Straniamento ⥀ Il romanzo della crudeltà #3

Pubblichiamo un altro racconto di Sauro Serbassi (per leggere il primo clicca qui), nato nel corso del laboratorio di scrittura narrativa Il romanzo della crudeltà, tenuto da Valerio Cuccaroni alla libreria Catap di Macerata: il racconto è accompagnato da un’illustrazione di Luca Cingolani



Straniamento

 

«Aspetti!» gridò Venanzo Battistoni all’indirizzo del capostazione in piedi di fianco al treno, ben oltre la linea gialla.
Non fu granché come urlo, del resto stava correndo a perdifiato da quasi dieci secondi, ormai. Senza considerare il caldo: era luglio e nell’aria c’erano quasi quaranta gradi. Per poco non era inciampato in un mucchietto di fogliame che, staccatosi dalla siepe che fiancheggiava per una ventina di metri il binario, andava rotolando per la stazione sospinto dal vento. L’uomo in divisa sembrava tuttavia aver inteso il suo sforzo; o forse più semplicemente aveva notato – sarebbe stato difficile non farlo – la grossa figura di Venanzo incedere goffa e precaria verso di lui.
«Forza, forza, sta partendo!», incitò il capostazione, magari provando un certo piacere a veder correre quel grassone a più non posso. Venanzo afferrò il treno per una maniglia e si issò dentro.
Dio mio, avrò perso un chilo, ansimò, mentre il treno già muoveva i primi metri. Trafficò e imprecò a mille contro la porta automatica che gli aveva addentato la valigetta; quindi, mentre già i corti capelli ricci gli si bagnavano di sudore, iniziò a farsi largo nel corridoio della seconda classe. Con la pancia poderosa ne occupava quasi tutta la larghezza e così l’incrocio con un’altra persona diventava già un bel grattacapo: era costretto a tracimare lateralmente nel primo scompartimento che trovava e a scusarsi con i malcapitati occupanti. Impattò anche un signore della sua stessa stazza, verso la fine di quella mini via crucis: per la verità, fu anche abbastanza divertente, fatta eccezione per l’afa e la fatica.
«Che facciamo?» aveva domandato quello, con un sorriso.
«Ok… mi sposto io», aveva risposto Venanzo, sorridendo a sua volta, dopo un attimo d’imbarazzo.
Verso la fine del vagone, intravide in uno scompartimento ben tre posti liberi. Gli parve un miraggio e da ciò, prima di entrare, si assicurò se tante volte quei posti non fossero già prenotati. Erano tutti liberi ed erano addirittura cinque, solo una donna sedeva accanto al finestrino. Un grato sorriso s’aprì nel faccione tondo di Venanzo: poche volte s’era trovato di fronte a tanta grazia sull’Intercity delle quindici e ventinove, di solito era già tanto non doversene stare in piedi tutto il tempo pressato nel corridoio. Se gli fosse capitato quel giorno, a quella temperatura, non ne sarebbe uscito vivo.
«Buonasera… ops, mi scusi, stava dormendo…»
«N-no… non si preoccupi», disse la donna. Stava mezza distesa, con il capo reclinato sul poggiatesta. Due buffe e robuste trecce bionde movimentavano la sua figura, dandole brio. «Buonasera a lei».
Venanzo fece un cenno con la testa e le sorrise, prima di darle le spalle per alzare la valigia e accomodarla nell’apposito vano. Era sul punto di sedersi anche lui, quando si ricordò di chiedere: «Ehm… mi scusi di nuovo, potrebbe dirmi in quale verso va il treno?»
Era una domanda cui, suo malgrado, Venanzo era costretto a ricorrere ogni volta. Eppure sarebbe bastato uno sguardo prima di salire per risparmiarsi, assieme alla domanda, anche l’imbarazzo. Quel quesito gli era necessario per non rischiare di sedersi nella direzione contraria a quella di marcia, cosa che in poco tempo gli avrebbe provocato malore. Non voleva neanche pensare a quanto questo avrebbe potuto essere intenso, in quel pomeriggio bollente.
