Una Stagione all’inferno a Gas ⥀ (Un Disturbo Ossessivo-Compulsivo)
Pubblichiamo di seguito alcuni estratti dell’opera Una Stagione all’inferno a Gas di Mario Esposito, uno sguardo originale e insolito sul problema del disturbo ossessivo-compulsivo
Una Stagione all’inferno a Gas è «un viaggio di esplorazione nelle regioni più oscure del Disturbo Ossessivo Compulsivo (anche detto D.O.C.), uno dei disturbi dell’ansia più invalidanti e meno noti tra le patologie psichiatriche». Così scrive l’autore. L’opera è però al tempo stesso l’ininterrotta, rocambolesca ricerca dell’escamotage che disattenda le regole del gioco, condotta da chi l’esperienza infernale del Disturbo l’ha vissuta in prima persona e ha cercato, con intelligenza e ironia, di uscirne.
(Claudia Valsania)
Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era un banchetto, in cui ogni cuore s’apriva, in cui vini d’ogni sorta grondavano1.
Poi è arrivato il DOC
Caratteristiche essenziali dell’inferno
Caratteristiche essenziali del disturbo sono pensieri, immagini o impulsi ricorrenti che creano allarme o paura e che costringono la persona a mettere in atto comportamenti ripetitivi o azioni mentali2.
Nella pratica, per non annoiare il lettore, il disturbo consiste nel guardare il rubinetto e non riuscire a decidersi se quello sia aperto o sia chiuso (parliamo per intenderci di un rubinetto chiuso – oggettivamente chiuso) e ripetersi per convincersi, nel giro di fumo della mente, la formula magica quotidiana seguente:
Il rubinetto è chiuso
Il rubinetto è chiuso
Il rubinetto è chiuso
Così compilando ritualmente senza posa lo schema della compulsione, seguendola con le dita. Contando come i bambini
Uno: Il rubinetto è chiuso
Due: Il rubinetto è chiuso
Tre: Il rubinetto è chiuso
Eccetera.
Fino a cento, duecento o mille.
Tenendo conto che il rubinetto può essere dell’acqua o del gas, e che la pratica virtualmente non ha fine, ditemi se è o non è – questo – un inferno.
Vie di fuga allo specchio
L’unica cosa chiara, in questa buia Stagione, è che la porta di uscita dell’inferno è chiusa e aperta contemporaneamente.
Mettiamoci nei panni di un docker (in particolare nelle sue scarpe3) e proviamo insieme ad attraversarla per capire la logica del tutto illogica di questo assurdo.
Da questa parte dello specchio il rubinetto del gas (o dell’acqua) è sia chiuso che aperto.
La finestra della camera da letto, anche quella, chiusa e aperta.
Lo schermo (del computer, dello smartphone) è sia acceso che spento.
Sullo stesso livello sono – paradosso dei paradossi – sia il buio che la luce.
Il rubinetto di Schrödinger
Secondo la fisica quantistica, o meglio secondo il famoso esperimento mentale del professor Erwin Schrödinger, un gatto rinchiuso in una scatola può essere, con pari probabilità di successo dell’esperimento, sia vivo che morto.
Un paradosso spiegabile attraverso le curiose condizioni in cui il rompicapo quantistico avrebbe luogo.
Nella scatola (mentale) in cui – ignaro di tutto – il gatto sonnecchia pacificamente, viene introdotto dell’uranio, i cui eventuali effetti radioattivi azionano un meccanismo dotato di martelletto che rompe una fiala di cianuro che, a sua volta, uccide l’incolpevole cavia dell’esperimento.
Una disastrosa catena di eventi (per il povero felino) che può essere interrotta all’origine grazie all’intervento provvidenziale di un semplice calcolo delle probabilità. In un determinato punto del tempo, infatti, il singolo atomo di uranio colpevole del misfatto ancora non ha emesso le sue radiazioni (e forse non le emetterà mai) – il gatto quindi risulterà vivo. Le probabilità di innescare o meno la macchina infernale4 sono dunque pari al 50%.
