Sempre ignorato teatro ⥀ Lettera aperta di Daniele Timpano
I tagli al FUS e la crisi di un settore abbandonato dalla politica culturale italiana. Riflessioni di un artista sulla crisi strutturale del teatro contemporaneo italiano
Pubblichiamo una lettera aperta di Daniele Timpano (1974), pluripremiato attore, autore e regista teatrale. L’artista è stato ospite alla XX edizione del nostro festival internazionale di poesia totale La Punta della Lingua, vincitrice del bando FUS sezione Teatro di Poesia.
Con Elvira Frosini, nel 2008 Timpano ha fondato la compagnia Frosini/Timpano. Tra gli spettacoli della compagnia la trilogia Storia cadaverica d’Italia, che comprende Dux in scatola, Risorgimento pop e Aldo morto; Ecce robot!, Sì l’ammore no, Zombitudine, Acqua di colonia, Digerseltz, Gli sposi, Carne, Disprezzo della donna, Ottantanove, Tanti Sordi.
Per il suo straordinario talento e la sua lunga esperienza sulle scene, le parole di Timpano assumono una valenza ancora maggiore in questo periodo di grave crisi per l’Italia, dove oltre ai salari più bassi dell’Europa occidentale si registra uno scollamento sempre più ampio tra rappresentanza politica e popolo.
Per capire, in particolare, la situazione dei teatri italiani, immaginateli come piccole imprese, ma con una missione speciale: portare storie, musica e danza sul palco per farci conoscere la realtà con il cuore, la mente e il corpo. In Italia, i teatri sono una parte fondamentale della cultura, ma dietro le quinte la situazione è spesso più complessa di quanto sembri.
La stragrande maggioranza dei teatri italiani dipende in modo cruciale dai soldi che arrivano dallo Stato (principalmente tramite il Ministero della Cultura) e dagli enti locali (Regioni, Comuni). Questi fondi servono a coprire i costi fissi (affitto, bollette, personale, manutenzione) e a finanziare la produzione degli spettacoli. Senza questi contributi, la maggior parte dei teatri non riuscirebbe a sopravvivere.
I soldi che si ricavano dalla vendita dei biglietti, per quanto importanti, raramente bastano a coprire tutte le spese. Produrre uno spettacolo è costoso: ci sono attori, registi, scenografi, costumisti, tecnici, musicisti, e poi le prove, le scenografie, i costumi, ecc.
Alcuni teatri riescono ad attrarre sponsor privati o a ricevere donazioni. Questo è un aiuto prezioso, ma non tutti i teatri hanno la stessa capacità di attrarre questi fondi, soprattutto quelli più piccoli o meno celebri.
Lo Stato distribuisce i suoi contributi attraverso un fondo chiamato Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS). Questo fondo ha delle regole precise su come vengono assegnati i soldi, basate sulla qualità artistica, sul numero di repliche, sulla capacità di attrarre pubblico e sulla stabilità finanziaria. Queste regole sono spesso oggetto di dibattito, perché influenzano direttamente la sopravvivenza e le scelte artistiche dei teatri. In effetti, in questi giorni, dopo la pubblicazione delle nuove graduatorie del FUS, le scelte effettuate dal Ministero della Cultura sono al centro di grandi polemiche.
Anche le Regioni e i Comuni hanno un ruolo importante, decidendo quanto investire nei teatri del loro territorio. Questo significa che la situazione può variare molto da una città all’altra, a seconda delle priorità politiche locali.
Le decisioni politiche sui finanziamenti possono avere un impatto diretto sulla programmazione di un teatro. Un teatro con pochi fondi potrebbe essere costretto a ridurre il numero di spettacoli, a scegliere produzioni meno costose o a tagliare sui costi del personale. Questo rende difficile fare investimenti a lungo termine o sperimentare nuove forme artistiche.
Comprendere questo sistema ci aiuta a capire perché i biglietti a volte possono sembrare cari (anche se spesso sono sussidiati dai fondi pubblici), o perché un teatro magari non riesce a proporre sempre le produzioni più ambiziose. I nostri teatri sono un patrimonio imprescindibile, ma la loro salute dipende da un equilibrio delicato tra investimenti pubblici, capacità di generare ricavi propri e una gestione attenta.
Sostenere il teatro, ripartendo in modo adeguato le risorse e andando a vedere uno spettacolo o semplicemente informandosi, significa contribuire a mantenere viva una parte fondamentale della nostra cultura plurimillenaria. Argo intende amplificare il grido che sta provenendo dal mondo del teatro e che si aggiunge a quelli del cinema e dell’editoria, perché abbiamo bisogno di una nuova alleanza, di una nuova unità.
(Valerio Cuccaroni)

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Sempre ignorato teatro
Lettera aperta di Daniele Timpano
Pontificando ma umilmente dico che i presenti esiti della commissione consultiva danza e festival multidisciplinari, come quelli appena usciti per la prosa e i festival teatrali non sono un cambio di rotta ma una scelta coerente in continuità con la linea precedente che va avanti già da quando muovevo i primi passi nel teatro, 20-25 anni fa, e che ha avuto un salto di qualità nel pessimo 2025.
