Sogno di vetro. La vetrinizzazione del sé all’epoca degli smartphone
«La mia visione è così retta, così pura è la mia sensazione, la mia conoscenza è così perfettamente completa, così acuta, così netta è la mia rappresentazione e la mia scienza è così perfetta, che io mi comprendo dall’estremità del mondo fino alla mia parola silenziosa; e dall’informe cosa che si desidera alzandosi, lungo le fibre note e gli ordinati centri, io mi sono, io mi rispondo, io mi rispecchio e mi rifletto, io fremo dell’infinità degli specchi – io sono di vetro». (Paul Valéry)
«Il futuro sta sotto il segno della trasparenza». (Walter Benjamin)
Non esiste qualcosa come “un lato bello del capitalismo”.
Piuttosto, ciò che di bello il capitalismo racchiude
al suo interno resta tale malgré lui.
1. Vetro
La vittima di quei misteriosi slanci, capaci di muovere le nature più puramente contemplative a compiere le più imprevedibili e rischiose delle azioni, che nel racconto di Baudelaire bistratta il cattivo vetraio, giacché questo non possedeva, tra i suoi vetri, nulla che fosse capace di lasciar «voir la vie en beau»1, sarebbe stata, oggi, singolarmente accontentata dagli sviluppi della tecnologia e dall’avvento del digitale.
Walter Benjamin aveva ben visto, nascosta in quella di pittura, l’idea della fotografia e, in quest’ultima, quella del cinema. Ciò che non poteva ancora forse neanche sperare di vedere, era come l’idea dello schermo (tanto quello della televisione quanto quello dei computer e, infine, quelli di tablet e smartphone) riposasse dentro quella di vetrina.
Benché la storia del vetro sia ben più antica, il suo utilizzo in forma di vetrina attraverso cui esporre la merce risale al diciottesimo secolo. Questa pratica si deve alla prima rivoluzione industriale e culmina nel 1851 a Londra con la celebre esposizione universale al Crystal Palace, monumentale struttura in vetro costruita ad hoc. Dall’Expo alla contemporaneità, il passo è breve: poco tempo fa, presentando il suo ultimo modello di smartphone, la Samsung ha trionfalmente annunciato di essere riuscita a rendere pieghevole il vetro dell’ampio schermo, aumentandone la tascabilità e, oltre che quella effettiva, anche la percezione della sua flessibilità. Il disvelamento dei meccanismi interni del prodotto è uno dei tratti salienti dell’odierno modo di fare pubblicità: denudatasi, tenta di stabilire un rapporto di complicità con il destinatario, per potere far breccia all’interno della sua coscienza. Naturalmente le rivelazioni della merce sono tali – nude – soltanto in apparenza, ma resta il fatto che, oggi come allora, la trasparenza della vetrina fa sì che essa, per così dire, assuma indirettamente il significato di ciò che lascia trasparire. Così, sarà vero per la vetrina ciò che lo è anche per la merce: benché a prima vista sembri qualcosa di triviale e ovvio, a un’attenta analisi risulta che «è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici»2. Rientra tra le possibilità di questa prospettiva osservare gli smartphone né più né meno che come delle vetrine ambulanti.
2. Trasparenza
Il concetto di trasparenza sembra strettamente intrecciato a quello della luce. L’elemento che li accomuna è il “lasciar vedere” qualcosa e, nello stesso tempo, nascondere qualcos’altro. Ognuno intuisce, più o meno oscuramente, che quando qualcosa si vede qualcosa si sottrae alla vista: nell’abbaglio di luce, che accecando dissolve ogni trasparenza, se ne ha la prova provata. La trasparenza necessita di una certa gradazione di luce che, se non debitamente smorzata, risulta troppo forte. Una luce che assolva il suo compito – consentire la visione – permette la trasparenza e trova in essa la sua propria dimensione. La trasparenza è dunque l’anima della luce. Tuttavia, neanche la più limpida delle trasparenze, quale quella della vetrina, tradisce le abissali profondità degli iniqui rapporti economico-sociali. Tratto essenziale della vetrina è il suo carattere di soglia, attraverso la quale l’interno si contrappone, dialetticamente, cioè in una tensione, all’esterno. Nella dialettica si assiste ad una co-implicazione dei termini presi in esame. Nel caso degli smartphone e, in particolare, dei social – nei quali la vetrinizzazione del sé costituisce il fondamento – l’interno, la “propria soggettività”, è continuamente sospinto fuori di sé, aperto; al contempo l’esterno, le varie home page che è possibile scorrere sotto i pollici, accede all’interno delle coscienze. Così, il sociale entra dentro “casa” non meno di quanto questa viene costantemente proiettata in esso.