Allo stesso modo, nella scatola mentale in cui si trova ingabbiato un docker in piena compulsione, i risultati sperimentali sono angosciosamente sovrapponibili. Di fronte a un inerme rubinetto, l’osservazione ossessiva suggerisce il clamoroso risultato di un pareggio quantistico.
Il rubinetto è – né più né meno – sia chiuso che aperto, nello stesso momento.
Una vittoria della scienza – e un fallimento esistenziale su tutta la linea – sintetizzabile attraverso la seguente equazione/notazione:
Non vi sembra un problema affascinante?
Il problema del Mu
Uno dei più famosi Kōan buddisti – per chiarezza e rispetto nei confronti del lettore specifichiamo che un Kōan è un’affermazione o un racconto paradossale mirato al risveglio della consapevolezza nello studente dello zen – uno dei più famosi Kōan buddisti – dicevamo – pone un problema di sicuro fascino per la mente allenata e zelante di un individuo facile alle compulsioni, un esercizio mentale dall’impossibile conclusione che può far vibrare di gioia (e tremare di paura) chiunque si sia trovato nella buffa situazione di indossare due scarpe uguali e non riuscire a farsene una ragione (del fatto che siano veramente uguali).
La breve storia che qui riportiamo5 narra di un monaco che, consultandosi con il venerabile maestro Joshu sulla possibile natura-Buddha di un cane – e ponendo la questione in termini netti di «Sì o No» – ottiene come risposta un enigmatico (e illuminante) «Mu», cioè «Niente».
Niente. Ecco tutto. Niente. Il DOC non è niente. Di fronte a un rubinetto (chiuso) o una manopola del Gas non sta accadendo (un bellissimo) niente.
Soluzione momentanea al problema del Mu
È successo così.
Guardavo i piatti e i bicchieri nel lavabo, sembravano il soggetto di una tela del pittore Giorgio Morandi, avevano un loro ordine, una loro povera coerenza, una luce morbida, colori cipriati. Erano messi lì per me, per ricordarmi che se non avessi aperto io – con la mia umana volontà – quel diavolo di rubinetto, nulla sarebbe mai cambiato e quei piatti, quei bicchieri, sarebbero diventati presto cosa da museo, natura morta, inutile arte (un’arte per nessuno, e quindi inutile).
Ma se avessi aperto il rubinetto, rompendo così l’incanto, sarebbe presto ricominciata la danza del DOC, insieme alle solite angosciose istanze…
Eppure, eppure, eppure…
Eppure, senza che me ne accorgessi subito (coscientemente), l’impalcatura del Disturbo stava improvvisamente collassando. Cominciando a strofinare i primi cucchiaini, capivo, a mano a mano, in modo sempre più intellegibile, che se avessi lavato semplicemente i piatti (cioè se mi fossi appagato del semplice atto del lavare, come il monaco zen che lava ieraticamente la sua ciotola dopo il pasto) il disturbo sarebbe andato a farsi benedire e non sarebbe stato più così diabolico.
La soluzione, insomma, la soluzione al problema del Mu e a tutti i (miei) problemi non era osservare il rubinetto, ma usarlo. Usare il rubinetto – e il Disturbo – per i miei fini (tra questi, lavare i piatti). Imparare non a pensare, ma a fare.
Riferimenti
1 Arthur Rimbaud, Una Stagione all’inferno, SE, Milano 2016.
2 Tratto dal sito dell’Aidoc – Associazione Italiana Disturbo Ossessivo Compulsivo.
3 (Anche indossare le scarpe per un docker può essere un problema serio).
4 Secondo le parole dello stesso Schrödinger.
5 Vedi Mumon, La porta senza porta, Adelphi, Milano 1987.
Mario Esposito è nato a Napoli nel 1978. Vive a Milano, dove lavora in pubblicità. Con il progetto teatral-musicale SUPERLOWed ha pubblicato nel 2009 il libro-disco Storia illustrata dei mezzi di trasporto (La scuola di Pitagora editrice).