Sotto alla rinoceronte ⥀ Estratto dal romanzo Nero di seppia di Marco Benedettelli
Presentiamo oggi un capitolo tratto dal romanzo inedito Nero di seppia di Marco Benedettelli, illustrato da Marta Goldin. A introdurlo, una nota dell’autore
Il testo che state per leggere è il quinto capitolo del romanzo inedito Nero di seppia. Siamo all’inizio della vicenda. Iride, una performer in crisi per la moltiplicazione della sua immagine, è appena approdata nel porto di Nacona, dove è stata invitata a esibirsi. Motivo dei festeggiamenti è l’annuncio delle trasformazioni urbanistiche che stanno per investire la città, frutto di un accordo tra la Luz Company, un fondo internazionale d’investimento, il Sindaco e il gruppo dirigente degli Azzimati. Iride e i suoi musicisti, però, hanno tradito le aspettative e, dopo aver raccontato una storia allucinata, strabordante di sirene e di naufragi, hanno abbandonato il palco per perdersi tra i vicoli di Nacona. Qui sono entrati immediatamente in contatto con il nero di seppia, un piatto tipico del luogo che ammorba gli spiriti ma che tutti continuano a mangiare voracemente. Camminando per la città, hanno conosciuto il Guardiano, un vecchio senza dimora che, parlando con piglio oracolare, li ha condotti alla Trattoria della Vecchia rotativa, dove si compie l’iniziazione con il nero di seppia. Il Guardiano durante il pasto racconta a Iride la storia dei vecchi tipografi, la banda di stampatori che un tempo, prima dei grandi bombardamenti, aggirandosi nel sottosuolo, disseminavano per la città e per i suoi vicoli, tra gli sfruttati e i sottomessi, volantini fitti di testi scritti per esaltare gli animi.
A questo punto del racconto, il gruppetto, uscito dalla trattoria, si addentra nella città.
(Marco Benedettelli)
Quando escono dalla Vecchia rotativa la luce è forte ma il gruppo è intorpidito e c’è chi stiracchia schiena e braccia.
«Ma tu Guardiano non ti annoi a startene sempre tra queste strade di mattoni e questi vicoli che non arrivano a niente?», chiede Iride, più che altro per riempire la bolla di silenzio che li avvolge. Le mura dei palazzi sono livide, coi panni stesi alle finestre immobili che sembrano calcificati e la zona dorme irraccontabile.
Il Guardiano farfuglia: «Se gratti oltre la superficie del paesaggio escono ossa bianche, spuntoni di ferro arrugginiti, vecchi e scassati relitti senza senso. Non fare troppe domande, non rimestare troppo nelle nostre fantasie».
Il vecchio barbuto inforca una discesa lunghissima e passano attraverso vie e poi vicoli porosi ricchi di aperture, feritoie, terrazzamenti. Sui mastodontici portoni pendono scolpiti mostri di pietra o grappoli di frutti. Oltre la conca delle mura ogni tanto luccicano ritagli azzurri di mare.
Fra due schiere di palazzine si apre una grande vasca di cemento armato. Sul fondo, dai ciuffi di gramigna emergono pezzi scassati d’una lavatrice, d’un divano sfondato, mondezza e ruderi sparsi. Il Guardiano s’affaccia sul cratere squadrato e lurido e indica in basso: «Vedi, io dormo spesso in questo delirio. Dormo, dormiamo, siamo in tanti estromessi e senza decoro. Dormiamo nei siti antichi pieni di macerie, sotto travi di legno marce, all’ombra di scale a chiocciola monche che non portano a niente, nei tuguri post atomici e nelle sacche preistoriche. La notte non sono mai solo. Ci conosciamo tutti e come animali selvatici condividiamo i rifugi di cemento, il gelo delle pietre. Poi quando arriva il sole, di giorno vado a sudare sui gradini, sulle panchine, osservo la gente passare steso lungo i marciapiedi oppure bazzico le sale d’aspetto, mi accosto nei cessi agli orinatoi».