La trasparenza della soglia, lo schermo, è la lente attraverso cui il sociale vede il privato e, allo stesso tempo, il privato vede il sociale; tuttavia, entrambi possiedono un potere di azione “limitato” l’uno sull’altro. Avvicinando il privato e preservandolo in quanto tale nel bel mezzo del pubblico, si giunge al paradossale risultato di privatizzare tutto il pubblico (anche se solo in misura temporanea). Tutto il pubblico diviene una immane dilatazione di un privato che, tuttavia, resta tale. Così il privato viene incluso nel pubblico nella forma dell’esclusione del pubblico dal privato. Il privato pubblicizzato può quindi assumere lo stesso carattere del sacro. Questo è l’inviolabile par excellence. L’immagine di questo processo si cristallizza in quella della forma merce, la quale è scissa, nella sua suprema indifferenza, dall’uomo. La merce sacralizzata riluccica inafferrabile innanzi agli sguardi attoniti di coloro che la desiderano ma si vietano di raggiungerla. Questo almeno quando vicende private come tali assumono caratteri pubblici.

3. Aura
«… Tutta l’architettura di vetro trae origine dalle cattedrali gotiche, senza le quali essa è addirittura inconcepibile; la cattedrale gotica è il presupposto dell’architettura di vetro»3. Il sacro, già individuato come l’inaccessibile, è anche ciò che permea le costruzioni religiose. Non è da trascurare il fatto che il vetro in quanto elemento architettonico, emerga proprio in quel contesto, come non è da trascurare che da quest’ultimo venga poi utilizzato per le vetrine dei negozi, per i vetri degli intérieur borghesi, fino ai vetri degli schermi dei dispositivi mediatici. Parimenti, quell’elemento sacro, dapprima manifesto, viene via via immergendosi nelle profondità dell’anima della merce, fino a costituirne l’ardente nucleo teologico, tanto più potente quanto più nascosto. Così il sacro si deposita indisturbato all’interno dei più profani e diffusi degli oggetti, che ognuno oggi porta con sé come piccoli totem. Questi possono esseri visti come le ultime forme di delimitazione di uno spazio. Ogni delimitazione delimita al tempo stesso il suo senso interno: lo spazio poetico è quello dove possono convivere logica simmetrica e asimmetrica; lo spazio sacro di chiese e santuari è quello adibito alla preghiera, al raccoglimento ed alla contemplazione di Dio; lo spazio della vetrina è quello dell’esposizione della merce. Nel dilatare del valore espositivo la trasparenza dello schermo di televisioni e smartphone coincide con quella delle sempre più obsolete vetrine dei centri commerciali. Già all’epoca delle prime vetrine la separazione imposta dalla presenza del vetro tra merce esposta e cliente, coincideva con l’istituzione di una dimensione precisa dell’osservazione, nella quale la merce diveniva l’oggetto cui prestare attenzione. Le merci necessitavano (e necessitano) a tal punto della logica delle vetrine per persuadere all’acquisto, che non è scorretto identificarle come una loro emanazione. La vetrina corrisponderebbe quindi all’istituzione dello spazio espositivo che è proprio della merce. Attraverso le vetrine lo sguardo vuoto dell’anonimo cliente è catturato dal lucore spettrale della merce esposta.
Ma qui occorre accennare a due movimenti paralleli tra i quali esiste un rapporto speculare: 1) la lenta trasposizione del sacro nel profano, per cui questo assume l’elemento in vetro dall’ambito della religione e mima formalmente l’aspetto degli edifici religiosi, sicché non stupisce, ad esempio, che la cupola della galleria monumentale di Milano possieda la stessa ampiezza di quella della basilica di San Pietro a Roma. 2) Il movimento secondo il quale il soggetto, qui l’individuo, smarrita l’aura, è costantemente spinto ad uscire “fuori da sé” per sfuggire alla percezione della propria inutilità.
