Forme del conflitto ⥀ “Sogni e risvegli” di Fabrizio Bajec
Con questo articolo prende forma una nuova costellazione, dedicata alle Forme del conflitto nella poesia italiana contemporanea, con l’intento di scandagliare con più precisione la caratura politica di alcuni testi di recente pubblicazione. La scelta non sarà limitata a quella che – alcuni anni fa, almeno – si definiva con una certa facilità poesia civile, ma attraverserà territori diversi, in larga parte inesplorati anche per chi scrive
Con un movimento che contraddice, almeno superficialmente, le aspettative, i Sogni e risvegli di Fabrizio Bajec (Amos, 2021) non si collocano tanto sulla soglia tra visione diurna e notturna del mondo, ossia tra l’esperienza del mondo a occhi aperti e la dimensione onirica, quanto sul margine tra vita attiva e vita contemplativa. È un crinale certamente presente in molta letteratura e poesia contemporanea, ma è raramente esplorato in un modo così esplicito – venendo, per di più, rafforzato, dal riferimento fondativo, contenuto nell’esergo, alla contemplazione in senso aristotelico.
Anteriore rispetto all’instaurazione del binomio tra vita attiva e contemplativa nelle forme medievali giunte poi, attraverso un lungo travaglio elaborativo, alla riflessione filosofica contemporanea, la riflessione di Aristotele apre a molteplici diramazioni, tra le quali non è forse da sottovalutare, in merito a questo testo, l’ascholia (l’inquietudine che deriva dall’immersione nelle occupazioni quotidiane, ossia nel lavoro) legata alla vita attiva, in opposizione alla scholé che è ‘allontanamento dalla vita pratica’, se non anche ‘ozio’.
Se la scuola, in questo senso allargato, e prettamente filosofico, tornerà nel testo omonimo, circa a metà del libro, l’irrequietezza sembra essere invece il punto di partenza dell’itinerario proposto da Bajec, trovandosi già nel primo testo, Frontiera, della prima sezione, Spettri. A introdurre il tema di una continua de-territorializzazione e ri-territorializzazione (operativa anche a livello biografico e linguistico, per un autore che dichiara di autotradursi dal francese all’italiano dal 2008, «l’autotraduzione essendo per me una terza lingua», p. 83) sono questi versi: «al di sotto io approfitto / ancora poco del territorio / da cui mi strappo a malincuore» (p. 17). La terna di versi appena citata, tuttavia, è seguita immediatamente e senza soluzione di continuità dalla caduta nel sonno: «sperando di dormire e non sapere più niente / di questo tutto che è anche mio» (p. 17).
Fase apparentemente depressiva, in realtà essa prelude a una pratica quasi ascetica dell’autoisolamento dal mondo («chi verrà a cercarmi quassù?», p. 21) e dalla sua costituzione, secondo una prospettiva classicamente marxista, come totalità. Questa pratica di dis-associazione non cessa di indicare, talvolta con precisione analitica, i processi di reificazione all’opera nella contemporanea società tardo-capitalistica e neoliberista, nonché, per altri versi, la stolida resistenza della divisione in classi – «quelle putride inconfessabili e maledette distinzioni» con le quali si chiude Uscendo di casa (p. 19) – e in ogni caso, si concentra, infine, sull’«impermanenza» di tutto questo, davanti alla possibilità, tragica e ridicola allo stesso tempo, di finire Come gamberi nell’acqua bollente (p. 24).
L’irrequietezza sembra essere il punto di
partenza dell’itinerario proposto da Bajec.