Iride vorrebbe prendere il vecchio claudicante sottobraccio ma si trattiene, non riesce a stare in piedi, ha le gambe molli, però gli dice all’orecchio: «Vengo anche io da una città di mare, anche io tutti i giorni per arrivare al porto e camminare fino al bordo dei suoi moli devo scendere lunghe strade fatte di scalinate scassate, percorsi a spirale, zigzaganti. Ad ogni passo la città si fa sudicia, devo dire. S’incontrano mura ammuffite di piscio e gatti e uccelli spennati e senza onore. Ricordo soprattutto questo della mia città, il passaggio fra le sue fauci bianche che porta alle navi, agli imbarcaderi e i miei concittadini sugli usci delle case che mi vedono passare con gli occhi di fuori». E mentre Iride continua a sgranare i suoi ricordi, tutti proseguono a scendere finché il conglomerato di vicoli s’interrompe al cospetto d’una lunga strada che attraversa due ali di palazzoni marmorei. Passano le macchine e il Guardiano s’incunea nel flusso del traffico e tutti dietro in ordine sparso oltre lo sgasare dei motori. Camminano senza badare agli autisti che fissano Iride da dietro ai parabrezza, sorpresi dall’apparizione in carne e ossa di lei tra gente strana che l’accompagna, col Guardiano in testa e i tre musicisti dallo sguardo sprofondato e assente. Arrivano in una piazza grandissima, nuda e squadrata. Lo spazio è dentato di palazzi color vino e sul fondo una rinoceronte si prende cura del suo cucciolo, lo coccola e lo protegge attorno alle sue gambe corazzate. È un monumento enorme dai colori opalescenti su un alto piedistallo e il Guardiano guida la sbilenca brigata proprio verso quella improbabile visione, percorrendo tutto lo spazio piastrellato finché si siedono dove trovano posto tra le aiuole.
Il corno lucido della bestia e tutta la sua corazza guerresca attraggono le attenzioni di Iride. «Ma dove siamo?» si domanda e i suoi musicisti, un po’ qua e un po’ là, si accovacciano attorno alle zampe della grande madre e si mettono a dormire. Anche il Guardiano si è steso per terra, protetto da un cespuglio e indica con pressappochismo la statua animalesca che troneggia sopra loro. «Racconta di un’antica leggenda, d’una creatura arrivata dal mare per salvarsi dalla guerra. Forse è tutto frutto di una storia che gli stessi tipografi avevano tirato fuori dai loro dormiveglia…»
Ma il vecchio non finisce la frase, distratto com’è da qualcosa in lontananza, un guazzabuglio di bisbigli, gracchiate, fischiettate, esclamazioni robuste e anche bestemmie. Il suono è quello di un vortice d’uccelli misto a frantumi.
Uomini e donne sul lato opposto della piazza escono da un portone spalancato e si disperdono lungo il marciapiede, ridono, alcuni ciondolano nel mezzo della piazza sotto la luce postprandiale. Hanno quasi tutti la faccia conciata e bruciata come il cuoio, i vestiti lisi o malconci, certi si portano appresso buste piene di roba, caracollano, in molti scompaiono su per scalette che si inerpicano fra palazzine lilla. Ci sono però tre persone che camminano verso la rinoceronte e il suo cucciolo preistorico, sono due donne e un uomo e sembrano uccelli tropicali usciti da una foresta infernale. Il Guardiano indolente li guarda arrivare e annuncia: «Eccoli, finalmente, lo sapevo. Sono arrivati i miei amici, i miei compagni di chiacchiere e di notti buttate nei fossi. Escono dalla mensa dei disgraziati e ora dispongono di tutto il tempo che desiderano».
I tre si avvicinano, variopinti nei loro vestiti improbabili e il Guardiano allarga il suo sorriso, circondato da una miriade di rughe, «Come andiamo, ragazzi? Vi sentite un po’ più sereni con la pancia piena?»
Risponde un uomo, ha il naso a polpetta: «È un pezzo che non ti presenti a mangiare, Guardiano. Peccato. Alla mensa abbiamo parlato fitto tra noi. Sai, dice che al porto cianciavano sopra a un palco e che c’era una specie di spettacolino, dice che tutto sta per cambiare, che vogliono murare i posti dove andiamo a dormire, i fossi, i buchi dove aspettiamo il mattino».
Il Guardiano torce il collo verso Iride e fa: «Hai sentito che ha detto Alberto, il mio amico? Quelli della Luz vogliono spazzare via il nostro mondo fatto di cantine e mura cariate. I due manager che tu sei venuta a incensare con la tua arte presto mescoleranno i connotati della nostra città e nessuno sa come. So solo che non ci sarà più posto per noi morti di fame».