Apple, i cui store sono pressoché interamente trasparenti, è la prima delle cattedrali digitali della merce. È da Apple che la logica della vetrina è stata veicolata nel mondo dei portatili. Ma la più estrema gradazione nella gamma delle trasparenze va acciuffata nel fenomeno Amazon che, nella sua immaterialità, è letteralmente ovunque. In essa, lo spirito della merce si fa beffe dei suoi stessi prodotti resosi da essi indipendente. Con essa, si assiste alla parodia della nuda metafisica del nome. A questo livello, la materialità della merce può anche sparire. Si può accreditare la probabilità che esista. Anzi, proprio perché non esiste se ne accrediterà il valore4.
Anche le città vengono sempre più spettacolarizzate, ed i centri commerciali assomigliano sempre di più a delle piccole città. La trasparenza della vetrina è loro immanente e si manifesta nelle modalità con cui si offrono alla percezione. In viaggio in una città “straniera”, l’amica che non l’ha visitata secondo ciò che è stato predisposto come l’irrinunciabile e spettacolare pacchetto esperienziale sente che è come se non avesse fatto nulla, come se avesse sprecato il suo tempo. Il circuito della merce è iscritto nelle nostre carni. Il sempre più diffuso percorso del trenino o del Tour bus – e l’idea di spettacolarità che esso porta con sé –, dacché limitato alle gallerie commerciali, si è ampliato ed ora gira per le varie tappe turistiche delle città. La museificazione dell’esterno non è che il riflesso di quello che accade nelle coscienze. L’imbellettamento del corpo morto del reale non è più che un cadavere imbalsamato e rivenduto a caro prezzo. Tutto ciò tende sempre di più ad entrare a far parte delle moderne configurazioni coscienziali e dell’idea di esperienza di vita contemporanea.
Come già aveva affermato Benjamin, ciò che in questi movimenti sembra venire meno, è l’aura. Tuttavia, occorre fare alcune precisazioni: non è che il vetro sia il nemico giurato dell’aura: quest’ultima possiede, infatti, una natura relazionale. Piuttosto, è la “falsa trasparenza” della materialità della merce, in cui si cela la sua feroce origine – l’antica storia di oppressione e sfruttamento – che cancella ogni aura; questa è il segno dell’avvenuto riconoscimento, in essa il volto umano può vedere il volto dell’altro come in uno specchio. Ma il tratto essenziale della vetrina, non bisogna dimenticarlo, è la trasparenza: attraverso lo schermo si diventa spettatori della messa in scena della merce. Questa è la quintessenza dell’alienazione dell’uomo. Per quella bizzarra proprietà commutativa cui s’accennava, la vetrina non è che uno dei modi in cui la merce si offre alla massa anonima dei clienti; secondo la stessa modalità, la prezzatura di ogni prodotto è la delimitazione di un perimetro entro cui esso si lascia percepire come in un alone traslucido: ossia, si offre come all’interno di una vetrina. L’ultima, vera, novità nell’ambito delle merci e quindi in quello dell’esposizione in vetrina, è la soggettività stessa. Essa ha acquisito il diritto di esibirsi e l’obbligo di farlo per affermarsi socialmente ma, in questo movimento, ha perso quasi ogni possibilità di nascondersi.

4. Il sé
Il sé è un divenuto, ma il fatto che lo sia non deve fare dimenticare che esso è anche un diveniente. In sostanza, ciò che viene chiamato sé è qualcosa di dinamico che muta al mutare del tempo. Quest’ultima frase è da intendere tanto nel suo significato filogenetico quanto in quello ontogenetico.
Una presaga intuizione della vetrinizzazione s’incontra nel racconto Terrore di vetro di Scheerbart, dove la moglie di un professore di chimica viene “vetrificata” ad opera di una strana entità soprannaturale: «il fatto più strano disse il professor Pohl, è che su questo vetro gelatinoso non si possa agire con strumenti umani […] Noi ignoriamo totalmente come sia nato questo vetro molle e flessibile. E ignoriamo se potremo mai oltrepassarlo. L’impenetrabilità è qui diventata un fatto concreto»5. La trasparenza della vetrina è l’inosservato ovvio al quale scioccamente non si bada a sufficienza. Nelle vetrine va in scena lo spettacolo della merce e, come nella merce si nascondono i rapporti tra gli uomini, nel mondo alienato degli uomini si cela il rapporto tra le cose. Esibendo l’impossibilità di farsi raggiungere, la merce ci dice chi siamo. Per quanto la socializzazione del privato – per esempio nella condivisione di contenuti su Facebook o Instagram – esiga trasparenza assoluta, ciò che diventa realmente tangibile è l’intangibilità del fatto privato come tale, la stessa che ci ricorda l’inesorabile atomizzazione in cui versiamo.