Nella seconda sezione, Nascita e contemplazione, costituita da una sola sequenza numerata, questa oscillazione tra vari livelli ritorna, ad esempio, nell’accostamento di un testo che finisce con un accenno indiretto al volo mistico («mi sento già morta e ho solo un anno / chiunque tu sia prendimi fammi volare», p. 34) e l’inizio del testo successivo, basato sull’osservazione di una scena di vita quotidiana («in pausa nel giardino d’infanzia / sedute sui rotoli di grasso / le baby-sitter parlano / di viaggi e diritto del lavoro…», p. 35). Altalena che si ripresenta anche, su un altro piano, tra i frammenti autobiografici già emersi alla fine del precedente lavoro di Bajec, La collaborazione (Marcos y Marcos, 2018), e la tematizzazione dello svuotamento del soggetto («questo sacchetto mezzo vuoto di farina / sono io e come ogni altra cosa / un posto mi spetta», p. 30). Se è, forse, l’oscillazione a definire il tono generale del libro, è, però, altrettanto importante il fatto che sullo sfondo, o per meglio dire nell’inframondo, tanto psichico quanto politico, della scrittura poetica «tutto brucia qui sotto» (p. 32): è un fuoco che non smette di bruciare, per quanto uno se ne isoli o intenda isolarsene.
A seguire, la terza sezione, intitolata Cronache di un’infanzia rurale, sembra insistere di più sul polo dell’autobiografismo, sostituendo alla nascita della figlia – già tematizzata nella sezione precedente, nonché nella Collaborazione – una rappresentazione della figura e della funzione paterna che, anche in questo caso, oscilla tra prima e terza persona singolare. In realtà, qui è altrettanto forte la riflessione, sempre di marca analitica, oltre che contemplativa, sulla capitalizzazione dell’esperienza e del rapporto umano con la natura («e fecero di quei luoghi e quell’acqua / un patrimonio poiché non c’era niente / di cui andar fieri eccetto quella», p. 44). Altro elemento straniante è certamente la collocazione di questa infanzia rurale al Cairo (p. 41) e presso Abu Simbel-Agami (p. 43), ossia in alcuni luoghi certamente connessi alla biografia dell’autore, ma che pongono tale traiettoria esistenziale su un piano, nuovamente, de-territorializzato e ri-territorializzato.
Non è dunque accidentale, ed è anzi del tutto coerente, il fatto che la quarta sezione, Quaderno messicano, riproponga tali questioni all’interno di un intermezzo turistico, nel quale l’avvicinamento all’esperienza della morte, così com’è ritualmente definita in un’altra cultura, si trova costantemente contraddetta, abbassata ironicamente e, in ultima istanza, ridotta ai minimi termini di quella dialettica tra autentico e inautentico che tanta parte ha nell’esperienza turistica e occidentale di altri mondi. A tal proposito, si legga La pioggia a Tepoztlan riportata qui sotto, ma il movimento dialettico appena citato si trova tematizzato anche in altri testi, ad esempio in questo passaggio:
hanno retribuito la gente e profanato
le loro tombe famigliari […]
ne hanno fatto un’attrazione turistica
battezzato le mummie viaggiatrici (p. 56).
Si tratta, in ogni caso, di una riflessione che non riguarda soltanto il meccanismo di illusione/disillusione dell’occhio turistico, ma l’intera scena politica – «Dio non salverà il Messico da alcuna oppressione» (p. 51), ad esempio, cui si contrappone – almeno superficialmente, e in realtà chiamando in causa una complessa ambivalenza – la chiusura di Palazzo di ferro (Querètaro) e dell’intera sezione:
gli artigiani salveranno il Messico
gli artigiani andranno in paradiso
essendo i soli ad arginare
la colata di cemento americano
ingannarono la Chiesa a colpi di idoli
gloria agli artigiani indiani
che conobbero la passione meno il Cristo (p. 57).
