Storia dei Quaranta ⥀ Dalle Marche a Famagosta, passando per Venezia

I banditi di Amandola del 1565 raccontati nel breve romanzo storico Storia dei Quaranta (Malamente, 2024) di Raoul Dalmasso

 

Per i tipi di Malamente, casa editrice urbinate nata nel 2021 sulla scia dell’omonima rivista, è di recente venuto alla luce Storia dei Quaranta, breve romanzo storico a firma di Raoul Dalmasso, antropologo culturale sulla carta ma di fatto prosatore con il vizietto della ricostruzione storiografica. Pur trattandosi di un lavoro che trasuda marchigianità (tale è l’avventura dei banditi amandolesi testimoni, tra le varie peripezie, della lotta tra Venezia e gli Ottomani), nonché di un genere letterario canonico e ben definito, il giochino dei riferimenti – ovvero il tentativo di scovare eventuali precedenti per contestualizzare l’opera entro un “già visto” che funga da confortante orientamento – risulta in questo caso più che mai vano. Gli argomenti, del resto, non mancano: 1) si è ben lontani – per la singolarità del formato e per la carenza di un certo impeto nazionalista – dall’intento e dalla direzione seguita da capisaldi quali Nievo o Manzoni, per non dire di Stendhal. Lo stesso vale, per ragioni diverse, rispetto a maestri del settore come Walter Scott o Umberto Eco; si può se mai rilevare come a monte vi sia l’espediente meta-letterario – questo, sì, uno standard – del rinvenimento di uno scritto che ha spinto il narratore (si badi: non l’autore) a intraprendere la fatica in questione; 2) rispetto alla narrativa che nelle Marche è nata e ha trovato un’ambientazione – parametro tanto più significativo in concomitanza con il centenario della nascita di Paolo Volponi –, non è questo il caso di (arditi) accostamenti a personaggi cui l’elemento della provenienza (anche della casa editrice) condurrebbe d’istinto, come lo stesso Volponi, il Piersanti delle Cesane o ai più recenti Cesare Sinatti o Alessio Torino. Certo, a rimarcare il regionalismo come fatto identitario si registra, in Dalmasso, la presenza di dialettismi, di un gioco con il volgare che è variante diastratica e diatopica al contempo, in cui arcaismo e volgarismo spesso coincidono. Sembra esservi per assurdo, e mutuando arbitrariamente categorie iper-contemporanee, quasi un’impronta glocal, che estende cioè il proprio sguardo al cosmo cinquecentesco che nel libro viene tratteggiato.

