Simeone lo Stilita – Tra sceneggiature e interpretazioni della sua storia | Parte II di II
Francisco Soriano continua a raccontare l’anacoreta siriano e il suo testardo isolamento dalle cose terrestri. Qui la prima parte
In epoche più recenti la storia dello Stilita non passa inosservata al grande regista spagnolo Luis Buñuel, che decise di farne un racconto cinematografico, narrato con maestria e creatività e ben rappresentato in una veste paradossale e surrealistica, pieno di suggestioni e metafore, come le correnti artistiche e culturali del tempo desideravano. Nel film l’attenzione del regista si concentra particolarmente intorno alle tentazioni del demonio che Simeone avrebbe sopportato, pazientemente, sulla sua colonna. Non era bastato ergersi al di sopra di un mondo, decisamente corrotto e chiassoso, acquistando così la capacità di guardarlo dall’altro, attraverso una nuova prospettiva. Nel film, dalla sua inimmaginabile residenza, Simeone raggiunge un record di permanenza di 6 anni, 6 settimane e 6 giorni: numero diabolico che origina tutta la storia, proiettata e legata da una inverosimile catena di eventi. Simeone resiste al male e al mondo: la tentazione che corrompe, riconducibile all’opera del maligno che si infrange contro il ferreo e implacabile spirito dell’anacoreta, è la metafora di un mondo permeabile e permeato di volgarità e peccato. L’opera cinematografica fu subito esposta ad aspre critiche ma anche a un successo davvero folgorante già riscontrato nella sua fase embrionale: geniale per molti aspetti ma troppo provocatoria per i tempi, rimase decurtata nella sua durata.

Lo spigoloso Buñuel dibatté con il suo produttore che ritenne necessario, con celerità, di tagliare i fondi per interrompere la prosecuzione delle riprese. Così non fu. Non costò molto al famoso regista inventarsi un finale di film che non pregiudicò il valore di una rappresentazione, la quale rimane ancora oggi aperta a una serie infinita di interpretazioni sui misteri della vita e sulla paradossale esistenza degli uomini. Da ricordare l’interpretazione strepitosa della musa Silvia Pinal nella veste di un diavolo sensuale e tentatore che, nessuno meglio di lei potrebbe oggi reinterpretare, osava “flagellare” con il suo corpo e le sue elucubrazioni il povero Stilita. Bisognerà anche sottolineare che del Simeone cinematografico colpiscono la sincera abnegazione nel tentare un contatto con Dio e la coerenza della scelta nelle modalità del tentativo, certamente ai limiti della ragionevolezza umana e del comune buon senso. La rappresentazione dell’ingenuità di Simeone è però un dato importantissimo che non si inserisce nel classico schema caro al regista, qui ci si muove all’interno di un protocollo ricco di ironia irriverente e compiaciuta narrazione del paradossale: l’anacoreta è davvero uomo dissimile, distante dagli altri non solo per la scelta di vivere “in aria”, ma perché solamente attraverso il misticismo è riuscito a dare senso alla propria vita. In una sequenza del film una frase si presta a svariate interpretazioni e non sembra, semplicisticamente, poter essere ristretta alla solita dinamica/accusa del “chi si isola dagli altri non vuole e non può essere utile a nessuno”. Un frate apostrofa Simeone, dicendo: “Il tuo disinteresse è ammirevole e assai benefico per la tua anima. Ma ho paura che, come la tua penitenza, non serva a molto per gli uomini”. Il dubbio legittimo appare in tutta la sua reale drammaticità, ma apre uno spiraglio a una discussione per nulla scontata: l’utilità del gesto. È a questo punto che i quesiti si moltiplicano e destano in noi la seria condizione di chi deve riflettere, in un tempo in cui è meglio solo intravedere. Lo Stilita fu uomo, soprattutto, di nobile propensione all’etereo, all’insostanziale, allo spirito, cercando l’unica strada possibile: ergersi dal mondo delle cose terrene, spesso odiose e corruttibili.