A questo punto, la serie di dicotomie e di irrisolti movimenti dialettici sottesi dalle oscillazioni qui rapidamente descritte si riversa anche in ambito letterario, con l’individuazione di una tradizione poetica in lingua spagnola, peninsulare e latinoamericana, che devia, perverte e insieme completa il precedente riferimento alla poesia di Valerio Magrelli – presente nel titolo e nel metodo di composizione dell’ultimo testo della prima sezione (p. 26) – invocando prima i «versi di Gelman Paz e Coral Bracho» (p. 50) e poi una vera e propria linea poetica plurisecolare che va da Francisco de Quevedo Villegas a Jorge Luis Borges, passando per Juan Ramón Jiménez e Federico García Lorca (p. 55). Se i primi, pur appartenendo alle autorevoli voci di Juan Gelman, Octavio Paz e Coral Bracho, risultano appropriati da una strategia di marketing turistico nella quale gli «impresari» scrivono i loro versi sulle «bianche pareti» di «alberghi dai nomi poetici» (p. 50), la linea successivamente esposta sembra poter essere assai esplicativa rispetto a una possibile dichiarazione di poetica dell’autore (dov’è, ad esempio, Quevedo e non il più ambiguo Góngora a rappresentare il capostipite canonico, tra manierismo e barocco, e Borges, e non, per dirne qualcuno, Huidobro, Vallejo o Pizarnik, a rappresentare il primo Novecento). A questo proposito, si noti anche l’ulteriore gesto di de-territorializzazione e ri-territorializzazione letteraria e culturale per l’autore, che si potrebbe definire, sbrigativamente, italo-francese, e che, per altri versi, nell’ultimo numero della rivista «ZAD (Zone à defendre)» ha proposto alcune affascinanti traduzioni dal francese di Eugène Guillevic.
L’intermezzo turistico porta alla quinta sezione, Poema della fame, in un punto del libro nel quale Fabrizio Miliucci, in un interessante scambio-palleggio con l’autore, ha inteso ravvisare un’incrinatura nell’unità formale del libro. Pur con un leggero cambio di prospettiva (non vi è incrinatura o sfilacciamento, in un’opera segnata sin dal principio da una serie di oscillazioni e attraversamenti che la rendono costitutivamente instabile, tra i territori della lirica e dell’epica giustamente ricordati da Miliucci e, aggiungerei, quelli di una più generale poesia di pensiero), Poema della fame rappresenta, di fatto, un unicum nel libro, presentandosi come una sequenza di testi più lunghi, dall’andamento formalmente più poematico, dove l’attitudine del poeta (in-)civile – che non si adagia, cioè, sulle posture consolatorie dell’invettiva da poesia civile – si riversa su uno specifico campo semantico, quello della fame. Evocazione che, devo dire, mi ha sempre lasciato perplesso, e non solo nel caso di Bajec: “Quale fame, per la poesia, oggi?”, mi chiedevo già qualche anno fa, a proposito di un precedente libro pubblicato da Amos, Libretto di transito (2018) di Franca Mancinelli. Bajec dà, tuttavia, una risposta diversa da quella, pur valida, di Mancinelli, traendo vantaggio da una nuova oscillazione formale (tra prima persona singolare, prima e terza plurale) e, soprattutto, da intuizioni squisitamente politiche come quella per la quale la fame non si placa mai, e anzi:
poi tornano i recalcitranti
riedificano sempre una base
per quanto precaria e aperta
mai resistente a sufficienza
per traversare il gelido inverno
e accogliere nuovi affamati (p. 61).
Come si legge nello scambio tra Miliucci e Bajec, e com’è, del resto, palpabile nella lettura di Poema della fame, al centro della sezione ci sono i gilets jaunes, movimento al quale l’autore sembra aver biograficamente aderito, seppure da una posizione obliqua, o laterale; su questo punto, Bajec risponde a Miliucci con queste parole: «Non volevo rappresentare degli eroi. Per me non lo sono. C’era molta disperazione tra i Gilets gialli, ma anche un orgoglio di classe che non s’era mai visto in anni recenti, e per questo nel testo alcuni passaggi danno l’aria di uscire un po’ col megafono». Se raramente si può desumere da un’intervista con l’autore un principio critico che sia sempre e comunque affidabile nella lettura critica della sua opera, in questo caso sembra palese come l’orgoglio di classe, riemerso con disperazione tra i gilets jaunes, rappresenti la contraddizione stessa, se non anche lo scacco di tale movimento. Scacco che si vede, poi, materializzarsi senz’appello nelle parole conclusive del Poema della fame:
abbasso il sondaggio l’opinione
ci è favorevole badate
ma l’avrete già notato
nella palude sono tornate
belle e pronte all’attacco
le ruspe comunali (p. 67).
