Simone Carucci racconta l’illustrazione di Luca Bontempi | Mixis #11

Pistole, cacce e cieli stellati. Undicesimo appuntamento con Mixis.

È nella fusione fra legno e metallo, nell’impugnatura esperta delle dita e nelle notti di Luna piena, che l’illustrazione di Luca Bontempi incontra la narrazione di Simone Carucci. Il risultato, un mix-is di composti aromatici che si diffondo nell’aria e colpiscono senza esitare. Una caccia dell’estasi e della frenesia.

Storia del mio uomo
Ho visto tutto con un solo occhio, ma sarebbe troppo lungo da raccontare.
Sono nata nel 1978 a Houston, Texas; da un’idea di Peter Remford e dalle mani di John Skrietfield, poi il sole, l’officina Mc Clouddest e il buio. L’odore di legno e metallo, una cassa chiusa dove c’erano altri miei simili. All’inizio però nessuno parlava, sentimmo dei rumori, tipo il rombo scatenato del vento, poi Frank disse di essere diretto a Milano; aggiunse che il suo uomo non aveva nome, o se ce l’aveva non voleva dirlo in giro. Allora Josephine disse: «Bordeaux». La seguirono Eveline William e Carlos con «Catanzaro» e il gruppo degli indiani con «Roma». Io dovevo andare a Borgomastro. Ci salutammo all’aeroporto consapevoli che non ci saremmo più rivisti.
Ho viaggiato fino ad incontrare la luce in un’aria fresca, di montagna, il rumore di qualcosa che friggeva in pentola. Lui si è avvicinato a me con passi misurati ma pesanti, non si è presentato. Mi ha stretto forte sul calcio, mi ha annusata. Io ho provato vergogna, aveva la mano ruvida, piena di calli, odorava di arancia e eccitazione. Ne aveva già maneggiate molte altre, lo sapevo, ma nessuna precisa e potente come me. Brillai in festa, lui mi sistemò nella tasca dei pantaloni. Strusciavo sul suo coso duro, ma non mi tolse di lì. Anzi, sembrava provarne piacere.
Non facemmo i preliminari, mi portò nel bosco, ci fermammo in una radura, mi tirò fuori dalla tasca e schiacciò il grilletto. Io gridai con tutta la voce che avevo dentro e lanciai il colpo contro un cinghiale. Dritto dritto tra gli occhi. Quando mi rinfilò nella tasca io ero ancora calda, e lui aveva bagnato le mutande.
Si instaurò presto qualcosa di molto malato tra di noi; eravamo spesso da soli, non parlavamo se non strettamente necessario, e anche in quei casi il linguaggio non era umano. Le parole erano fruscii gutturali, codici segreti che ci scambiavamo e che gli altri fingevano di comprendere. Lo apprezzai da subito, ma cominciai davvero ad amarlo a metà del sesto giorno; quando un cinghiale grosso come un orso ci corse incontro inferocito e dovetti ripetere il colpo due volte per stenderlo. Il brivido di paura ed eccitazione che unimmo si fuse con l’attimo secolare delle piante, me lo ricordo come se fosse adesso: ci sembrò di entrare in una porta metafisica di piacere, dove la conoscenza si era di nuovo piegata all’istinto e gli atomi di metallo avevano formato legami insolubili con il tessuto epiteliale; molecole e ormoni un mix di polvere da sparo e testosterone. Il suo cuore nel mio calcio. Capii che avrei fatto di tutto per lui, e che lui non avrebbe fatto niente senza di me.
Le nostre giornate tipo iniziavano all’alba, lui faceva colazione mentre io sgranchivo la struttura nell’aria fresca, poi ci incamminavamo nel bosco. Vagliavamo le possibili soluzioni per occludere le vie di uscita, sistemavamo gli ostacoli sul sentiero, costruivamo delle trappole con rami e foglie e infine ci appostavamo. Il silenzio sarebbe potuto durare giorni e, ancorché quasi assoluto, era il nostro modo più profondo di comunicare. Quando gli animali si svegliavano trovavano il terreno predisposto per la caccia, ma non avevano intelletto, e lentamente si avvicinavano a noi. Di solito alla radura arrivavano per primi quelli di piccola taglia, li lasciavamo andare. Aspettavamo i cinghiali. Lui stendeva il braccio, interrompeva il respiro, premeva il grilletto e io colpivo. Forte, preciso, mortale. Eravamo un killer professionista, il migliore.
Le dinamiche si sono ripetute uguali fino al trentasettesimo anno, poi, per cause inspiegabili, gli animali fuggirono dal bosco. Lui cadde in depressione quasi subito. Io provai a distrarlo sistemando dei barattoli di latta su un pianale. Colpirli da venti, dieci, cinque o cinquanta non faceva differenza. Non si divertiva più. Io persi un po’ di quell’amore brutale che ci teneva uniti, lui perse soprattutto la vista. Avrebbe cominciato a mancare i bersagli se io non avessi corretto il tiro. Entrammo in crisi, in qualche momento ho pensato di finirlo, lui avrà pensato di smetterla di premere il grilletto. Ma rimanemmo insieme e io aspettai la notte del nostro anniversario per suggerirgli nel sonno di dover ricominciare. Non dai cervi, non dalle lepri, non dagli uccelli, ma dagli unici esseri viventi che continuavano ad abitare la nostra zona: i suoi simili. A lui l’idea piacque, ma non sapeva come fare. Il giorno dopo ci svegliammo all’alba, lui fece colazione e io mi stiracchiai, e andammo nel bosco.
Preparammo trappole e ostacoli come al solito. L’umano avrebbe dovuto convergere verso la radura. Lui era sudato quando mi prese e per un attimo mi risistemò nei pantaloni, poi giunse un uomo, e io urlai.
La routine degli uomini ringiovanì il nostro legame; almeno un paio di orgasmi al giorno, la sua mira di nuovo centrata. Le mani ruvide e calde che stringevano il calcio. Mi sembrava non dovesse finire mai, che nell’eternità ci sarebbe dovuta essere la sua mano, il mio colpo e un cadavere.
Mi sbagliavo: stamattina un uomo ha suonato alla nostra porta, ha fatto il nome del mio uomo e gli ha messo le manette. Ora io sono sola, al freddo, e non so a chi sparare.