SHOUT! ⥀ Immagini e oralità nella lotta afroamericana

I can’t breathe: le parole di George Floyd esprimono un fallimento strutturale della società statunitense, che coinvolge le forme del linguaggio e attraversa l’intera storia afroamericana. Una storia di lotta in continuo dialogo con le arti visive

 

I poliziotti se ne stavano a gruppi di tre o quattro, nelle loro uniformi truci, con le loro facce truci, perplessi come può essere perplesso un maschio americano di fronte a qualcosa che non possa essere sistemato con una mazzata, un cazzotto o una pistolettata. Ne avrei avuto persino compassione se non mi fossi trovato tante volte alla loro mercé e non avessi sperimentato, una ben triste esperienza, che cosa quella gente è capace di diventare quando ha il potere dalla sua parte, e che cosa invece diventa quando il potere è dalla tua.
James Baldwin, La prossima volta, il fuoco1

 

Se non si vedrà la felicità nell’immagine, almeno si vedrà il nero.
Chris Marker, Sans Soleil2

 

Il 25 maggio 2020 a Minneapolis l’agente Derek Chauvin teneva il ginocchio premuto sul collo di George Floyd per 8 minuti e 46 secondi, provocandone la morte per asfissia. Gli ultimi minuti di vita dell’uomo sono stati filmati e in breve tempo sono diventati la macabra testimonianza audiovisiva dell’ennesimo omicidio perpetrato da forze di polizia ai danni di cittadini afroamericani. Chi è riuscito a sopportare la visione dell’agonia di George Floyd sa che l’uomo ha tentato invano di salvarsi, una volta immobilizzato, comunicando il proprio dolore ai poliziotti. «My neck hurts. My stomach hurts. I can’t breathe». L’appello si è rivelato inutile. Alessandro Portelli su «il manifesto» qualche mese fa ha analizzato quelle immagini evidenziando quanto la staticità del corpo di Floyd, schiacciato dal ginocchio di Chauvin, rispecchi l’episodio di san Giorgio e il drago, rovesciandone i ruoli:

 

«C’è qualcosa di mitologico nell’immagine del poliziotto col ginocchio piantato sul collo di George Floyd: san Giorgio che calpesta il drago sconfitto, la divinità purissima che schiaccia il serpente, il cacciatore bianco sull’elefante ucciso in safari. Sono figure della vittoria della virtù sulla bestia, della civiltà sul mondo selvaggio… E del bianco sul nero. Ma in questa immagine il senso si capovolge: l’animale è quello che sta sopra e calpesta, e la vittima calpestata è quella che invoca il più umano e insieme il più simbolico dei diritti: il respiro».3

 

Le immagini della morte di Floyd provengono da fonti diverse: dalle bodycam degli agenti stessi, dai telefoni di passanti che hanno assistito, da alcune videocamere di sorveglianza che hanno subito contraddetto una prima ricostruzione dei fatti che descriveva Floyd come resistente all’arresto. Il panopticon dei centri urbani americani ha permesso di incrociare sguardi diversi, da quello automatizzato del circuito chiuso a quello del privato cittadino, in una convergenza che da testimonianza è presto esplosa in grido di protesta.4

Un aspetto fondamentale da considerare nella morte di George Floyd – e uno dei tratti più disturbanti ad aver sconvolto l’intera opinione pubblica statunitense oltre la brutalità del contenuto visivo – è l’evidente fallimento del linguaggio, della possibilità di comunicare per l’uomo con le sue parole: «I can’t breathe», non posso respirare, supplica ripetuta, come ci insegna la storia recente, non solo da George Floyd. Quelle stesse parole sono state pronunciate undici volte da Eric Garner a Staten Island il 14 luglio del 2014, prima di soccombere all’asfissia. Anche in quel caso, un tentativo di comunicare con degli agenti che l’avevano immobilizzato per salvarsi la vita e un successivo soffocamento vengono ripresi da telefoni e camere di sorveglianza.