Per evitare quel turbamento avrebbe certo potuto sedersi a caso, sperando di fare centro. Ma, se poi si fosse sbagliato? Sarebbe stato ancor più imbarazzante, per non dire ambiguo, alzarsi e cambiare posto. Sedendosi nell’altra fila, il fatto di cambiare di posto, avvicinandosi così alla donna, non avrebbe potuto essere interpretato come un maldestro tentativo di approccio? Nel caso contrario, cioè se prima le si fosse seduto vicino per poi spostarsi, cos’avrebbe dovuto pensare quella? Che lo disgustava tanto da farlo allontanare? Che puzzava?
«Così», rispose la donna, puntando l’indice davanti a sé: un sorriso pigro le increspò le labbra; subito dopo si risistemò sul sedile e richiuse gli occhi. Venanzo provvide allora a spostare prima la valigia, quindi se stesso, nel giusto verso, prendendo posto vicino alla porta.
Della donna solo la testa era ora appena inclinata, poggiava con lo zigomo sulla parete, a un palmo dalla cornice ferrosa del vetro. Le trecce bionde si erano abbassate, quasi afflosciate, come se il caldo stesse intorpidendo anche loro. Gli occhi erano chiusi, il respiro regolare e fioco, pareva si fosse addormentata. A Venanzo ciò parve improbabile e tuttavia la invidiò forte nel vederla così pacifica e tranquilla. Non era ancora trascorsa un’ora da quando lui era uscito dalla banca. Era stata tutta una corsa: dalla banca all’appartamento, pranzo volante, poi da un amico, quindi visita lampo a un cliente e infine in stazione, dove naturalmente aveva dovuto sorbirsi anche un bel po’ di fila per il biglietto, maledicendo ogni istante d’attesa la sua dabbenaggine: perché diavolo non pensava mai a farlo prima, il biglietto!
Ancora non era riuscito a riprendere fiato e il sudore gli aveva appiccicato la maglietta alla pelle, la camicia alla maglietta e la giacca alla camicia. Ora che li guardava meglio, i capelli della donna, trecce comprese, sembravano un po’ grassi. Il treno intanto aveva già passato un paio di paesini.
Chissà come si chiamava la tizia. Doveva essere sulla quarantina, stimò Venanzo. Tre, quattro anni meno di lui, massimo cinque. Era piuttosto bravo in quel gioco, di rado sbagliava più di qualche anno. Quarant’ anni suonati e ancora si concia i capelli come una ragazzina, gli venne da pensare nell’osservare quelle trecce vincose; un poco grasse lo erano di sicuro. Il madido faccione di Venanzo si allargò in un nuovo sorriso, nonostante il caldo. Aveva una gran voglia di togliersi la giacca. Perché no? Che c’era di male? Sì, però, sai che profumino qui dentro, dopo. E sai che aloni sotto le ascelle…
Più stava lì a pensare di togliersela, più la giacca pareva acquistare peso e calore, diventando un vero e proprio fardello. Ma sì, l’avrebbe tolta, tanto più che ormai la donna sembrava proprio dormire per la mezzanotte. Tuttavia, poteva giurarlo? Venanzo la scrutò attento: gli occhi erano sempre chiusi, le palpebre immobili, il respiro normale; eppure ciò non bastava a dargli certezza assoluta. Di fatto, avrebbe sempre potuto fingere. Se era tanto sciocca da combinarsi i capelli in quel modo, poteva certo anche far finta di dormire in treno. D’altra parte era una tecnica cui ricorreva volentieri anche lui quando capitava l’attaccabottoni di turno o quando proprio non aveva voglia di conversare. Ma la donna, che motivo aveva per fingere? Non era certo un attaccabottoni, lui. E voglia di parlare quel giorno ne aveva meno di zero. In quel momento l’unica cosa di cui aveva davvero voglia era di levarsi la giacca.
Per grazia divina, il treno si infilò in una galleria e per un minuto fu un’altra vita. Beatitudine immensa.