Solo che il presente Governo e la presente Commissione stanno segando via i margini di democristiana pioggia di spiccioli sulle realtà che (a torto, a tortissimo) da sempre ogni governo che abbiamo avuto nell’ultimo quarto di secolo giudica meno rilevanti e sacrificabili ma che per equilibri fragili costruiti negli anni (in parte vivaddio anche per merito) erano comunque tenuti sinora dentro il recinto degli animalini da proteggere.
Posso essere d’accordo con chi dice che c’era meno paura e meno rischio di estinzione per il settore del contemporaneo teatrale tra il 2025 e il 22 ottobre 2022, cioè prima di questo Governo, che persino in pieno Covid c’era meno rabbia e frustrazione e meno senso di aspettar un Godot che poi arriva e ti bastona, e pure notare quanto qualcuno sia stato bravo a ricalibrare per sé posizioni di relativa comodità negli ultimi anni o anche di relativa espansione delle proprie attività nonostante la riforma Franceschini ma una briciola non è un pasto e un fragile sostegno non è una linea culturale e che quella sua riforma del 2025 non sia da criticare severamente e non abbia contribuito a erodere tutto già prima di queste ultime spallate non sarò mai d’accordo.
Né potrò mai negare di pensare che l’onda insieme neoliberista e conservatrice non venga da molto più lontano, perlomeno dalla fine anni ’90. Né negar d’aver notato come il nemico prima di arrivar da destra abbia marciato e marci ancora nelle nostre stesse scarpe.
Ma. Ma. Ma
D’altronde che ne posso sapere io? Ho iniziato a lavorare in teatro in un momento in cui il mondino del teatro, non solo quello contemporaneo, era già in rotta verso il restringimento economico, il tramonto degli spazi nel discorso pubblico, l’inseguimento dei bandi europei e del loro linguaggio, con le loro ricette a base di tematiche favorite, ricorrenze e fasce d’età premianti, la semplificazione del linguaggio ed il ritorno al messaggio educativo civile o alla storiella da raccontare con i personaggini tipo film o serie, o direttamente la marcia indietro entusiasta verso il classico che conoscono tutti da contrapporre a quelle cose strane che il popolo non capisce.
Che ne so io che sono nato già col giogo sul collo e ho dovuto imparare subito il ricatto della logica feudale e cortigiana di programmatori con rendite di posizione costruite e difese da decenni che paternalisticamente si ricordavano o non ricordavano di te una volta sì e 27 no e quella volta ti sentivi in dovere di sentirti commosso e grato.
Che ne so io del bene e del meglio, io che non ho visto mai neanche il benino e che ho sempre lavorato tra il pessimo da una parte e dall’altra gli sforzi teneri, da amare e difendere, di alcuni che in questo paese fanno di tutto, tra difficoltà e contraddizioni e discontinuità, per dare senso a quel che fanno, incontrare un pubblico autentico sul territorio, continuare a esistere anno dopo anno?
Che ne so io, che solo una vita di piccole soddisfazioni, piccoli incontri belli, qualche premio, qualche soldo ma non troppo e molto, molto disgusto ho accumulato in questo quarto di secolo di vita nel teatro italiano?
E meno male che mi ci scaldo ancora, almeno, per queste nostre miserie del mondo nostro del teatro, che ormai siamo e che amiamo, nonostante tutto amiamo, se no tanto varrebbe davvero non esser nati. Se devo pure esser tiepido, oltre che sentire che tutto quello intorno a me, come fosse una psoriasi e non valore, vien grattugiato via dalla storia, tanto varrebbe chiudermi in un buco e buttarmi da solo un pugnetto di terra addosso.

Valerio Cuccaroni
Dottore di ricerca in Italianistica all’Università di Bologna e Paris IV Sorbonne, Valerio Cuccaroni è docente di lettere e giornalista. Collabora con «Le Monde Diplomatique - il manifesto», «Poesia», «Il Resto del Carlino» e «Prisma. Economia società lavoro». È tra i fondatori di «Argo». Ha curato i volumi “La parola che cura. Laboratori di scrittura in contesti di disagio” (ed. Mediateca delle Marche, 2007), “L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila” (con M. Cohen, G. Nava, R. Renzi, C. Sinicco, ed. Gwynplaine, coll. Argo, 2014) e Guido Guglielmi, “Critica del nonostante” (ed. Pendragon, 2016). Ha pubblicato il libro “L’arcatana. Viaggio nelle Marche creative under 35” e tradotto “Che cos’è il Terzo Stato?” di Emmanuel Joseph Sieyès, entrambi per le edizioni Gwynplaine. Dopo anni di esperimenti e collaborazioni a volumi collettivi, ha pubblicato il suo primo libro di poesie, “Lucida tela” (ed. Transeuropa, 2022). È direttore artistico del poesia festival “La Punta della Lingua”, organizzato da Nie Wiem aps, casa editrice di Argo e impresa creativa senza scopo di lucro, di cui è tra i fondatori, insieme a Natalia Paci e Flavio Raccichini.
(Foto di Dino Ignani)