Iride è curva a studiare le striature della pavimentazione e risponde insicura: «Quei due signori che stavano con me sopra il palco, dici? Com’è che si chiamavano? Catena e Semele? Io però non li conosco, non li avevo mai visti prima. Mi hanno solo detto che c’era uno show da fare e sono venuta. Che volete che ci capisca? La mia immagine è frantumata in mille schermi, in mille pezzi di me che parlano praticamente da soli e dunque non so più farmi domande».
Il Guardiano sul volto ha dipinto un misto di schifo e di pena, «Ah, tu non capisci? La tua arte fatta di niente ti ha intossicata?»
Iride continua:. «Anche quest’uomo, Alberto, tiene angoscia per i discorsi e i progetti di Luz».
E il Guardiano: «Vedi, la farò corta. Lui possiede una volontà che precede ogni forma d’intelligenza. Lui viene dal suono, ci è già stato negli abissi col suo naso gonfio e i pugni chiusi».
«Dal suono, e che vuol dire?», fa lei sorpresa.
«Nacona è piena di suoni, ricordatelo, ma questo lo scoprirai andando avanti».
Alberto strizza gli occhietti e canticchia qualcosa per tenersi impegnato, una nenia senza senso, un impasto di vecchie note depositate nella memoria. Le due donne al suo fianco hanno un aspetto oltremodo balengo. C’è una che veste di nero ma è tutta scottata dal sole e pare per portamento una domatrice di cavalli caduta di sella. L’altra ha abiti variopinti e attillati che fanno di lei, così androgina, un idolo pappagallesco ed è proprio quest’ultima a irrompere con sfrontatezza: «Perché non ci presenti questa bella figliola? È proprio fatta a modo, ha le cosce lunghe e il muso azzurrino. È una tua amica, Guardiano?»
«E chi lo sa, cara Andreina…», risponde il vecchio e si spilucca il barbone.
Iride fa la spazientita: «Ohi, insomma, senti Andreina… è questo il tuo nome, vero? Ecco, io vengo semplicemente dall’altra parte del mare, sono nata sull’altra sponda e mi chiamo Iride».
L’altra donna, quella più torva e scura, si intromette con la sua voce un po’ cavernosa: «Parli bene la nostra lingua Iride, senza il minimo accento. Non si direbbe che sei di là».
E Iride: «I miei nonni e bisnonni venivano dalle vostre terre. Le loro parole, che sono le vostre, mi si sono ficcate nella testa come semini quando ero bambina».
Il Guardiano se la ghigna. «Hai sentito, Chiromante? Iride forse è paesana a noi, e ti pareva!»
La ragazza dai capelli d’inchiostro tiene gli occhi abbassati davanti alla donna bruciata dal sole, poi fa: «Piacere di conoscerti, Chiromante. Sono arrivata a Nacona perché mi hanno chiamato. Agenti, intermediari, emissari, sponsor, faccio l’artista per loro e giro i festival, ravvivo eventi, trasformo la massa in comunità. Basta la mia presenza a creare qualcosa e a rimodellare l’immaginario. Così dicono, è così che mi raccontano. Sono nata per fare cultura e fare rete. Sono tarata per essere riprodotta in mille immagini».
Alberto esplode in una sgangherata risata. «Si sente che ti prendi per il culo da sola mentre parli. Brava, fai bene!» e detto ciò continua a ridere e ride, di un riso che gli tende le vene del collo taurino.
Lei continua: «Di solito io arrivo, faccio il mio spettacolo e riparto, senza rendermi conto nemmeno di cosa ho attorno, è così che funziona. C’è solo la mia immagine che vedo riflessa ovunque a tenermi sostegno e se non fosse per quella, il mondo non riuscirei più a riconoscerlo. Vabbè insomma, ora non divaghiamo. Quando poche ore fa sono salita sul palco mi sono resa conto quanta schiuma di mare avevo lasciato dietro me. Allora mi è venuto da ridere, ridevo del tempo passato. Intorno c’era il tonfo dei cantieri, i grandi scafi che prendevano forma e io non capivo. Poi si è presentato il Sindaco e tutti quei barbagianni vestiti di fogge squisite, coi labbretti contratti e le sopracciglia sottili. Infine sono spuntati Semele e Catena, si muovevano che sembravano rettili, hanno fatto un discorso che puzzava di morte in vita. Allora sai cosa mi è preso? Ho iniziato a tirar fuori tutto quello che avevo dentro».