La disperazione – come dato ultimo per la lucidità dell’analisi, nella fase conclusiva del risveglio – apre alla ricerca di Un’altra via, titolo della sesta e conclusiva sezione del libro, dove ritorna anche l’ascesi, già presupposta e parzialmente esplorata nelle parti precedenti. È una svolta nella quale la scrittura di Bajec prende un accento quasi francescano, come si può leggere qui sotto nella poesia Agli uccelli: si travalicano, così, le dinamiche del piccolo mondo antico della poesia, e cioè del campo letterario ma anche della scrittura poetica stessa, in direzione di quella «spoliazione integrale» (p. 78) sulle cui note si chiudono i Sogni e risvegli. Al netto di un gioco tipografico, in quest’ultimo testo, che appare non del tutto riuscito, tra O e 0 («una bocca aperta che equivale allo zero del vuoto che inghiotte tutto […] inquietante quanto un incubo (di nuovo gli spettri)», ha chiosato l’autore), nel testo conclusivo si raggiungono, infine, i lidi di una nuova vita contemplativa.
Tutto il libro di Bajec sembra puntare verso questo risveglio finale, come nuova presa di coscienza e, insieme, radicale apertura. Il rischio è certamente quello di tornare agli Spettri iniziali, e anche all’irrequietezza dell’ascholia, ma è un rischio che occorre comprendere e affrontare, come indica costantemente l’autore – e questa è forse la qualità più preziosa del libro – senz’alcuna traccia di resa.
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A scuola
alle medie si portava il soprannome del padre
o del nonno per più generazioni e così
«canna vuota» era un ragazzino lercio
dalle scarpe fuori moda impiastrate di fango
i capelli polverosi giallo-paglia
aveva rapporti innaturali con dei cuccioli
e per questo lo si sfotteva mentre un altro
usciva dalla classe all’ora di sostegno
essendo un po’ indietro col programma
una mattina si avventò contro chi usava
«spastico» o «infelice» in sua presenza
e lo fece piangere colpendo pure l’insegnante
un terzo «asino» divenne irrequieto
dopo un grave incidente gli passò sul capo
un trattore indietreggiando nei campi
e i genitori glielo ripararono con la loro pelle
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La pioggia a Tepoztlan
umido mattino in terrazza in un hotel senza nome
mastichiamo tartine di zucca messe a bagno nel caffè
ammirando un albero dai frutti arancioni
che colano sull’erba e la montagna troneggia
sormontata da esili nubi come polvere di vulcano
più in basso qualche cane si lamenta delle donne indaffarate
che lavano in ginocchio il suolo delle camere facendo salire
una fragranza di limone vorremmo arrampicarci
sulla collina dove si recano i paesani
col lanternino la notte dei morti
passeremo invece fra i tumuli
sfidando le nebbie sempre attente ai nostri passi
così sul pavimento delle chiese
cosparso di rose d’India e lumini
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Agli uccelli
se potessi stabilirmi vicino a voialtri
gentili uccelli grigi dei nostri giardini
che beccate all’ombra delle felci
qualche infimo alimento
non farei nulla di molto diverso
insegnatemi con abili manovre
quest’arte che non ha bisogno
di luce né delle lodi dei miei pari
Lorenzo Mari
Lorenzo Mari vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali gli ultimi sono Querencia (Oèdipus, 2019) e la plaquette Tarsia/Coro (Zacinto, 2021). In prosa, ha pubblicato il racconto Via Mascarella alta e bassa (autoproduzioni Modo Infoshop, 2019) e ha ottenuto il XXXV Premio Teramo Giovani - Giacomo Debenedetti per il racconto Un percorso sicuro.
Traduce dallo spagnolo (Agustín García Calvo, Sonetti teologici, L'Arcolaio, 2019; César Vallejo, Trilce, Argolibri 2021) e dall'inglese (David Keenan, Memorial Device, Double Nickels, 2020, insieme a Matteo Camporesi).
Ha curato l'edizione italiana di ZURITA. Quattro poemi del poeta cileno Raúl Zurita (Valigie Rosse, 2020), nella traduzione di Alberto Masala.
Collabora con varie riviste online (Pulp Libri, Fata Morgana Web e Jacobin Italia).
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