Sei unghie da smaltire, e un fiume ⥀ B-sides per Lizzie ~ 2004 di Tommaso Ottonieri
Tommaso Ottonieri in uno scritto sul suo lavoro di commistione del testo poetico con la canzone rock (Trent Reznor, PJ Harvey, Nick Cave, John Balance). Seguono alcuni suoi testi
Sgranata d’occhi, rossoramata la chioma, splendido il corpo semimmerso in liquido giaciglio, patchwork erbaceo-floreale in pop-up (simbologie del dolore, dell’oblio, dell’innocenza, dell’incorrispondere, del sonno, della morte… olmarie, ranuncoli, lisimachie, papaveri, recisi fiori galleggianti nell’oscurità semistagnata d’erbe acquatiche), nell’inchino del salice, la corona d’ortiche, la figura ofeliata, diafana, di Lizzie Siddal posò per interi giorni, fino a svenire, nella vasca resa di più in più gelida dalla rottura delle lampade riscaldanti, posando per John E. Millais. È da allora che il suo mito di arcimodella gothic inizia a gonfiarsi sempre più spessamente di tenebra; i danni polmonari, l’abuso oppiaceo del laudano (di più in più addizionante), l’incontro con Dante Gabriele Rossetti, il matrimonio tardivo (lei, umile d’origini, tanto malaccetta per la famiglia di lui), il parto d’un feto morto, il suicidio, in overdose dal farmaco, nel febbraio del 1862, circa dieci anni dopo la sua posa in Ofelia. Ma soprattutto, post-mortem: la distruzione della sua lettera d’addio; l’interramento col quaderno dei versi (copia unica) da D.G. scritti per lei, infilato nel funerario rame dei capelli. Immaginiamoli crescere, a dismisura, ancora sette anni, nell’avello di Highgate (in seguito, dicono, terreno di scorribanda di vampiri); sette anni dopo, ineffabilmente, dissennato lo sposo (invitato da Lizzie, a suo dire) decise di violare la sepoltura per recuperare i suoi versi, commettendo uno dei gesti più stupranti che sia dato immaginare nel lungo arco stuprante della Storia: e la ritrovò meravigliosamente intatta, dicono: solo i capelli, sempre più accesamente rossi, prolungatisi a dismisura, impigliatisi in tutto, lievitati nella bara, saturandone, come esplodendone, l’esiguità dello spazio. Ofelia, ancora Ofelia, nel letto-acqua (semiambrato) della capigliatura ormai escresciuta, lei stessa, in corrente. E di sicuro, non meno abnorme, l’affilata/illividita estensione delle unghie, per la vita seminfinita delle cellule.
Lizzie, musa-cadavere, corpse bride, fu però anche a se stessa musa; estimatore dei suoi, pur schematici (più “moderni”, diremmo adesso), schizzi e dipinti fu John Ruskin: ma soprattutto, si fece poeta in proprio, autrice di versi non molti ma spesso impressionanti, tutti fibrillazione di spiriti fluttuanti, di sguardi fissi nel buio, e poi intrecciate ramificazioni in foreste scure e silenti, sulla faccia d’una Terra dove mai l’amore è concesso. Una delle liriche, A year and a day, è una sorta di necrotico autoritratto in quasi-Ofelia, immersa in letto d’erba piuttosto che di acqua («I lie among the tall green grass | that bends above mi head | and covers up mi wasted face | and folds me in its bed |tenderly and lovingly | like grass above the dead»); in un’altra, At Last, una aspirante suicida impartisce meste e lucide istruzioni alla madre, su come gestire il suo post-mortem («And mother dear, when the sun has set | And the pale kirk grass waves, | Then carry me through the dim twilight | And hide me among the graves»). Ma è da un’altra, Fragment of a Ballad, centrata sul tema d’un abbandono e successivo, inopinato ritorno dell’amante, che trassi un distico utilizzandolo nell’epigrafe della sezione finale, in prosa, della mia Elegia Sanremese, quando nel ’98 pubblicai e in parte scrissi quel volume; «I felt the wind strike chill and cold | And vapours rise from the red-brown mould; | I felt the spell that held my breath | Bending me down to a living death»: l’epigrafe riportava, ovviamente, gli ultimi due, magnifici, metallici versi. È in quella musica strana, battuta, popolare, irresistibile, che anche sentii trattenersi il mio respiro, tratto di scuro incantamento: avvertii il flettersi in vivente morte di quei miei ricantati canti come da un livido-carezzevole Carnevale d’Anime. È da lì che si sporse, in quelle pagine, il fantasma (o lo zombie) di Tenco, dal sepolcro del suo albergo morto.