 

 

Le parole I can’t breathe appartengono a un ideale grado zero del linguaggio, a quella frontiera linguistica che a partire dal verbo to breathe nella fonetica anglosassone segue il flusso del respiro e nel caso di Eric Garner e di George Floyd sancisce l’impotenza del linguaggio di fronte alle brutalità poliziesche. Non sorprende dunque che una frase come questa sia presto diventata patrimonio delle successive manifestazioni, questa volta rivendicata e urlata a pieni polmoni, fino allo spasimo, da chi si è specchiato in quel collo schiacciato da forze di polizia sempre più militarizzate e non perseguibili penalmente.5

L’utilizzo di quelle parole durante i cosiddetti riot, durati mesi e non ancora terminati, è solo un parziale riscatto per quello che appare un fallimento strutturale nella società statunitense, che si realizza anche e soprattutto nelle forme del linguaggio. L’impossibilità di comunicare con istituzioni radicalmente violente è una condizione che si dipana lungo l’intera storia della cultura afroamericana e le tracce audiovisive di questa impossibilità, a cominciare dal pestaggio di Rodney King da parte di cinque agenti, ripreso nel 1991 da George Holliday, ha ispirato l’opera di artisti, musicisti e registi cinematografici, costituendo un’enciclopedia figurativa di cui è arduo raccogliere i fili, ancora oggi.

I lavori di artisti come Arthur Jafa e Kahlil Joseph, presenti entrambi all’ultima Biennale Arte 2019 a Venezia, raccontano l’esigenza di aggredire ed elaborare le testimonianze audiovisive delle violenze per contrapporle a immagini di lotta, nel tentativo di ridefinire i tratti di una nuova identità nera, che parta anche da un retaggio visuale. APEX, di Arthur Jafa, presentato al MoMa nel 2013, è un collage di immagini che fa confliggere la storia della schiavitù e della segregazione con la cultura popolare contemporanea: una delle 841 fotografie che si succedono nell’opera, scandite da un beat elettronico, ritrae l’ex schiavo Gordon, un uomo fuggito da una piantagione in Louisiana nel 1863 e fotografato di schiena, mentre mostra le cicatrici delle frustate ricevute negli anni dai suoi padroni. Pubblicate sulla rivista «Harper’s Weekly», le foto contribuirono a sensibilizzare la popolazione a testimonianza delle brutalità annesse alla pratica della schiavitù negli stati del Sud. Erano ormai tre anni che i combattimenti tra Unione e Confederazione non portavano a una vittoria certa e l’immagine venne impiegata come forma di propaganda. Jafa, testimoniando la storia di questa violazione d’immagine, si appropria della schiena di Gordon e ce la restituisce alternandola ai volti di attori, musicisti e attivisti. Percorrendo le cicatrici che hanno segnato l’esperienza afrodiscendente negli Stati Uniti, dalla guerra civile si può approdare alla contemporaneità. E il percorso è fatto di lacerazioni, ferite, traumi, corpi straziati. Ma anche di parole.

Durante la schiavitù, una delle tante forme di lotta possibili, oltre alle armi e alla fuga, si collocava nel tempo dopo il tramonto:

«fu durante la notte che gli schiavi inventarono una religiosità alternativa, una specie di teologia della liberazione, e inventarono le forme musicali e poetiche che la accompagnano».6

Tra queste forme di resistenza – che nel corso dei secoli hanno costruito una corposa tradizione orale – l’espressività afroamericana attraversando l’analfabetismo a cui era sovente legata produsse le folktales, forme narrative profondamente legate alle pratiche dell’oralità, in cui le comunità raccontavano l’arbitraria follia dello schiavismo in forme di racconti amorali, molto diversi dalle fiabe di matrice indoeuropea.7 I protagonisti erano tricksters, ingegnosi imbroglioni disposti al raggiro e abilissimi nell’utilizzo della parola, determinati a sopravvivere in un mondo ostile, popolato da predatori e padroni.8 Uno dei cicli più importanti delle folktales è dedicato alle storie di John lo schiavo, in cui il protagonista costruisce elaborati inganni ai danni del padrone, Ole Massa, usando l’arte oratoria e l’ambiguità delle sue parole come arma retorica contro l’oppressione.9