E quando fu di nuovo sotto lo sguardo soffocante del sole, Venanzo aveva ormai abbandonato l’idea di rimanere in camicia. Addormentata o no, prima o poi la donna avrebbe aperto gli occhi e allora avrebbe notato (notato? L’avrebbero accecata!) le enormi macchie mollicce delle sue ascelle. Le avrebbero mozzato il fiato.
Venanzo guardò l’orologio. Erano appena le tre e tre quarti e il treno non sarebbe arrivato ad Ancona prima di due ore. Considerò con bramosia la possibilità di incontrare qualche temporale, lungo il tragitto, e il pensiero bastò a rinfrescarlo.
Per un poco. Sperò che il sole non arrivasse fin dentro lo scompartimento, almeno quello. Era chiedere tanto?
La donna si mosse. Un lieve spostamento del braccio sinistro e un’inclinazione della testa. Una treccia le si era incuneata tra lo schienale e il poggiatesta; Venanzo si domandò come ciò potesse non darle fastidio. Ci voleva una bella faccia tosta per continuare a sonnecchiare, messa a quel modo. E poi, non aveva caldo? Non doveva essere troppo normale, la tipa.
Venanzo sbuffò, nel tentativo di allentarsi ancor più la camicia: questa era però al massimo e per allargarla ancora avrebbe dovuto romperla. Ne provò fortissimo l’impulso per un lungo, voluttuoso istante. Solo con enorme fatica riuscì a frenarsi.
Il sole invece non si frenava affatto, né si turbava: scottava sempre cattivo e costante, ma forte, e Venanzo ebbe l’impressione che se avesse messo una mano fuori dal finestrino l’aria l’avrebbe ustionato. Odiò il sole e odiò ancor più la donna vicino a lui. Buttò un’occhiata al borsone sopra di lei e pensò a quanto sarebbe stato bello prenderlo e sbatterlo con forza sopra quella testaccia ottusa.
Passò il carrello con le bibite e i panini, preannunciato dal suo fastidioso drin drin. Venanzo distolse gli occhi dalla donna per dirigerli sul paesaggio fuggente alla sua sinistra. Da qualche tempo lo scorrere grigio del cemento si lasciava inframezzare, a intervalli più o meno lunghi, dal verde dei campi.
Chissà cosa faceva Piera in quel momento, si domandò; era riuscita a trovare il tempo per preparargli qualcosa di buono, per cena? Al limite potevano anche andare a mangiare fuori, da parecchio non lo facevano. Senonché, dopo una giornata del genere, Venanzo non desiderava altro che starsene in casa tranquillo. E Michela? Di sicuro era da Gianna o da qualche altra sua amica, si disse.
La donna si mosse di nuovo, braccia e gamba stavolta, e la treccia si liberò dalla presa del poggiatesta. Dio, quelle trecce! Gli davano un nervoso! Da subito, appena le aveva viste, lo avevano stranito. Le guardò con disprezzo e disgusto abnormi, come se d’un tratto avesse riconosciuto in quelle tutto il male del mondo. Le trecce: esisteva qualcosa di più stupido e cretino sulla faccia della Terra? Si alzò in piedi, sgranchì le gambe, uscì nel corridoio.
Questo era deserto, animato solo da poche voci e da una calura se possibile ancora maggiore. Sbirciò di nuovo l’orologio: era passato appena un quarto d’ora da prima. Il controllore non si era ancora visto. Tornò a sedersi.
Ricominciò a fissare la donna e la sua testa. Quelle schifose trecce! Come le odiava! Gli facevano pensare… gli facevano tornare in mente… Pippi Calzelunghe! Sì, ecco! Quella ragazzaccia! Fortuna che in televisione non la davano più, non l’aveva mai potuta soffrire. L’avrebbe presa a schiaffi fino a rompersi le mani. Con quelle lentiggini, quell’atteggiamento da maschiaccio, e soprattutto quelle trecce. Da piccolo, ogni volta che la vedeva, non poteva fare a meno di pensare a quale divina sensazione avrebbe provato ad afferrarla per quelle trecce rosse per poi farla roteare, roteare, roteare e infine lanciarla come il martello alle olimpiadi.