Poste simili premesse, la Storia dei Quaranta può essere definita non solo in funzione di cosa non è, ma rivela anzi peculiarità chiaramente riconoscibili. Lo scritto porta con sé un’aura bolognese e wu-minghiana, o piuttosto ancora dei Luther Blissett (il fatto, già notato da altri, è stato peraltro confermato dall’autore), tanto è volto a rendere – oltre al fatto storico documentato con piglio archivistico – il clima “vivo” di un’epoca, tra il parlato e l’andatura dei personaggi, dalle mode e ai fenomeni tipici di un’epoca (1565-1575) che è, peraltro, appena successiva a quella di Q (1517-1555; si arriva al 1570 contando anche il séguito Altai). Ciò è forse il frutto della formazione antropologica dell’autore e – anche ammesso che sia un esito involontario – arricchisce il dato meramente cronachistico di immagini vivide, ideali a favorire l’immedesimazione nel contesto di riferimento. Sul ricorso alla storia, o meglio alla storiografia, giova al romanzo la ristrettezza dell’arco cronologico, che rende l’operazione settoriale e specialistica grazie alla rinuncia ad abbracciare tutta un’epoca o un intero emisfero. Circa i luoghi, è importante notare come la lente della narrazione si sposti dalla realtà amandolese, cui ciclicamente fa ritorno e che non è solo un punto di partenza ma un sottofondo permanente, al crocevia di Venezia, virando poi sulle città-simbolo di Famagosta e Nicosia come terre oggetto di contesa con il Turco. Questi, nella fattispecie, è sempre indirettamente Selim II, sultano dell’Impero ottomano che commissionò la presa di Cipro e che vide i suoi perdere a Lepanto, ma sul posto si parla piuttosto del Pascià, vale a dire il generale Lala Kara Mustafà Pascià. E dei turchi, proverbialmente sanguinari, è dipinta tanto la propensione al vizio – caratteristica che a suo modo li accomuna ai molti umili che fanno la propria comparsa nel racconto – quanto l’assenza di scrupoli in battaglia e per fini politici. I restanti personaggi, voce narrante compresa (e sulla quale ha senso non aggiungere troppo in questa sede), godono di un trattamento analogo, nel senso di una rappresentazione che tende a umanizzare il fatto storico a partire dai protagonisti stessi, dei quali giova dunque mettere in mostra più che altro istinti bassi e debolezze che – a fronte di uno scenario attraversato dalla guerra – finiscono per destare nel lettore un istintivo atteggiamento assolutorio. Così vale per i Manardi, che tra gli aristocratici sono la casata dei ribelli e dei più sanguigni, nonché per i Quaranta: sia in riferimento ai nobili che ai banditi, l’autore pare voler riprodurre i caratteri di personaggi collettivi, che si muovono insieme perché di fatto emanazioni di gruppi comunque inscindibili (dato che vale per entrambe le compagini nonostante le differenze in termini di numeri e la diversa estrazione sociale), legati da un vincolo di sangue nel caso della famiglia amandolese e da un identico attaccamento alla vita e alle occasioni da cogliere per quanto concerne i briganti. Ciò ha l’effetto di alleggerire la trama, il che non è un difetto: rende, anzi, più scorrevole il flusso di eventi saldamente ancorati alla cornice che condurrà a Lepanto e dintorni. Un appunto sui Manardi, tra storia e fiction: tra Muzio e Giovannantonio, tra i più giovani Cecco e Mandricardo, non può non destare interesse la figura di Morgante, non solo per il nome altisonante ed evocativo di gesta pulciane.

Sulle scelte stilistiche – posto il pregio della struttura complessiva messa in piedi dall’autore – varrà forse la pena muovere due minimi rilievi: valgano come dei mallem scripsisse che in nulla mettono in discussione il valore del libro. Il primo aspetto perfettibile riguarda il ricorso ai corsivi, di cui Dalmasso giustamente si serve per calarci nel tessuto linguistico “vivo” del tardo Cinquecento, in cui, come è ovvio, livelli e registri si intersecano e si sovrappongono. Pur a fronte della pertinenza di un simile tentativo, si indulge nel corsivo in qualche passo in cui forse questo non era strettamente necessario, perché applicato a termini sì arcaici o desueti, ma non ancora o non del tutto “fuori” dalla lingua d’uso dei nostri giorni; in alternativa, è stato esteso a termini per cui era evitabile (alcuni esempi tratti casualmente da p. 130: se è fondamentale il corsivo per «in» Famagosta – tratto di marchigianità che suona identico «in» Amandola, «in» Ancona o «in» Urbino – lo è meno per nessi come «de gran pudore», riferito a una persona, o per una data come il 19 «de» novembre dell’anno 1573). In secondo luogo, va rilevato come i pochi inserti dialogati conferiscano alla lettura dei picchi di pathos del tutto funzionali ai momenti di svolta: qui, per converso, non si può escludere che un maggiore ricorso al discorso diretto non avrebbe giovato al romanzo (per es., alle pp. 104 e 106-108, gli scambi che intercorrono tra il Pascià e Marcantonio Bragadin, prossimo ad essere pubblicamente scuoiato, rendono al meglio l’enfasi del momento). Sono, come detto, minuzie del tutto secondarie: a chi ha scritto va tributato il merito di essersi proiettato con competenza nel filone del romanzo storico, oltre al fatto non secondario di aver messo i lettori (già più di venticinque, a quanto pare) nella condizione di correre ai ripari e ripassare – prima e durante – il periodo interessato. L’ultima avvertenza, che non vorrebbe fungere da spoiler, è quella di buttare un occhio – senza staccarlo mai – sulla voce narrante.