Uno degli autori che ha saputo raccogliere con più efficacia l’eredità delle folktales per trasportarla nel racconto cinematografico è stato il regista afroamericano Charles Burnett, uno fra i più noti esponenti della L.A Rebellion. Il suo To sleep with anger, nel 1991, mette in scena l’arrivo di un trickster nella suburbia di South Central, a Los Angeles, componendo il ritratto di una famiglia afroamericana appartenente alla middle class statunitense. Alla porta di Gideon e Suzie bussa Harry – interpretato da Danny Glover – un vecchio amico del Sud. Proviene da un passato rurale, una vita che le nuove generazioni non hanno mai conosciuto. La sua presenza porta con sé un’eredità di credenze che i protagonisti non avevano mai abbandonato del tutto, neanche dopo trent’anni lontano dai luoghi della loro gioventù. Nella prima parte del film Harry inizia a stringere legami con i familiari degli amici, in particolare con Babe Brother, il figlio minore, affascinato dai suoi racconti. Come il resto della comunità di amici che gravità attorno a Gideon e Suzie d’altronde. Nell’incipit del film, subito dopo l’arrivo di Harry, Burnett fa confliggere le sue storie, i gesti e rituali scaramantici, ma anche gli oggetti che porta con sé – un Toby, una zampa di coniglio attaccata a un coltello come portafortuna – con la pratica religiosa che la fede cristiana della famiglia persegue. Durante una chiacchierata con Samuel – questo il vero nome di Babe Brother – quando Harry mostra il suo coltello, ricordando l’uccisione di un uomo tanti anni prima, con un montaggio alternato il regista ci mostra il resto della famiglia in Chiesa, durante la celebrazione di una messa di battesimo. I racconti di Harry e gli spirituals guidati dal pastore si succedono sullo schermo, creando un contrappunto visivo che stabilisce un conflitto tra le due forme narrative con cui le prime comunità di afroamericani evasero dalla loro condizione di schiavi, due forme intimamente connesse alla pratica oratoria e all’espressività della parola.

 

Tales from the Hood

 

Sempre a South Central, pochi anni dopo, Rusty Cundieff decise di girare Tales from the Hood (1995), horror che riflette le tensioni e i conflitti sorti nel paese tre anni prima, durante le rivolte sorte a Los Angeles dopo l’assoluzione di tutti gli agenti che avevano aggredito Rodney King.10 Prodotto dalla 40 Acres and a Mule di Spike Lee, il film si snoda lungo quattro episodi, quattro storie che affondano nel razzismo e nella violenza della contemporaneità. La prima di queste, non a caso, racconta del brutale pestaggio e del successivo assassinio di un attivista e consigliere comunale afroamericano da parte di tre poliziotti, avvenuto sotto agli occhi di una recluta che non riesce a ribellarsi di fronte all’insensato omicidio. L’episodio intitolato Rogue Cop Revelation termina con una vendetta sanguinaria ma non liberatoria: il cadavere dell’attivista, tornato in vita in forma di zombie, massacra i tre agenti e conduce alla follia il poliziotto afroamericano, che nella scena finale vediamo costretto da una camicia di forza in un manicomio criminale, condannato per l’omicidio dei tre agenti. In un cinema esplicitamente di genere ritroviamo dunque le strutture di un dibattito che in quegli anni iniziò ad infiammare nuove forme di protesta anche grazie alle potenzialità del mezzo audiovisivo. Le quattro tales lungi dal voler tracciare una rotta salvifica e risolutrice, sono altresì una sarcastica discesa agli inferi che percorre una violenza storica e costruisce una feroce analisi dei segni inequivocabili lasciati da schiavismo e segregazione nella società americana: il terzo di questi episodi, KKK Comeuppance contrappone un senatore razzista – dotato di una capigliatura bionda e un’abbronzatura artificiale dalle tonalità familiari e profetiche – ad un gruppo di feroci burattini. Da poco insediatosi tra le quattro mura di una vecchia villa, un tempo parte di una piantagione, l’uomo nel finale viene letteralmente divorato dalle bambole, che hanno le sembianze delle centinaia di schiavi morti in quella proprietà.11

È invece nell’America di Donald Trump che a Oakland, più di vent’anni dopo è stato girato Blindspotting (2018), di Carlos López Estrada, un lungometraggio che trae ispirazione dalla cultura musicale della capitale californiana della quercia – la cui cronaca recente non si è fatta mancare continue violenze da parte delle forze dell’ordine ai danni della comunità black – per raccontarci il silenzio del protagonista di fronte all’omicidio di cui diventa testimone. Collin è afroamericano e sta scontando gli ultimi giorni di libertà vigilata quando assiste alla morte di un ragazzo, freddato da un agente. La sceneggiatura del film è opera dei due interpreti principali Daveed Diggs e Rafael Casal e utilizza strategie proprie dei testi rap – impiego massiccio di rime, anafore, allitterazioni, raddoppiamenti – nella costruzione di dialoghi e monologhi. Nel lungo finale il confronto tra Collin e l’agente responsabile dell’omicidio permette alla scrittura di ribaltare i ruoli finora proposti costruendo un discorso ritmico incalzante in cui è l’agente ad ammutolire, spettatore della rabbia del protagonista. Collin può far esplodere quei proiettili che lo stavano soffocando attraverso la propria voce, ma questo passaggio dal silenzio all’espressività dell’oratoria hip hop in fondo non pare risolutivo.12