E allora altri, non meno scuri, frammenti di ballata cominciai a raccogliere e violare, a riscrivere (come già una ventina d’anni prima, con Durante Frasca Frixione ai tempi di Beat), nella elegiaca frenesia luttuosa di quel mio tempo che dové poi estendersi a sbalzi e ancora, la mente volta a pantomime d’Ofelia, a giro su qualche orfico carosello di fantasmi (di un non nascere che pure già è esser morti: urticante chimera di trite canzonette). A cominciare appunto dalle Murder Ballads, di Nick Cave in quel caso duettante, con PJ Harvey specialmente in una traccia e videoclip di duraturo culto; passando per i demoniaci amorosi deserti della medesima Polly Jean; all’urtante ago di Trent Reznor, pochi anni dopo fatto proprio da Johnny Cash, e, da lui, tradotto in cullante ballata; fino ad alcuni versicoli di John Balance (o in ogni caso dei Coil), del cui originale ho perduto traccia. Per avventura (o nemmeno troppo), PJ volle farsi ritrarre, nell’immagine di copertina del suo album del ’95 (To Bring You My Love), nella posa-Lizzie di Ofelia, capelli (ma neri, i suoi) fluttuanti nell’acqua al pari del rosso (ecco) scintillante della veste; memoria di Millais, o di Lizzie? Memoria comunque dell’acqua, dello scorrere gelido del fiume; soltanto adesso, che ricompongo quei frammenti sparsi dal dopo-Elegia e fin circa il 2004 nella strana chiarità d’un desiderare raggelato, che lucente d’unghia mi racchiuse come nell’amoroso incantamento d’un lungo viale sepolcrale, trovo altro fiume, scandinavo stavolta, lenitivo: e l’immagine, ancora Ofelia, ancora Lizzie, di nuova Aurora-elfo, annegata in rossi petali di rosa: e nuovamente fiori, piccoli, di campo, ma escono dall’acqua bevuta degli occhi, ricamati oltre la fine, richiamano, come fosse possibile, flusso ancora, fusione di brina, freddo alito celestiale.
(Tommaso Ottonieri)
⥀
mi ferisco a capire se sento
e concentrico al dolore apro un foro,
queste tempie di spina corono
le trapasso di assilli e di accenti:
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come fenice alle lingue del fuoco
. giri sottile
braci stampando al nero cuore e vuoto
. nel nudo aprile
e la mia croce portava il tuo nome
. liquida fiamma
strugge la salma nell’occhio veloce
. d’astratta danza
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dal deserto, dall’onda
dalla piena di creste
dalla roccia dai mari
su, da cieli, abissali
. qui in ginocchio, rimasto
. attendendo il tuo amore:
arse vene al deserto
quando il sole s’è estinto
d’unghie incisa la lastra
dura carne che strido,
. qui socchiuse, le labbra
. attendendo il tuo amore:
⥀
nel più arso abbandono
l’oppressione del vento
implorato il suo volto
ma il tuo dono è il deserto
l’edificio è maceria
questa stanza una cella
e supplizio è l’attesa
entro oscuro di stella
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a te più incomparata
danno è il soffio del mondo,
dal ruggito dell’aria
come lama t’affondi,
io che avvolto di tela
qui caduto d’un tonfo,
macerando alla melma
cupa al fondo del pozzo
⥀
come conchiglie vuote
sogni senza memoria
dai fili pendono sulla vita
alla fine del dolore
. (come d’unghie riverberi
. resta immemore il tempo,
. smalto è il giorno che è inverso
. dalla terra giù smossa)
⥀
. {Poscritto; il fiume}:
. Raccogliendo le braccia
. Qui bevuti i miei occhi
Stretto a sterno di passero
. Che nell’urto s’è storto:
. Io bruciando dall’ombra
. Cerco un lembo di pelle
. Per cucirmi sul fondo
. Mentre scorro serpente
da Nine Inch Nails 1995 (1), PJ Harvey 1995 (2,3,4), Nick Cave 1996 (5), Coil s.d. (6).
Poscritto: da Aurora Aksnes 2019.