Quale sia il senso oggi, di raccontare questa storia, pone qualche serio interrogativo. La vita dello Stilita è storia vera, ma potrebbe rappresentare una metafora in un quotidiano fatto di rumore, volgarità, chiacchiericcio e subdole menzogne. La spiritualità, la cura che ognuno di noi preserva alla propria anima, trova sempre di più un restringimento, addirittura una negazione laddove il costo di un investimento in qualcosa che appare invisibile e ancor più intangibile è troppo alto: mette in discussione se stessi, certezze, barriere protettive, spazi che vogliono apparire inespugnabili e che, in realtà, sono permeabili a qualsiasi cosa e in qualsivoglia istante. È possibile che Simeone abbia egoisticamente creduto e pensato di preservare solo i suoi interessi spirituali o che abbia voluto comunicare con il divino senza tener conto di altri uomini, donne, fratelli, avversari e bestie feroci ma, alla stregua dei racconti anche molto critici su Simeone, mi appare una sola la verità ineludibile: in fondo, lo Stilita era un grande comunicatore. Non so quanti miracoli abbia potuto compiere o chi abbia potuto riportare sulla retta via in seguito allo smarrimento; di certo ha raccolto e adunato moltitudini di individui. Non si trattava solo di povera gente, semplici nell’intelletto o analfabeti, bensì prelati e principi di alto profilo culturale: ce lo riferisce lo stesso Gibbon, non sempre cauto nei giudizi sarcastici contro l’anacoreta, quanto l’entusiasta Teodoreto di Cirro, ammiratore di Simeone.

Tutti ad assistere al supplizio di un visionario, folle quanto umanissimo nella sua solitudine, in mezzo a un mondo di lupi e di usurpatori di verità. L’anacoreta ha “messaggiato”, ha parlato, ha gesticolato, ha pregato e ha assunto, suo malgrado, la posizione del fanatico che offende il rispetto per il proprio corpo. Ma anche questo pone interrogativi. I tempi erano diversi, per certi aspetti oscuri quanto lo sono oggi ma è certo che per il siro Simeone il corpo deve aver rappresentato una sorta di ostacolo alla sua esigenza spirituale di espiare ogni colpa e un impaccio risolvibile nel tentativo di ergersi verso la sommità di un’estasi che solamente la fede può concedere, senza però l’ostacolo del peso di una materia inutile. L’itinerario di quest’uomo fu davvero incredibile, anche e soprattutto nel rapporto con sé stesso e con il suo corpo, considerando che sia superficiale parlare soltanto delle pene corporali che si infliggeva o della sua insensata follia nel vivere su una colonna. Buñuel ancora una volta, genio del meandro e della profondità, ci delizia con una scena davvero notevole per ironia e drammaticità: la narrazione riguarda un prodigio di Simeone che, di fronte a una folla, testimonianza collettiva della sua grandezza di benefattore, ridà miracolosamente le mani a un energumeno che si era distinto per i suoi furti, e che per questo era stato privato degli arti. Nella scena la folla pare ormai indifferente al consueto miracolo, un po’ meno il furfante che vistosi omaggiare miracolosamente di nuove mani si adira per la prospettiva di doversi mettere a lavorare. Dunque, il corpo in questo caso è ancora impedimento, ma per un ladro, non per un visionario intriso di fede cristallina. Altri impostori si approcciano allo Stilita: è la volta del fratello Triton, facilmente aggirato e dunque posseduto dal demonio che, per gettare discredito su quell’uomo stagliato sulla stele, vuole ingiuriarlo affermando che il suo digiuno è una finzione, al punto che nasconde nella sacca del buon Simeone ogni genere di alimento. E neppure appare tanto surreale l’assistere alle invettive del fratello/serpente che si lancia in frasi e imprecazioni del tipo: “Abbasso la sacra Ipostasi! Abbasso l’Anastasi, viva l’Apocatastasi!”