A quei pensieri gli parve di sudare ancor di più. E di colpo Pippi Calzelunghe, la fatica, lo stress e il sonno arretrato gli calarono sulla testa come un’immane saracinesca, e diventarono una cosa sola: una specie di scusa, una sorta di permesso a lasciar libera la mente. Allora si abbandonò alla vampa, lasciandosi penetrare fino al midollo dallo stordimento.
Si infilò l’indice nel naso. Subito si sprigionò in lui una sensazione incredibile: il caldo non lo affliggeva più, al contrario. Gli piaceva. Ne godeva, lo godeva, l’aveva catturato e adesso gli riverberava dentro, dandogli un piacere selvaggio, squisitamente affilato. Cavalcava quel fuoco con ardore e ferocia. Un mezzo orgasmo.
Sentì rinascere in fondo al cuore un’emozione da secoli sepolta: la stessa di quando, bambino, si avviava in spedizione segreta verso il frigo e la dispensa, a caccia di dolciumi e ghiottonerie varie. Lavorando anche di mignolo, in pochi secondi estrasse dalla narice una consistente pallina di muco rinseccolito. Un insolito sorriso apparve sul volto di Venanzo: tale lo avrebbe giudicato anche Piera, se fosse stata presente.
Venanzo osservò qualche istante il suo prodotto e poi prese a rigirarlo tra il pollice e l’indice; sporse la testa oltre lo scompartimento: nessuno in vista. Allora atteggiò la mano a catapulta, mirò la chioma odiosa della donna e subito dopo diede fuoco alle polveri, scagliando il laido e bizzarro proiettile. Centro! Con soddisfazione impareggiabile vide la pallina grigio-scura infilarsi tra i peli biondi della donna, appena sotto una delle odiose protuberanze. Venanzo arrossì. Se ne accorse e per un momento restò interdetto, una strana espressione sulla faccia, prima che una grossa risata cominciasse a salirgli dalla pancia; si guardò bene dal lasciarsela scappare, la sezionò invece in tanti risolini soffocati, senza staccare gli occhi dalla donna.
Questa restava immobile con le sue stupide trecce, e il solo guardarla rinnovò in Venanzo l’ostilità. Un’ idea orribile e grottesca, eppure divertente, si affacciò alla sua mente nel delirio rovente di quella situazione: e se loro, i capelli, avessero reagito?
L’avversione infantile, la trecciofobia che di colpo s’era risvegliata in lui, gli faceva adesso vedere in quella massa di pelo biondo un essere vivo, una cosa aliena di un altro mondo. Se avessero spiccato il balzo verso di lui? Li osservò terrificato, mentre il cervello eccitato proiettava la scena: la capigliatura della donna prendeva vita e, simile a un orrendo granchio volante, o a un peloso, ripugnante ragno a due zampe, lo attaccava. Che roba! Ridendo e n poco tremando, si rinfilò il dito nel naso, cambiando narice. Del resto, quando sua moglie faceva le pulizie mica lasciava il lavoro a metà.
Il materiale estratto stavolta era meno compatto e la pallina più piccola: una propaggine gialloverdognola vi era attaccata e ne pendeva, liquidamente instabile. Venanzo si adoperò per amalgamare il tutto in forma tonda e alla fine il risultato non fu da buttar via. Gettò una rapida occhiata nel corridoio, quindi si preparò a lanciare. Appena adagiò la pallina sul pollice, però, capì che non avrebbe funzionato: troppo morbidiccia per poter sperare di farle seguire in modo apprezzabile una traiettoria in linea retta.
Allora si alzò e si appoggiò alla porta scorrevole dello scompartimento. Con disinvoltura ispezionò ancora una volta il corridoio: un ragazzo sulla ventina era appena rientrato in uno degli scompartimenti, giù in fondo. Null’altro.
Venanzo sogguardava la donna con un mezzo sorriso, mentre continuava a giocherellare con la sua caccola, rigirandola tra le dita.
