Split | di M. Night Shyamalan | recensione di Enrico Carli

Genere: Thriller
Durata: 116 min.
Cast: James McAvoy, Anya Taylor-Joy, Betty Buckley, Haley Lu Richardson, Jessica Sula
Paese: USA
Anno: 2017

Split è in parte ispirato al caso di Billy Milligan, schizofrenico affetto da disturbi dissociativi dell’identità che negli anni settanta rapì e violentò tre studentesse, e giudicato dal tribunale statunitense non colpevole per infermità mentale (venne fuori che aveva 24 personalità). Anche Kevin, interpretato dall’ottimo James McAvoy, ha problemi identitari, anche lui si risolve a rapire tre studentesse e a imprigionarle nei sotterranei di un luogo imprecisato. Le tre ragazze avranno modo di conoscere alcuni abitanti della sua mente, quelli in “luce”, tra cui l’ossessivo-compulsivo Dennis (il responsabile del loro rapimento), l’affettuosa Patricia e il giovanissimo Hedwig. L’aspetto peggiore è però l’annunciato arrivo della Bestia (la 24° personalità dell’uomo), di cui loro tre sarebbero le designate vittime sacrificali. Intanto la dottoressa Fletcher è allarmata dalle strane email di Barry, abitante di Kevin che a differenza degli altri non si presenta da un po’ nel suo studio.     

Dopo un paio di film minori (Lady in the Water; E venne il giorno) e altrettanti film “sbagliati” (L’ultimo dominatore dell’aria; After Earth), il regista indoamericano M. Night Shyamalan, tornato finalmente in forma già dal penultimo, interessante The Visit (2015), mantiene con Split le sue ritrovate capacità di affabulazione, seduzione e inganno.    

Il soggetto di Split dà modo al regista di affrontare un altro aspetto della realtà percettiva, ispirazione che è alla base dei più riusciti lavori precedenti, da Il sesto senso a The Village. Si pensi ai suoi famosi finali ad effetto, laddove il rivolgimento di prospettiva è la scoperta di una percezione/condizione svelata, che si propone di portarci su un altro livello di realtà. La realtà che conosciamo non basta. La mente affollata di Kevin, dove coesistono bambini, adulti di entrambi i generi, omosessuali – e quindi innocenza, talento, diversità – è conseguenza della sfaccettata, sorprendente complessità di modi in cui si può reagire agli abusi, istituzione di un clan-famiglia in cui si ripetono le dinamiche apprese e subite, sistema che si prefigge un controllo che viene meno perché il sistema è aperto.

L’amorevole dottoressa Fletcher (Betty Buckley) spiega come solo una delle personalità del suo paziente sia malata di diabete e assuma insulina senza conseguenze per le altre (nella realtà dei fatti una delle personalità di Billy Milligan leggeva e scriveva correttamente l’arabo; un’altra era jugoslava e conosceva il serbo-croato). La dottoressa interpreta la dissociazione come una grande risorsa della mente umana, capace di contenere più cervelli (diverse attitudini, caratteri, fobie) nello stesso “contenitore”. La malattia come condizione di superiorità e, contemporaneamente, di insanabili conflitti istintivi e morali per la stessa capacità di assimilare moltitudini.   

Non è un caso che l’attenzione di una delle personalità in luce di Kevin si focalizzi su quella di ragazze giovani, che non conoscono la sofferenza e che, pertanto, sono “impure” (come se la purezza passi solo attraverso il dolore). Fatta eccezione per la malcapitata Casey (Anya Taylor-Joy) il cui sguardo autentico le permette, dietro la paura, di vedere chi ha davanti. Il suo dolore (che come vedremo porta scritto sul corpo) la rende “adatta” a vivere. E il discorso adattivo si estende a raggiera con la consueta presentazione graduale degli elementi che tanto piace a Shyamalan – si pensi alla cattività in cui vengono messe le ragazze, al personaggio-identità della Bestia e al luogo in cui sono (ci verrà mostrato a tempo debito) – per tracciare alla fine un ordine evidente, una plausibile spiegazione allo slittamento dei piani del racconto.  

Ma è nel doppio finale del film (spoiler) – in realtà l’apertura al seguito di quella che non è ancora una trilogia e che potrebbe essere ben più di ciò – che Shyamalan ci manifesta la sua ultima intenzione: con Split abbiamo assistito alla genesi di un villain così come Unbreakable – Il predestinato (2000) era l’origine di un supereroe. A distanza di diciassette anni Shyamalan prosegue la sua personale creazione di una saga di supereroi dark (direttamente al cinema bypassando l’edicola). Inoltre, giocando con i topoi della super-categoria (genesi nemesi resa dei conti) e non rivelando fin dal lancio la natura del progetto, egli sperimenta la vertigine del genere nel genere. Trovarsi in un “cinecomics” e non saperlo; in un seguito e non saperlo; attribuisce al film che abbiamo visto una nuova, inusuale appartenenza, di cui il thriller era solo un aspetto della sua molteplice identità.