Dagli anni Novanta ad oggi infatti, non sembra poi cambiato molto: uccisioni e violenze da parte delle forze dell’ordine non hanno cessato di colpire la comunità afroamericana, sorpassando indenni gli otto anni di presidenza Obama e innescando lo sviluppo di movimenti di protesta sempre più strutturati, tra cui Black Lives Matter, confluiti a luglio del 2015 nel The Movement for Black Lives (M4BL), che riunisce oltre cinquanta organizzazioni in rappresentanza della comunità nera. Proprio durante una delle prime conferenze di M4BL – che si trasformò in protesta per l’arresto di un giovane afroamericano – la folla di attivisti iniziò a cantare alcuni versi del brano Alright, di Kendrick Lamar, come speranzoso antidoto alle prevaricazioni degli agenti.13 Diventato ben presto un inno sempre più frequente nelle manifestazioni contro la police brutality, il brano Alright racconta una storia molto diversa. E lo capiamo anche dal videoclip, diretto da Colin Tilley e ambientato nella città di Oakland.14

 

Best Kendrick Lamar Alright GIFs | Gfycat
Alright di Kendrick Lamar

I primi minuti ci mostrano un panorama urbano devastato, auto in fiamme, elicotteri e urla extradiegetiche: al termine dell’incipit, un poliziotto spara a un uomo che tenta di resistere all’arresto. Il brano inizia al minuto 1:53, quando vediamo comparire Lamar insieme alla sua TDE crew, alla guida di una Cadillac old-school. Solo dopo le prime strofe la macchina da presa con una carrellata all’indietro ci mostra l’auto intera, sorretta da quattro agenti di polizia che a fatica portano il peso della Cadillac e dei quattro rapper. Anche più avanti, vediamo tre giovani afroamericani saltare su un’auto della polizia, mentre Lamar li circonda con la sua auto lanciando banconote e segnando l’asfalto, in un rapporto completamente diverso con le forze dell’ordine, rispetto all’apocalittico inizio. Ma il rapper di Compton non sembra poter concedere false speranze o scappatoie: alla fine del videoclip, mentre danza sopra un lampione, viene preso di mira da un poliziotto che mima il gesto dello sparo con le dita. Un’altra pallottola, un’altra morte, come nell’incipit: Lamar viene colpito e cade a terra. Parole, ritmo, allitterazioni: la scrittura di Kendrick Lamar è riconosciuta come una delle più complesse nel panorama musicale contemporaneo, e con l’album To Pimp a Butterfly il rapper ha dimostrato di sapersi districare tra generi diversi, dall’hip hop al jazz, raccogliendo l’eredità di una tradizione orale che unisce genio artistico e protesta, inventiva e rivolta.

Insieme alle parole di Lamar, anche i versi di Claudia Rankine, poetessa e autrice di Una lirica americana, giungono alle medesime conclusioni e uniscono scrittura e immagini in un continuo dialogo e integrazione di senso, ribadendo l’importanza di parole e corpi, ancora una volta, come codici sonori e visivi della lotta e sentiero di una ribellione che tuttavia non riesce mai a essere definitiva. I suoi versi riflettono anni di violenze offrendoci una via di fuga nelle parole gridate, urlate fino a esplodere. Quante volte la parola dovrà fallire, contro le violenze, prima che qualcosa cambi?

 

Le parole hanno una funzione liberatoria – porte ben oliate che si aprono e si chiudono tra le intenzioni, tra i gesti. Una pulsazione al collo, la mobilità delle mani, un inconscio battito di ciglia, le conversazioni che intrattieni con i tuoi occhi traducono tutto e niente, Ciò di cui ci sarà bisogno, ciò che non viene avvertito, che resta inespresso – ciò che è stato riprodotto, revisionato qui, revisionato là, modificato per nascondere o dissimulare –, parole che codificano i corpi che coprono. E nonostante tutto il corpo rimane.