La sacralità del culto dell’individuo rifulge nello spazio espositivo del social. In esso la posta in gioco è, brandello dopo brandello, la nostra identità alienataci. Si vende un modo d’essere, un frammento di “come stare al mondo”. La merce imprigiona ciò che, più di ogni altra cosa, è oggetto di desiderio nella nostra epoca: l’esperienza. Nell’assoluta indigenza esperienziale in cui è sprofondato l’uomo, si è arsi dalla sete di una vita sensata: una vita colma di esperienza. Questo bisogno coincide con quello di realtà. Questa viene realizzata dal riconoscimento: affinché ciò avvenga, occorre che l’esperienza sia riflessa, contrassegnata dalla reazione altrui: da me all’altro e dall’altro a me: un movimento di “ritorno”, che può assumere le forme di un commento, un like o di una semplice visualizzazione ad un proprio contenuto condiviso. In questo modo si sigla l’avvenuto contatto, la finta spontaneità dell’esperienza vissuta che, nel mondo della mediazione universale, è il risultato del più artificiale dei processi.
Nella costruzione del sé, si assiste al tendenziale sbiadire di ciò che – con lessico cinematografico – era il principio del montaggio, il quale prevedeva che vi fossero dei “pezzi” o delle “porzioni” ben distinte e separate da assemblare in un insieme coerente il quale, in certa misura, dettava le coordinate al proprio modo d’essere e consentiva una certa differenziazione tra gli individui. Adesso, invece, lo spettatore delle società liquide e immersive, è ognora pronto a diventare attore e, perché no, regista della propria esperienza esistenziale. All’interno del magmatico fluire che lo circonda e lo comprende, è chiamato a identificare un certo insieme di elementi più o meno consapevolmente, più o meno causalmente, e a esibire la propria -illusoriamente personale- versione della faccenda coscienziale. La propria realtà sarà tanto più reale quanto più sarà posta sotto la lente socializzante dello smartphone. In altri termini, il reale sarà percepito come realizzato solo quando esposto in vetrina, solo in quanto mimesi della logica sacrale della merce. Come una merce, la soggettività da sé alienata, mostra la propria performance nello stesso momento in cui cela il proprio arcano con una implicita dichiarazione di inviolabilità. Il mondo reale, quale flusso mediatico, viene continuamente proposto come spettacolo da consumare. Che il contenuto esposto sia l’enfatizzazione della diffusione dell’ultimo virus, la battaglia per la difesa dell’ambiente, lo scandalo per l’altrui inciviltà o la più banale ed insignificante delle esperienze della vita quotidiana, ciò che importa è come tutto questo venga esibito e che venga recepito da un ambiente di un certo tipo, “favorevole”, “rassicurante” e in definitiva gestibile perché pronto ad assistere a uno spettacolo. Si è tanto più attori o registi di successo quanto più si ha un pubblico a sé adeguato.
Non importa l’oggetto, ma il modo in cui questo è mostrato come esperienza. E tuttavia, neanche quest’ultima, di per sé, vale un granché. Piuttosto, il mostrare la coscienza dell’esperienza è la vera esperienza. Il pensante che esibisce – in modo sprezzante per lo più – il modo di pensare il pensato. Ma nel sistema irregimentato del politically correct, dove arriva la mente arriva la merce: quanto più quella resta invischiata nelle reti di questa tanto più rapidamente deperisce e scade a già visto e già sentito. All’interno di ciò che ormai viene chiamato capitalismo culturale «quanto più i tradizionali processi di produzione sono rimpiazzati da una produzione di segni e forme comunicative, tanto più quest’ultimo tipo di produzione assume a sua volta un valore di tipo economico, determinando una progressiva integrazione tra l’ambito economico e quello culturale della società»6. Perciò, è sufficiente un attimo perché il lampo del valore abbandoni il raro frutto dell’esperienza portata a compimento, al pari di come è sufficiente l’ombra di un sorriso in Borsa perché i prodotti del lavoro si trasformino in immondizia. Non c’è sostanza, soltanto apparenza. La qualità della coscienza corrisponde a quella dell’esperienza alienata. Da qui scaturisce il giudizio sul valore della persona. La logica spettacolare di alienazione di Debord, dove l’individuo atomizzato cercava inconsapevole le proprie tracce nel culto del divo, si compie in quella spettrale della smaterializzazione, che ne è il suggello.