Il Guardiano pure ride e ride e ride con la sua risata catarrosa. «Ma dimmi un po’ quindi, sempre per non divagare. Parliamo del nero di seppia, quello che abbiamo pappato pocanzi in trattoria. Embè, che mi dici? Non ti ha fatto nulla, eh? Non ti ha appesantito? Non ti ha rattristato?»
Iride sfodera uno dei suoi migliori sorrisi da cavalla. «Eh no, amico mio, io sto bene. Sono allenata a tutto, la mia tristezza devo averla lasciata in qualche camera d’albergo».
Il Guardiano batte i piedi per terra che sembra matto. «Lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo. Tu sei immune, non ti attacca, sei una di quelle che il nero ti scorre via, ti va giù per gli intestini e ti romba dal culo», e si scaccola ancora la barba, strizza gli occhietti e poi sghignazza come chi la sa lunga, «I tuoi amici, i tuoi amici invece no. Loro sembrano allucinati», e col dito bitorzoluto indica i tre musicisti che se ne stanno imbambolati sotto la grande rinoceronte dalla corazza lucida come un disco lunare, ondeggiano quasi, «Il nero gli ha bruciato animo e occhi. Sono fritti. Capita a tutti qui a Nacona, chi mangia il nero di seppia diventa molle ma di una mollezza antica» e il Guardiano sforma le labbra in un sorriso vermiglio mentre davanti a lui transitano sulla piazza corpi duri e scattosi, facce contratte che quasi smottano. Qualcuno alza lo sguardo e scruta verso il crocchio sfasciato col Guardiano, Alberto, Andreina, la Chiromante e poi Iride e i suoi musicisti tutti buttati come relitti onirici sotto la corazza della rinoceronte e gli stessi che passano scuotono la testa, masticano pensieri febbrili, producono rumori interiori.
Iride riprende a dire ringalluzzita: «Beh, guardate che dall’altra parte del mare non è che poi sia tanto diverso, nero o non nero di seppia. Sapete, nella città da dove vengo soffrono tutti come cani, addossano la causa del proprio schifo sugli altri e lo fanno a suon di malignità. Il rancore rende goffi e loro camminano a piedi scalzi in una landa di sassi aguzzi, in un inferno di catrame».
Il Guardiano si contorce spazientito. «Basta, basta, basta! Basta, io ti capisco ma non ti capisco, mi annoi ma non posso fare a meno di ascoltarti», poi aggiunge un po’ gatto e un po’ capra, tutto sporco e arruffato: «Ecco vedi, in tutti i tuoi discorsi e pure nella dote che hai di reggere il nero di seppia e i suoi effetti infami, ecco sì tu mi ricordi una persona, sì. Una che ho incontrato tanto tempo fa in un luogo distrutto e non ho più visto. Una donna… Ora, lascia che ti racconti…»
A quelle parole, Alberto si risveglia dalle sue cantilene. «Ahhhh Guardiano mio, hai rotto con questa storia, ci hai frantumato con questa manfrina…», e si alza in piedi e soffia a buttare fuori l’aria per non esplodere, «Ci hai rotto i coglioni con questo spiritello che torna a mangiarti il cervello e che viene fuori quando siamo fra di noi, soli come i cani, di notte come di giorno. Aridaglie con sta creatura che ti sei sognata un tempo. È più forte di tutto? Perché devi tirarla fuori ogni due per tre?»
«Ma lascialo discorrere, che la notte ancora ha da venire e il sole è alto», fa Andreina e si passa le mani ossute e screpolate attorno al collo, sembra davvero un pitone d’avorio. Pure la Chiromante mugugna: «Massì Alberto, non lo interrompere al Guardiano. La città è una zebra, non vedi, tutta segnata da luci e ombre e poi ci siamo noi che stiamo qui a infrattarci in mezzo alle parole». Ma il vecchio barbuto ormai volteggia nel suo mondo e parla e parla e parla. «Qui dietro c’è un luogo che mi è caro. È un luogo sommerso direi, senza tempo. Un teatro abbandonato da decenni e marcio dove ho incontrato una persona».
(Continua, fino al capitolo XXIX…)