La spuria umanità di Lello Voce ⥀ Su Il Cristo elettrico

Nel nuovo romanzo di Lello Voce, Il Cristo elettrico, l’uso del carnevalesco rovescia l’ordine normale del mondo e mostra così la nudità che vi si cela. Pubblichiamo qui una recensione al romanzo, e a seguire un suo breve estratto

 

Lello Voce ha il gusto dell’impasto, della maccheronea e del plurilinguismo, che ha riversato a piene mani nel suo romanzo, uno e trino, Il Cristo elettrico (Transeuropa, Massa 2021), remix dei precedenti Eroina (1999) e Cucarachas (2001). Più ancora delle sue poesie, queste prose di romanzi sono la più evidente manifestazione linguistica della poetica teorizzata da Voce nella rivista Baldus (1990-1996), intenzionata a rinnovare la linea anticanonica inaugurata da Folengo, innestandola però sul filone avant pop, non iperletterario.

C’è una linea narrativa nelle prose di Voce, una trama che è la storia dell’eroinomane Enrico, di cui si raccontano le vicende picaresche alla ricerca della «bella-bianca», della «buona morte», insieme alla sua banda disperata. A inframezzare la diegesi, come interludi, si trovano le lettere scritte dal protagonista, confinato nello «scoglio-galera», alla madre. Il Cristo elettrico è una wunderkammer dove la lingua si srotola in una serie di quadri e registri sovrapposti, bassi («Cazzo che rota merda», p. 61) e alti («tutta una prossemica frenetica», p. 81), in una sarabanda di azioni triviali e flussi di (in)coscienza, tra outsider tossicomani, vestiti soltanto di una siringa come Diogene era vestito solo di una botte, e la varia umanità che si trovano a incrociare. Il montaggio delle sequenze verbali è così serrato che dà l’illusione del movimento, ma è un movimento a scatti. E l’effetto è quello del «meccanico applicato sul vivente», che stando al Bergson del Riso è alla base del comico.

Il Cristo elettrico usa il comico, come raccomandava Celati, per rovesciare l’ordine del discorso, quindi del mondo, mostrando, con uno sguardo dal basso verso l’alto, la nudità che si nasconde sotto le maschere, le quinte e i fondali della messinscena. Così, di giorno, ordinariamente, Antonio, uno dei tanti, è «quello che conosce Lucia, un bravo ragazzo timorato», ma di notte, straordinariamente, Antonio è anche «cliente abituale di Latifha, la puttana musulmana che sta vicino al distributore» (p. 196).
Voce, direttore di questo circo maledetto, fa sfilare davanti ai nostri occhi un corteo di eroinomani, guidato dal protagonista «Enrico-Orfeo», un corteo che a furia di capitomboli, di ruzzoloni, di salti mortali si dirige verso l’abisso. È la letteratura carnevalesca che ha aperto, con Palazzeschi, e chiuso, con Tondelli, il Novecento. Di Altri libertini, in effetti, Il Cristo elettrico conserva la coralità del romanzo, il suo immaginario di emarginazione punk, i suoi moduli espressivi, a partire dall’epiteto del protagonista, detto «l’Enrico», passando per gli espedienti retorici che mimano il sound del parlato («E va bene drogarsi, ma di droghe ce n’è tante, milioni di milioni», p. 216), per giungere al lirismo degli scoramenti e dell’astinenza. Il tranche de vie dell’eroinomane prosegue la rassegna inaugurata dal Burroughs di Junkie (trad. it. La scimmia sulla schiena). Tutta di Voce invece è la rabbia che trasuda da ogni pagina, l’indignazione per la finta morale di una società che condanna l’eroina per essere «il peggio del peggio, la droga dei paria», mentre si potrebbe «fare altro», come «sparar[si] su per il naso chilometri e chilometri di coca, restando però pulito, lavato, con la camicia stirata, educato, produttivo, lesto all’inculo, profittevole del prossimo mio: una persona civile, insomma» (p. 216).

 

 


Da Il Cristo elettrico di Lello Voce

 

Per il resto della giornata non è accaduto nient’altro. Vita normale, tutto regolare e lo stesso per altri due giorni.
Io oramai quasi non ci pensavo più alla storiaccia di Stirace e mi limitavo a farmi le cosucce mie quando il grande capo se ne andava per l’ora d’aria, o quando si rinchiudeva per mezz’ore intere dietro la tenda del cesso alla turca e pontificava scoregge a raffica.
Il vento del suo culo a trombetta copriva a meraviglia l’odore della bella buona che si riscaldava invitante e quasi scoppiettante nel tappo d’alluminio della Coca: sono diventato abbastanza veloce con pompetta di stilografica e temperino. Due secondi tra taglio e inietto. Mica male e comunque stavo ampiamente nei tempi delle mega brentane coprologiche dello Stirace e davo serenamente fine alle ultime riserve rimastemi dalle ultime e rinnovate incursioni notturne di Teo in territorio nemico.

Gli altri sembravano non vedere, o, se vedevano, si facevano i cazzi loro e poi Teo mi dava una mano con diversioni fulminee che davano subito il via a megabattute di caccia allo scarafaggio tali da tenere comunque occupati i laboriosi ospiti della comune a scacchi.
Solo io sono capace di riconoscere Teo tra un milione di scarafaggi…
La mattina del terzo giorno c’era un sole della madonna ed erano schizzati fuori tutti in cortile per l’ora d’aria. Io ho messo Teo di sentinella e mi stavo avviando alla branda per concedermi un bel quarto d’ora di vacanza veno-arteriosa, quando l’ho vista.
Stava mezza nascosta sotto il cuscino di Rapinelli: una pompa, una pompa vera, di quelle da farmacia, da insulina, tutta di vetro blu con le tacche bianche per misurare.
Un sogno, un paradiso, un lusso da emiro per le povere braccia mie, tutte tagliuzzate a temperino e sputo.
È stato un attimo: ho buttato all’aria il cuscino e ho brancato la spada.

Ho urlato come un ossesso per il dolore. Cazzo! Doveva essere a duemila gradi come minimo, altro che bollente, quella era arrivata a un attimo prima della fusione.
Ma mi erano già sopra tutti e quattro, i coinquilini venuti fuori alle spalle del vigile Teo, dalla porta d’accesso al Braccio Transiti che la mano complice di un Superiore aveva lasciato proditoriamente aperta.
Stirace, fornito di un efficacissimo guanto da forno, mi ha stretto la pompa in mano a più non posso, mentre Rapinelli e Benedetta mi cintavano i piedi e poi, dopo la conclusione della prima cottura della cura della premiata ditta Stirace, anche le braccia (pp. 85-86).