Oggi è un obbligo imprescindibile comunicare in maniera spettacolare per chi vuole collocarsi sulla scena sociale. Una scena che si è interamente trasferita sui social network. La coscienza è schiacciata sui contenuti postati, la vita è “condivisa” e tuttavia non si esaurisce in ciò che condivide, lo “trascende”. Per fare un esempio, ai numerosissimi eventi che popolano facebook non si “partecipa”, essi tuttalpiù “interessano”. La soggettività fluida contemporanea soffre qualsiasi identificazione che la riduca ad un dato di fatto. Questo la rimanderebbe alla piena assunzione di un modo d’essere, ad un valore computabile, dunque, alla eco della sua dolorosa verità storica. Il fatto che essa sia fluida non è di per sé da aborrire, ne manifesterebbe anzi uno dei tratti essenziali e costitutivi. Ciò che fa spavento è, piuttosto, come questa fluidità si sappia mostrare rigida non appena le si fornisca l’occasione di “fare sul serio”, non appena venga attivato il circolo coattivo dello scambio, il quale è inscritto nelle profondità dell’identità dell’uomo contemporaneo. Nell’apprendimento forzato del linguaggio delle merci, l’individuo ha dimenticato quello realmente umano, la langue du cœur.
Il rapporto tra uomini non è che la dissimulazione del rapporto tra merci, così «quando gli appartenenti ai due sessi si attraggono, è sempre meno per effetto di un autentico impulso d’amore e sempre più, invece, per progressiva adozione del meccanismo che scatena il desiderio dei consumatori per le merci»7. Sotto la bella apparenza si annida il marcio interesse velato dalla falsa coscienza. Alla dilatazione del valore espositivo si accompagna sempre più quella del narcisismo, il quale è stato ultimamente depennato dal novero delle patologie. Nella inconscia mimesi dei modelli mercificati, la fluidità del soggetto è pari a quella delle merci e non sorprende che la cultura moderna venga rappresentata come un incessante fluire. Nelle relazioni umane, l’ultima frontiera delle contrapposizioni narcisistiche – nelle quali esce vincitore colui che, esponendosi, è in grado di allontanare progressivamente l’altro, dimostrando simbolicamente di poterne fare a meno – corrisponde con la dissoluzione del soggetto come tale. Nello stesso modo l’io dello schizofrenico si serra in sé stesso e, escluso tutto il mondo, finisce per frantumarsi8.
Ancora più che in Facebook, in Instagram, che ad ogni modo gli appartiene, si esibisce la vetrinizzazione del quotidiano. Gli smartphone permettono la mobilitazione dell’apparenza. Essa può essere organizzata come meglio si ritiene dietro la vetrina “portatile” dello schermo del cellulare. Così, quando si lascia aderire – come una membrana, bizzarra mescolanza di rigidità e plasticità – il vitreo occhio della telecamera ai momenti del quotidiano, quest’ultimo viene spettacolarizzato dalla condivisione sui social. Il quotidiano viene veicolato all’interno di virtuali recinti, dove le cose – dagli oggetti più comuni, alle parti del corpo, fino ai brevi clip di esperienze più o meno accattivanti – assumono carattere spettacolare e dove, in fondo, vengono mercificate nell’immane mercato mondiale delle coscienze. La delimitazione, focalizzazione entro una particolare lente – una particolare vetrina – è al tempo stesso l’istituzione di un feticcio.