Se il messaggio simbolico è quello della processione come elemento platonico, costitutivo della teologia del cristianesimo e della dottrina della trinità, cioè il fondamento nascosto di una realtà evidente che non è certo quella che si vede, o della resurrezione come liberazione dal peccato e dalla disonestà, allora le questioni diventano di una complessità abbastanza insormontabile. Leggendo l’esperienza dello Stilita sopraggiungono in me ricordi della mia tarda fase adolescenziale, quando per mia fortuna il destino volle che incontrassi un padre gesuita ligure giunto in Irpinia per via del terremoto. Mi informava sulla importanza dell’Uno e del Molteplice, problema che bisognava tentare di conoscere e approfondire al fine di condurre una vita spirituale decisamente meno dolorosa, così come era utile imparare le quattro operazioni per meglio affrontare le spese quotidiane. Quanto poi sia interessante capire quanto oggi sia possibile conciliare ascetismo e vita partecipata nella società lo si deduce facilmente nella difficoltà a immaginarlo. La vita religiosa come vita virtuosa non è mai un semplice ménage. La difficoltà della fede come esistenza intangibile al corruttibile era vissuta con entusiasmo fideistico anche in politica da quegli uomini e quelle donne che facevano della vita civile e pubblica esempio virtuoso di lotta e coerenza. La storia di Simeone impone ancora qualche riflessione, soprattutto incita a una lotta perenne contro il conforto dell’incoerenza fattasi struttura e ordina la necessità di una verifica continua del proprio essere: il tutto crea qualche problema. Complessità risolte dall’anacoreta stilita con la sua insana coerenza. Difficoltà non facilmente superabili in una società borghese preoccupata dalla proprietà privata, dai beni, dal denaro e dal consumo. È in questo riscontro che il valore di un messaggio, anche estremo e irrealizzabile nelle modalità di una vita assurdamente ascetica e verticale, oggi diviene importante. È il messaggio della lotta che, comunque compiuta individualmente, deve poi ultimare la sua sintesi al fine di realizzare definitivamente le virtù in un contesto collettivo, umano e solidale. Pare, a dire il vero, un messaggio che riconduce al sistema valoriale dell’anarchismo, nel suo più intimo afflato fondante che seduce di libertà intima ogni individuo.
Non resta che chiedersi, infine, dove risiede il demone e chi sia costui nella realtà quotidiana. Ho sempre immaginato questa presenza, ammesso che esista, come un’edera che si avvinghia e diventa parte, include, assimila, riempie, si dirama, rigogliosa si dipana in ogni dove. È la mia personale metafora, per niente poetica e drammaticamente terrorifica, termine non a caso preso in prestito dallo spagnolo. Anche questa è una esperienza di vita costante come accadde al monaco solitario, il folle asceta verticale: una presenza demoniaca la si immagina oggi come colpa, depressione, dolo, mancanza di rispetto, di educazione e addirittura negazione del buon gusto: è essenzialmente solo vergogna. Quella vergogna che si prova soprattutto nello svilimento, in ogni sua forma, del nostro corpo e poi del nostro spirito. Allora nel quotidiano bisognerà ammettere che i demoni sono molteplici e abbastanza diffusi, talvolta ne individuiamo l’esistenza e la diamo per scontata. Quanto il grande anacoreta siriano, detto lo Stilita, ci abbia indicato la modalità di come combatterli, è fuor di dubbio.

Francisco Soriano
Francisco Soriano nasce a Caracas nel 1965. Attualmente, vive a Ravenna e svolge la sua attività di docente.
È stato insegnante e dirigente scolastico per diversi anni nella Scuola Italiana di Teheran, “Pietro della Valle”, occupandosi di inclusione e didattica dell’italiano a stranieri. Ha pubblicato numerosi saggi storici e raccolte di poesie tradotte in persiano: “Dove il Sogno diventa Pietra”, “Vita e Morte di Mirza Reza Kermani”, “Nuova antologia poetica di Zahiroddoleh”, “Dalla Terra al Cielo. Tusi e la setta degli Assassini di Alamut”. Ha coordinato laboratori di poesia e traduzioni in lingua persiana e ha organizzato mostre di pittori e fotografi contemporanei di livello internazionale, serate dedicate alla poesia italiana e persiana con attrici e attori protagonisti del cinema internazionale. Attualmente scrive articoli di letteratura e si occupa di problematiche concernenti diritti umani e di genere per la Rivista “Argo”. Le sue ultime pubblicazioni sono: “Fra Metope e Calicanti”, edita dalla Casa Editrice “Lieto Colle”, nel 2013; “La Morte Violenta di Isabella Morra”, edita da “Stampa Alternativa”, nel 2017; “Haiku Ravegnani”, edita da “Eretica Edizioni”, nel 2018; “Noe Ito. Vita e morte di un’anarchica giapponese”, edita da “Mimesis Edizioni”, nel 2018.
Grazie al suo amore per il Medioriente, oltre a essere vissuto per molti anni in Iran, ha visitato il Libano, la Giordania, la Siria, l’Armenia, l’Azeirbajan e la Turchia.