Lo spazio delle donne ⥀ Sessualizzazione della giovane ricercatrice [Iperrivista]

Pubblichiamo nella rubrica Iperrivista, sottraendolo allo z-universo (l’universo chiuso di Facebook, creato da Mark Zuckerberg), un recente post di Chiara Portesine sul patriarcato in ambito universitario e sull’emancipazione femminile, ispirato a un dibattito nato a margine della presentazione del libro Lo spazio delle donne di Daniela Brogi

 

[Domenica 13 novembre], alla libreria Tra le righe di Pisa, Daniela Brogi ha presentato Lo spazio delle donne. Oltre ai contenuti teorici, a colpirmi è stato l’effetto suscitatore, l’operatività istantanea del libro in termini di maiuetica critica. La riflessione con colleghe e colleghi nata a margine dell’evento ha funzionato come un momento di autocoscienza, soggettiva e generazionale. Daniela Brogi ha parlato del proprio vissuto di studentessa, dottoranda e precaria «del Novecento», quando l’istituzione universitaria era gestita quasi esclusivamente da uomini. Uomini-baroni, uomini-ordinari, intere bibliografie di libri scritti da uomini: il potere, a livello di immagine e di funzionamento pragmatico, era un potere esibitamente maschile. Alle donne era riservato il ruolo di qualificate uditrici e poco più.

Essere giovani ricercatrici e dottorande «del Duemila» ci porta a vivere, invece, un nuovo paradosso: dietro la cattedra capita più frequentemente di incontrare donne-professoresse, donne-ordinarie, addirittura donne-presidenti. Eppure, ci accorgiamo subito di vivere la distopia di una falsa rivoluzione. Intanto, in termini numerici e statistici, la questione della rappresentanza femminile non è certo risolta, soprattutto nei luoghi apicali delle istituzioni (universitarie e sociali). Spesso, poi, le stesse donne del Novecento che ce l’hanno fatta tendono a evitare qualsiasi forma di solidarietà femminile trans-generazionale, con l’idea che la difficoltà di un percorso accidentato possa comportare, in parte, un accrescimento individuale. Alla sofferenza eroica del sacrificio corrisponderà un premio, nei termini agonistici di una maggiore “grinta”, di una “forza” nata anche grazie agli ostacoli oggettivi. “Se ce l’ho fatta io, e ai miei tempi era molto più difficile, ce la potete fare anche voi”. Insomma: se il patriarcato non uccide, fortifica.

La giovane ricercatrice, dunque, si trova in una situazione potenzialmente dissociativa: alla vecchia e cara sindrome dell’impostora si aggiunge ora il senso di colpa per il fatto di non essere neppure all’altezza di un ambiente accogliente, che non pone vincoli formali di genere – anzi, a volte addirittura agevola le quote rosa. Come mi hanno fatto notare alcuni colleghi uomini, ad esempio, nel bando dell’Humboldt Research Award c’è scritto testualmente: «We especially welcome the nomination of qualified female researchers» – come dire: “di che vi lamentate ancora?”.

In molti contesti e spazi dell’università italiana, però, a questo (pure contestabile) effetto di parità si accompagna il permanere delle più becere e retrive dinamiche maschiliste. I convegni, le conferenze e tutti i luoghi formali di accreditamento e di costruzione di una propria voce critica si trasformano facilmente in territori resistenziali, di difesa e allarme rispetto a un’alterità maschile avvertita come predatoria. La giovane ricercatrice lavora con la percezione di non essere al sicuro nel proprio stesso ambiente professionale. Anche i gesti più scontati (dal vestito da indossare alla scelta di rivolgere la parola a qualcuno al buffet) rischieranno di risultare immediatamente connotati agli occhi dei docenti-superiori, dei colleghi-competitors, del proprio Super-io. La soluzione, troppo spesso, è quella di sparire, di non dare nell’occhio, di occupare meno spazio possibile. Se la giovane ricercatrice è anche bella, dovrà cercare di compensare questo peccato d’origine lavorando il doppio o il triplo, per evitare la maldicenza atavica di essersi fatta strada per ragioni extra-professionali. Il che comporta, oltre a una notevole dispersione di energie fisiche e mentali, anche l’impossibilità di accettare qualsiasi complimento lavorativo senza sospetti o cinico disincanto. Visto che sei brava, bella e giovane, partorirai con dolore e la tua bravura non sarà senza ombre.

A rendere gli apprezzamenti dei professori non un semplice catcalling [molestia verbale a sfondo sessuale, ndr] da corridoio ma una questione sistemica è il fatto di inserirsi all’interno di una dinamica di potere mai paritaria. Ascoltando e condividendo le nostre esperienze di precarie, ci siamo rese conto di un doppio punto in comune: tutte abbiamo subìto casi di violenza durante la nostra esperienza universitaria, e nessuna ha avuto il coraggio e la possibilità materiale di rispondere, per paura di ritorsioni sul breve o lungo periodo – chissà che quel professore non possa trovarsi in una futura commissione esaminatrice e valutare, oltre al mio curriculum, anche quella antica negazione di consenso. Nell’istituzione che si propone pubblicamente come culla del neo-umanesimo e reazione culturale alla barbarie, la sessualizzazione del corpo femminile è ancora e tragicamente una realtà. Il ritornello “ma un complimento non è un abuso” rimbalza, in forme più raffinate ma altrettanto sarcastiche e denigratorie, dal bar di quartiere allo studio del docente ordinario.


Iniziare a raccontare pubblicamente le nostre esperienze potrebbe essere il modo migliore, chiudendo il libro di Daniela, per continuare a scriverne la storia – e a scrivere la Storia.

 


Nota della Redazione

Sull’argomento del patriarcato, in particolare nella storia della letteratura italiana, Argo consiglia la lettura di Federico Sanguineti, Per una nuova storia letteraria (Argolibri, 2022).