Secondo la logica del feticcio la soggettività si mostra per fugaci frammenti – brevi clip – e immagini la cui storia è la stessa di quella della merce: esporsi pubblicamente è già vendersi. Dall’intero in divenire delle home page, le schegge di cui esso si compone non possiedono che una finta particolarità, esse non fanno che riproporre il messaggio di fondo: l’eterno ritorno dell’identico dell’offerta. Per di più ogni utente, ogni cliente, ha la possibilità di accumulare quanti più contenuti desidera, contenuti sui quali non tornerà mai, giacché non appena virtualmente conservati, in essi rattrappisce il gusto della novità. Anche gli occultamenti di sé, come il postare di essere in un determinato luogo o di vivere una determinata esperienza senza mostrare la propria persona, o frapponendo svariate tipologie di barriere al proprio mostrarsi, non sono che altrettanti modi di esporsi, differenti gradazioni della vetrinizzazione. Così, come le finestre delle abitazioni invitavano il borghese a guardar fuori, a “non pensare”, a distogliere lo sguardo dallo squallore esistenziale e dell’intérieur, le finestre sul mondo digitale, strappandolo a sé stesso, chiudono il cerchio del maligno incantesimo che esilia l’uomo dal possesso di sé. Come nel primo caso lo squallore dell’interno esortava a distogliere lo sguardo, così la percezione della propria insignificanza quotidiana esorta all’esibizione della stessa affinché acquisti un valore. Non è la possibilità di un riscatto – che pure è offerta nell’apparente democraticità di questi mezzi – ad essere abominevole, bensì l’obbligo a doversi riscattare e la sistematica impossibilità che tutti vi riescano. Come ieri, ma in parte ancora oggi, era l’attore – dunque il divo – colui che nel tête-à-tête con la macchina da presa era tanto più uomo quanto più riusciva a essere “naturale”, oggi sono influencer, youtuber e i personaggi televisivi a costituire in massima parte i modelli per la società. Scandendo i ritmi delle tendenze della moda come essere nell’apparenza, i modelli odierni esortano a percorrere la loro strada nello stesso momento in cui la rendono impraticabile.
5. Specchio
Il serpente che si è scambiato con la corda arrotolata resta tuttavia tale, e lo è soltanto in virtù di questa e finché da essa non si discrimini. Così Ibn Arabῑ racconta che la regina di Saba fu introdotta da re Salomone in una stanza il cui pavimento era di cristallo, «La regina lo scambiò per una superficie di acqua e sollevò la gonna per non bagnarla. Quando s’accorse che l’acqua non c’era, di colpo capì che la realtà è un gioco fra somiglianza e differenza e che il mondo si annienta e si ricrea a ogni istante»9. Le ingannevoli forme di vita del contemporaneo, nell’epoca dell’opaca trasparenza, non sono che il viatico per la visione della trasparenza reale – non viziata da doppi fondi – del tempo in cui ognuno potrà forse rinunciare alle pretese di una soggettività malata e ritrovare l’altro nello stesso istante in cui l’altro si ritrova in noi.
Tuttavia, allo stato attuale delle cose, rispetto all’affermazione ottimistica – nonché pienamente realizzatasi – del futurologo Benjamin, secondo la quale con la riproducibilità tecnica dell’arte – in quel caso del cinema – ognuno acquisisse il diritto di essere filmato, un piccolo episodio dello Spleen di Parigi potrebbe fungere da buon correttivo. Il breve racconto s’intitola, Lo specchio:
Un uomo orribile entra e si guarda nello specchio. “Perché vi guardate allo specchio, se non vi è possibile vedervi senza provare dispiacere? L’uomo orribile mi risponde: “Signore, dopo gli immortali principi dell’89, tutti gli uomini sono per diritto uguali; dunque io ho il diritto di specchiarmi; con piacere o dispiacere, questo riguarda solo la mia coscienza”. Secondo il buon senso avevo indubbiamente ragione io; ma, dal punto di vista della legge, egli non aveva torto10.
