Forme del conflitto ⥀ “Nella spirale (Stagioni di una catastrofe)” di Gianluca D’Andrea
Per la rubrica Forme del conflitto Lorenzo Mari prende oggi in esame la raccolta poetica Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) di Gianluca D’Andrea (Industria & Letteratura, 2021)
Ci sono vari modi in cui il Covid-19 (non) è entrato nella poesia degli ultimi due anni e, per molti aspetti, ciò (non) è stato un bene.
Nel segno di questo understatement, ovvero di questa natura intimamente paradossale del rapporto della produzione poetica con la cronaca più recente, si sono certamente mossi molti autori (forse più uomini che donne, per un mero appunto statistico): dell’approccio sentimentale, senza mai essere sentimentalista, di Claudio Orlandi ne Il mare a Pietralata, e delle conseguenze soluzioni immaginative (delle quali siamo ancora a corto, dopo due anni), si è già parlato, in questa sede; tutt’altra rappresentazione, carica di pathos e non del tutto priva di una certa determinazione retorica, è stata data, ad esempio, in Requiem per una casa di cura lombarda (Marcos y Marcos, 2021) di Fabio Pusterla.
Ecco, in quest’ultima pubblicazione, peraltro a tiratura limitata, è però dato un preciso contrappunto formale alla collocazione politico-ideologica e morale del testo, già chiara fin dal titolo, e lo si può rintracciare nella forma di un Dies Irae sommessamente violento, umanamente tragico – sintomo, per quel che ci interessa in questa sede, della necessità di un approdo formale ben definito, laddove la soluzione pragmatica (eppure così semplice e potente, nel “mare a Pietralata” nato nelle telefonate tra Orlandi e Carlo Bordini) sembra ancora latitare.
Lo stesso si può intuire, anche senza una piena coscienza del testo, dalla forma-sonetto rincorsa, con la quotidianità ossessiva dell’appunto diaristico, dai recenti Sonetti del giorno di quarzo (Einaudi, 2022) di Aldo Nove. Evidenza di una necessità formale che, infine, esplode in tutta la sua carica distruttiva – …ma non decostruttiva, per carità! – e ricostruttiva nella testualità ibrida di Nella spirale (Stagioni di una catastrofe) (Industria & Letteratura, 2021) di Gianluca D’Andrea.
Già la spirale «reca […] in sé il segno di una semantica a partita doppia» (p. 109), come nota Pusterla, autore della postfazione del libro di D’Andrea; tale duplicità viene esplorata, prima di tutto, nei generi testuali: all’annotazione (genere “non-genere” che discende dalla primitiva pubblicazione online di questi pezzi, e che è intrinsecamente duplice, perché, di volta in volta, si tratta di un’argomentazione tanto diaristica quanto saggistica, tanto argomentativa quanto lirica) viene accostato il frammento lirico, o anche la sequenza poetica. A tale alternanza, che potrebbe apparire semplicemente binaria, si aggiunge poi un ulteriore livello di complessità che risale alle radici della tradizione poetica occidentale, come, del resto, ravvisa sempre Pusterla nella postfazione, sottolineando come i testi siano «collegati quasi impercettibilmente, ma senza una regolarità assoluta, dall’antico meccanismo delle coblas capfinidas» (p. 112).
Un ulteriore giro di spirale è dato dall’iconotesto che si va formando sotto gli occhi di chi legge grazie all’interazione dei testi di D’Andrea con i disegni di un altro poeta, Vito Bonito, che qui propone un tratto infantile e colorato e al tempo stesso intimamente crudele, che non può non rimandare a quell’autoproduzione di Bonito, La bambina bianca (Derbauch Verlag, 2017), che è centrale nell’opera di quest’ultimo e puntualmente citata da D’Andrea in esergo a uno dei suoi testi.
Tuttavia, e nonostante queste note iniziali indirizzino verso quel sostrato intertestuale di natura quasi enciclopedica che pure è componente essenziale del libro, la spirale di D’Andrea non è la Spira mirabilis già evocata, nel suo libro del 2020, L’indifferenziata, da Viola Amarelli. Non è la “spirale meravigliosa”, o “spirale logaritmica”, studiata da Jakob Bernoulli e apposta sulla lapide di Cartesio accanto alla frase Eadem mutata resurgo (“Sebbene diversa, rinasco identica”) a indicare l’immortalità dell’anima, che può sopravvivere nonostante la fine della vita. La spirale di D’Andrea ne è, anzi, l’opposto speculare: l’anima non è immortale, e nemmeno il corpo lo è, davanti alle sue fragilità biologiche (e culturali, politiche, etc.); la crisi pandemica ci ha portato infine a rinascere diversi, sebbene identici.
Questo, di nuovo, lo si può notare nell’impalcatura formale del libro, apparentemente diviso in quattro sezioni che riprendono un ciclo stagionale – Primavera, Estate, Autunno e Inverno – ma che non per questo conducono a un finale à la Kim Ki-Duk: …e ancora primavera. Nessun afflato buddhistico o atarassico (pure affrontato, con grande complessità di pensiero e d’immagine, anche dal grande regista sudcoreano); nella fase invernale, anzi, la forma-saggio, con il suo disperato tentativo enciclopedico soggetto a cancellazione, sfuma (senza degradarsi né elevarsi) in una forma poetica che, nella lunga sequenza finale, finisce per proporre un adattamento in attesa e «in cerca d’altro mare» (p. 105): «Così l’uomo si adatta alle stagioni, / come un respiro profondo sul ghiaccio / che avvolgendo il mattino nella notte / trasforma di anno in anno terra e aria» (p. 104).
