma ad una storia che s’incastrasse in una narrativa specifica o in paradigmi storici o accademici predefiniti. Lei sottolinea che queste tensioni sono inerenti quando si usa un modello partecipatorio – ossia uno in cui le comunità locali hanno il controllo sulle risorse che le ONG esterne forniscono.
«Sono consapevole della mia posizione nelle comunità che serviamo. Durante il tempo passato lì, ho capito di dover essere costantemente riflessiva, analizzare il ruolo del complesso industriale delle non-profit in modi più sottili e più espliciti, inclusa la mia complicità nel savior complex. Un altro punto fondamentale è stato il navigare una società in cui io stessa potevo essere vista come una persona locale perché sono di discendenza asiatica. Pur avendo una certa familiarità sul cosa significa vivere in uno spazio liminale e da outsider, avendo molta esperienza col mio essere vista come una straniera perpetua negli Stati Uniti, nel nuovo contesto in Thailandia ho dovuto riesaminare tutto quello che pensavo di sapere».
Celina vive a Brooklyn, New York, ed è cresciuta in Brasile da genitori cinesi-taiwanesi. Ha cominciato a parlare l’inglese solamente alle scuole medie, ed è forse per questo che le sfumature delle lingue la affascinano: «Mi sono appassionata alle frasi idiomatiche o le metafore integrate nel linguaggio quotidiano, specialmente nell’imparare una lingua per me nuova, come il thailandese». Route 1095 crea uno spazio in cui le norme del linguaggio quotidiano creano un senso di disorientamento: «mi interessa svelare come diventiamo desensibilizzati e come possiamo sensibilizzarci di nuovo al linguaggio che usiamo e, così facendo, tentare di adottare comportamenti o persino ideare progetti politici».
In Route 1095, così come in tutta la collezione, Celina destabilizza il testo incorporando, invece che eliminando, le contraddizioni. Interroga la costruzione della propria identità sociale, e come essa possa essere interpretata in contesti diversi:
«Mi piace portare alla luce domande sulla mia posizione e posizionalità – e quindi la mia prospettiva – così da mostrare come ogni esperienza sia soggettiva. Non sto cercando di comunicare una verità oggettiva. Sto cercando di mettere in discussione l’idea di una verità oggettiva mentre faccio attenzione a diseguaglianze nella vita quotidiana».
Nel mio rapporto con Celina, percepisco quello che Natalia Diaz chiama «il rigore e il radicalismo dell’amicizia». La nostra collaborazione è un modo di evidenziare margini e sottotesti delle nostre esperienze linguistiche e culturali. È un modo di vivere attraverso / con-vivere un diverso tipo di appartenenza. Ed è una presa in considerazione costante di cura e responsabilità. Durante una delle nostre videochiamate per discutere la traduzione, Celina ha dato voce qualcosa che è rimasto con me:
«Nel nostro dialogo costante, nel pensare attraverso lingue diverse, nel mio lavoro, penso sempre a come mettere in pratica ecologie di cura e solidarietà, come mantenere le dimensioni intime e soggettive a portata d’occhio senza focalizzarsi solo su se stessi. Come poter parlare di cose con umiltà ma allo stesso tempo cercando di dare un contributo a parte il raccontare la nostra esperienza personale? Come riuscire a mettere in pratica il rispetto quando le relazioni sono cariche di differenze di potere? Riflettere sul linguaggio è uno dei modi in cui tento di affrontare questi temi».
Sono grata a Celina per il suo riuscire costantemente ad articolare questi temi in maniera profonda ed efficace. Ho portato queste riflessioni con me mentre mi immergevo nel lavoro di traduzione. E le porto con me nel vivere le mie molteplici identità e nel coltivare relazioni in tante lingue, dentro spazi in cui sono in continuo movimento asimmetrie di potere così come riflessi luminosi di solidarietà.
(Marina Romani)
(English version: On Translation, Responsibility, Solidarity: Celina Su’s Route 1095)
Celina Su è nata a São Paulo, Brasile, e vive a Brooklyn, NY. È professoressa di scienze politiche e Marilyn J. Gittell Chair in Urban Studies alla City University of New York. Le sue numerose pubblicazioni accademiche includono Streetwise for Book Smarts: Grassroots Organizing and Education Reform in the Bronx (Cornell University Press) e Our Schools Suck: Youth Talk Back to a Segregation Nation on the Failures of Urban Education (co-autrice, NYU Press). Il suo lavoro accademico si concentra su lotte di governance collettiva, giustizia civile e razziale, democrazia economica. Tra vari riconoscimenti prestigiosi, ha ricevuto il Berlin Prize e Whiting Award for Excellence in Teaching. Nel 2000, Celina ha co-fondato il Kwah Dao, the Burmese Refugee Project e ha ricoperto il ruolo di Executive Director fino al 2016. Come poeta, Celina è autrice di due chapbooks (Plurality Decree, 2015, e Beyond Relief con Ariana Reines, 2013) e della collezione Landia (Belladonna*, 2018). Le sue poesie e i suoi saggi sono apparsi sul New York Times Magazine, Harper’s, n+1, Poetry Foundation e numerose altre riviste. È possibile consultare i suoi lavori su Celina.Su.net.
Marina Romani è artista multidisciplinare, traduttrice, e ricercatrice. Insegna sociologia dei processi culturali e cross-cultural communications alla University of California, Berkeley. Nata in Abruzzo, Italia, la sua carriera accademica e artistica si è svolta principalmente negli Stati Uniti. Ha conseguito il PhD in Italian Studies e Film presso UC Berkeley e l’MA in Comparative Literature presso il King’s College London in UK. Ha presentato le sue ricerche nelle istituzioni più prestigiose di Stati Uniti ed Europa (Yale, UCLA, New York University, tra le altre) e insegna corsi di lingua e cultura (storia, cinema, letteratura, scrittura e ricerca, critical thinking) a UC Berkeley. Inoltre, ha lavorato come esperta linguistica e culturale in aziende della Silicon Valley. Marina è performer di musica afro-portoricana, e ha svolto per tanti anni l’attività di critica musicale. Dal 2016, Marina ricopre il ruolo di Resident Scholar and Expert per UN Women’s Global Voices Film Festival. Vive tra l’Italia e la Bay Area, California. È possibile consultare i suoi lavori e pubblicazioni su marinaromani.org e su IG: @marina_nella.