Note
1 C. Baudelaire, Lo spleen di Parigi. Piccoli poemi in prosa, Feltrinelli, Milano, 2015, p. 56.
2 K. Marx, Antologia. Capitalismo istruzioni per l’uso, Feltrinelli, Milano, 2017, p. 89.
3 P. Scheerbart, Architettura di vetro, Adelphi, Milano, 1982, p. 89.
4 E. Zolla, Archetipi. Aure. Verità segrete. Dioniso errante, Marsilio, Venezia, 2016, p. 92: «A questa fase ultima e mirabile si giunge quando Mefistotele rifornisce i forzieri dell’Imperatore con la carta moneta garantita dai giacimenti del sottosuolo, i cui metalli non possono venire alla superficie, perché ormai nessuno ha più convenienza a scavarli, essendone il valore già disponibile nella cartamoneta […] l’illusione prima si concentrava nella forma degli oggetti tangibili, i quali in realtà si stagliavano alla vista soltanto in grazia del nome che ricevevano; in seguito quella stessa illusione si concentra tutta nella sua essenza nominale, perché il nome precede ontologicamente la forma concreta, com’è vero che Dio è il suo nome. I sistemi monetari moderni spiattellano come realtà spicciola queste verità trascendenti. Gli Stati non promettono neanche più sulle loro banconote di pagare il valore scritto su di esse: basta la denominazione».
5 P. Scheerbart, op. cit., pp. 176-177.
6 V. Codeluppi, Il potere della marca, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, p. 25.
7 V. Codeluppi, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p. 46.
8 Su questa strada, ma con un accento marcatamente diverso, già Italo Calvino che, nella conclusione di uno dei paragrafi più belli delle Città invisibili, Le città e gli occhi. 3, scriveva: «tre ipotesi si danno sugli abitanti di Bauci: che odino la terra, che la rispettino al punto di evitare ogni contatto; che la amino com’era prima di loro e con cannocchiali e telescopi puntati in giù non si stanchino di passarla in rassegna, foglia a foglia, sasso a sasso, formica per formica, contemplando affascinati la propria assenza». I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano, 2014, p. 75.
9 E. Zolla, op. cit., p. 71.
10 C. Baudelaire, op. cit., p. 167.
Bibliografia
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- Baudelaire, Charles, Lo spleen di Parigi, piccoli poemi in prosa, a cura di Franco Rella, Feltrinelli, Milano, 2015.
- Benjamin, Walter, Aura e choc, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Einaudi, Torino, 2012.
- Benjamin, Walter, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, a cura di Fabrizio Desideri, Donzelli, Roma, 2012.
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- Codeluppi, Vanni, Il potere della marca, Bollati Boringhieri, Torino, 2011.
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- Marx, Karl, Il capitale: critica dell’economia politica, a cura di Eugenio Sbardella, Newton Compton, Roma, 2015.
- Marx, Karl, Manoscritti economico-filosofici del 1844 e altre pagine su lavoro e alienazione, a cura di Enrico Donaggio e Peter Kammerer, Feltrinelli, Milano, 2018.
- Nabokov, Vladimir, Cose trasparenti, Adelphi, Milano, 1995.
- Nietzsche, Friedrich, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano, 2010.
- Nietzsche, Friedrich, Così parlò Zarathustra: un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano,2010.
- Scheerbart, Paul, Architettura di vetro, Adelphi, Milano, 1982.
- Valéry, Paul, Valéry Opere Scelte, a cura di Maria Teresa Giaveri, Mondadori, Milano, 2014.
- Zaccaria, Gino, Tempo spazio arte 3, https://www.youtube.com/watch?v=6hOyzQlal1A.
- Zolla, Elémire, Archetipi, aure, verità segrete, Dioniso errante, Marsilio, Venezia, 2016.
Immagini:
- Schulze, Alfred Otto Wolfgang (Wols), Fantasma azzurro, tecnica mista su tela, 1951, Milano, collezione Jucker.
- Klee, Paul, Paesaggio con uccelli gialli, acquerello su cartoncino, 1923, collezione privata.
- Klee, Paul, Chiaro di luna, tempera e acquerello su lino, 1919, collezione privata.

Gabriele Gallina
Gabriele Gallina è laureato magistrale presso l'Università degli studi di Bologna, con una tesi in estetica contemporanea la cui ricerca ha analizzato quel nodo cruciale del Novecento che ha al suo centro la complessa figura di Paul Valéry, muovendo da una prospettiva che si è rivelata feconda e tuttora in grado di rivelare risultati inattesi, ossia la diagnosi sulla modernità estetica. I suoi interessi oscillano tra filosofia e letteratura di otto e Novecento.