Il libro di D’Andrea non è solo un libro di catastrofe, con il correlato adeguamento della parola e dell’essere umano, nella sua interezza, al panorama post-apocalittico – adeguamento che non è semplice adattamento, ma anche ricerca di mezzi di opposizione, di strategie di contrasto (facendo emergere, prima di tutto, e in senso certamente anti-buddhistico, l’importanza, in senso fisheriano, di un nuovo desiderio). Lo rileva sempre Pusterla nella sua postfazione, parlando ad esempio della Sicilia di D’Andrea – una Sicilia che è certamente anche letteraria e porta, ad esempio, a citare e soprattutto a rammemorare un’autrice troppo presto uscita da quei radar critici e poetici che pure sembravano averle aperto le porte del canone letterario, ovvero Jolanda Insana, con i suoi Frammenti di un oratorio per il centenario del terremoto di Messina.
Per dirla in una frase, il libro di D’Andrea non è certamente un’esaltazione nichilista dello sgretolamento delle nostre risorse di fronte alla morte e ai suoi fantasmi, talvolta concretissimi, nella contemporaneità.
Eppure, eppure… Sembra che a ogni passo e di sicuro nella sequenza finale la parola, talvolta aspra e durissima, di D’Andrea si sciolga nel canto dell’Ultima Thule artica – altroché Sicilia, al massimo un inverno settentrionale – di Francesco Guccini: «L’ultima Thule attende al Nord estremo / Regno di ghiaccio eterno, senza vita / E lassù questa mia sarà finita / Nel freddo, dove tutti finiremo / L’Ultima Thule attende e dentro il fiordo / Si spegnerà per sempre ogni passione / Si perderà in un’ultima canzone / Di me e della mia nave anche il ricordo».
Dieci anni fa Guccini cantava una fine che era anche quella delle proprie registrazioni in album, della propria opera. D’Andrea, sciogliendo la parola e la sapienza nel canto, ci invita a guardare avanti oltre l’ultima, postrema canzone, e a cercare ancora, cercare altro, nel mare. Intorno, però, c’è solo ghiaccio.
Nelle profondità II
All’arrivo una nuova attesa ad attenderci. Agavi che circondavano come eco un piccolo strapiombo. Lo stretto era un’immagine che si spianava in tutta la sua estensione, ma come un’immagine, appunto, del luogo che avevamo attraversato e che non era più se non impresso nella retina. La falce s’inarcava a proteggere i porti, mentre la striscia di mare tra le sponde serpeggiava tra vapori e alti incendi.
Ci rifugiammo in un boschetto di sughere per trovare refrigerio. Dopo un’ultima sorsata ci guardammo intorno e ripartimmo. Nubi di rapaiole ci volteggiavano tra le braccia, le gambe; gli stinchi e le caviglie si ricoprivano di incisioni sanguigne scarabocchiate dai cardi. Avanzavamo, ma era come retrocedere. Impressioni sulla retina.
Mostri portentosi, o meglio i loro scheletri ripuliti e lucenti al sole; recinzioni di filo spinato ci risucchiavano mentre ci inoltravamo verso l’interno, verso mari deserti e lontani, verso luoghi e voci remoti dove una “massa” indistinta e incombente rollava come un’isola*. Un’isola delle profondità che si sfrangiava in voci e canti, riducendo in frammenti la nostra capacità di recepirne il senso, un’isola esplosa. Dal magma si diffondevano suoni freddi e pastosi, tutt’altro che spiacevoli. Era come se avessimo varcato una piega del paesaggio. Intimoriti, proseguimmo:
«Mi piacevano quelle voci che entravano, non un vero canto, ma voci tagliate che si ripetevano, che cantavano in modo freddo. Era come una sirena proibita.»
(Burial, in M. Fisher, Spettri della mia vita)
* Cfr. H. Melville, Moby Dick.
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Fine, amore
Fine dicembre, mattino, nel nodo
di stelle spegne di gioia l’approdo.
Gioia amorosa, amore, fredda noia
non riconforta il dolce sguardo e l’agio
di viverci protetti nel presagio
di non avere abbentu** o scappatoia,
che l’ultimo contagio sia la fine
del fuori, piega o clima poco incline.
** Pace, riposo.
Forme del conflitto sono già state rintracciate in:
Sogni e risvegli di Fabrizio Bajec
Il divieto di accorgersi di Elisa Donzelli (documento apparso su Le Parole e Le Cose)

Lorenzo Mari
Lorenzo Mari vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali gli ultimi sono Querencia (Oèdipus, 2019) e la plaquette Tarsia/Coro (Zacinto, 2021). In prosa, ha pubblicato il racconto Via Mascarella alta e bassa (autoproduzioni Modo Infoshop, 2019) e ha ottenuto il XXXV Premio Teramo Giovani - Giacomo Debenedetti per il racconto Un percorso sicuro.
Traduce dallo spagnolo (Agustín García Calvo, Sonetti teologici, L'Arcolaio, 2019; César Vallejo, Trilce, Argolibri 2021) e dall'inglese (David Keenan, Memorial Device, Double Nickels, 2020, insieme a Matteo Camporesi).
Ha curato l'edizione italiana di ZURITA. Quattro poemi del poeta cileno Raúl Zurita (Valigie Rosse, 2020), nella traduzione di Alberto Masala.
Collabora con varie riviste online (Pulp Libri, Fata Morgana Web e Jacobin Italia).