 

Di tanto in tanto è interessante prendere in considerazione l’esplosione, caso mai volessi urlare—

 

Vale la pena sentire che verso emetterai—

 

Claudia Rankine, Una lirica americana15

 

Articolo a cura di Francesco Lughezzani


Note

1 J. Baldwin, La prossima volta, il fuoco, Milano, Feltrinelli, 1964, pp. 68-69.

2 Il testo è tratto dal commentaire proveniente dell’incipit del film Sans Soleil (1983) diretto da Chris Marker.

3 A. Portelli, Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immaginari, Roma, Donzelli, 2020, p. 8.

4 L’utilizzo di video amatoriali è diventato uno strumento legale fondamentale – molte associazioni hanno creato applicazioni che monitorano e diffondono fonti audiovisive di questo tipo – per svelare i meccanismi di oppressione esercitati dalle forze dell’ordine. Per approfondire si veda: K. Harden, Exposure to police brutality allows for transparency and accountability of law enforcement, in «The John Marshall Journal of Information Technology & Privacy Law», vol. 33, n. 2, 2017.

5 Sulla sempre viva questione della police immunity negli Usa si veda il reportage investigativo realizzato dall’agenzia Reuters, disponibile all’indirizzo web: https://www.reuters.com/investigates/special-report/usa-police-immunity-scotus/ (ultima consultazione 14/12/2020).

6 A. Portelli, Due storie di lotta, Roma, Castelvecchi, 2020, p. 29.

7 R. D. Abrahams, African American Folk Tales, New York, Penguin, 1985, p. 35.

8 Per approfondire si veda: A. Portelli, Spirituals, tricksters e libri parlanti: oralità e scrittura afroamericane, in Id., Canoni americani. Oralità, letteratura, cinema, musica, Roma, Donzelli, 2004, pp. 81-86.

9 Uno di questi, il ragno Nancy, è un adattamento della figura di Anansi, divinità che discende dal ricco patrimonio folklorico dell’Africa Occidentale e che si può rintracciare anche nelle produzioni audiovisive contemporanee. Sulle influenze del patrimonio folklorico afroamericano si veda: Z. N. Hurston, Mules and Men, Philadelphia, J.B. Lippincott Co., 1935.

10 Rusty Cundieff è stato anche regista per i tre anni di messa in onda del programma di stand-up comedy Chapelle’s Show sul canale tv Comedy Central. Lo stesso Dave Chapelle si è espresso sulla morte di Floyd nel monologo 8.46, in cui ragiona criticamente sull’intervento delle star o di personaggi dello spettacolo nelle proteste.

11 Per approfondire si veda: C. E. Henderson, Allegories of the Undead. Rites and Rituals in Tales from the Hood, in M. J. Koven, S. R. Sherman, Folklore/Cinema: Popular Film as Vernacular Culture, Logan, Utah State University Press, 2007, pp. 166-180.

12 Lo stesso George Floyd in gioventù ha collaborato con un collettivo hip hop, lo Screwed Up Click di Houston, nato negli anni Novanta e fondato dal celebre Dj Screw, come hanno evidenziato molte testate nei giorni successivi al 25 maggio, dopo che alcuni attivisti hanno iniziato a diffondere alcune sue registrazioni.

13 U.net, Stand 4 what. Razza, rap e attivismo nell’America di Trump, Milano, AgenziaX, 2018, pp. 68-75.

14 Sull’opera di Lamar e il lavoro che l’artista affrontò per la produzione dell’album To Pimp a Butterfly si veda: G. Pecci, Kendrick Lamar, jazz e protesta, in «Il Tascabile», 10/06/2020, consultabile all’indirizzo web: https://www.iltascabile.com/linguaggi/kendrick-lamar-jazz-protesta/ (ultima consultazione il 14/12/2020).

15 C. Rankine, Una lirica americana, Roma, 66thand2nd, 2017, p. 69.

 


Francesco Lughezzani dopo gli studi in Lettere moderne e giornalismo ha svolto un tirocinio agli archivi della Cineteca di Bologna, occupandosi di attività di curatela del Fondo Mara Blasetti e Calendoli. Ha collaborato con la casa editrice Keller e dal 2017 lavora al Circolo del Cinema, associazione culturale veronese, come redattore e addetto alla programmazione di rassegne e festival. Dal 2019 è critico cinematografico iscritto all’SNCCI, il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani e scrive su riviste di settore cartacee e online. Nel 2019 ha partecipato al progetto Scrivere di Cinema di Biennale College, occupandosi di ricerche sulla storia della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia presso l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale e realizzando un saggio in corso di pubblicazione sulla presenza e l’influenza di artisti e registi afroamericani al festival veneziano.