Continuando a sorridere, si avvicinò piano alla donna. Per un millisecondo si vide dall’esterno e quasi gli parve di perdere i sensi: il caldo perse di nuovo fascino, tornandogli nemico; come un baluginio del sole sui vetri, sul suo volto apparve e scomparve lo smarrimento.
Fece l’ultimo passo verso la donna, allungando la mano armata verso la treccia più vicina. Cercò di infilarci in mezzo il suo morbido nocciolo, operazione alquanto delicata: doveva stare attento a non toccare troppo, o troppo veloce, a non tirare, evitando ogni movimento brusco, anche il più piccolo. Per di più, la sua deforme creazione non voleva proprio saperne di lasciarlo: passava dal pollice all’indice per poi riattaccarsi al pollice, mentre lui, in un bagno di sudore, cercava sempre più concitato di abbarbicarla alla treccia.
Venanzo era sul punto di scoppiare a ridere e mettersi a urlare. Forse qualcuno dalla terraferma avrebbe potuto vederlo, anche solo di sfuggita? E se la donna si fosse svegliata proprio in quel momento? Da una che si pippicalzelungava c’era da aspettarsi di tutto. O se, cosa forse peggiore di tutte, fosse entrato il controllore?
Ma nulla di tutto ciò accadde. O forse si realizzò solo la prima ipotesi, chi può saperlo. Venanzo riuscì a depositare il moccio nella treccia della donna, come un anomalo e schifoso uovo lasciato da chissà quale insetto.
Quando si sedette di nuovo al suo posto erano le cinque meno dieci, all’arrivo mancava ancora un’ora. In compenso il sole cominciava a mollare un poco la presa. Bene davvero perché subito dopo essersi seduto e aver ritrovato il fastidioso contatto con il tessuto e la plastica del sedile, Venanzo e il caldo erano tornati acerrimi nemici. Il tempo era però dalla sua parte: giocoforza, ogni minuto in più voleva dire un pizzico di caldo in meno.
Il controllore passò una ventina di minuti più tardi. Questi, per poter procedere all’obliterazione del biglietto, fu costretto suo malgrado a svegliare la donna.
Accidenti, che sonno! si disse Venanzo. I cui occhi corsero a cercare il ricordino sul ramo cisposo di lei ma, pur sapendo con precisione dove cercare, non riuscì a scorgerlo. In faccia a Venanzo si allargò un sorriso, prima di contrarsi e volar via rapido come un uccello.
«Dormito, eh?» disse imbarazzato, in risposta al sorriso di lei.
«Già… direi di sì», convenne lei, passandosi una mano tra i capelli e riassestandosi le trecce. Fece un lungo, saporito sbadiglio e questo chiuse la conversazione. Venanzo si alzò, prese la valigetta, l’aprì e iniziò a controllare alcune cose; di seguito passò ai documenti. Quando l’improvviso eccesso di zelo gli fu passato, richiuse la valigia e la lasciò sul sedile accanto. Neanche mezz’ora e sarebbe arrivato.
Nella migliore delle ipotesi, Michela non sarebbe tornata a casa prima delle sette e mezzo, ragionò, di solito era sempre l’ultima a rincasare. Chissà se almeno aveva lasciato qualche litro di benzina nell’auto, si chiese… L’auto! Cristo, doveva telefonare a sua moglie per farsi venire a prendere in stazione! Come diamine aveva potuto dimenticarsene? L’autobus faceva un giro incredibile per arrivare a casa e il pensiero di doversi sorbire un surplus di viaggio dentro un bus affollato gli faceva venire i brividi, malgrado il caldo. Dalla giacca estrasse il cellulare. Nel comporre il numero incrociò lo sguardo della donna e si scusò. Lei gli disse di non preoccuparsi, la cosa non le dava alcun fastidio.
Per fortuna Piera era in casa. Lei e il treno arrivarono in stazione quasi in contemporanea, come disse a Venanzo nell’abbraccio; a lui bastò questo e il suolo natio per gettarsi alle spalle le ultime ore, quasi non fossero mai esistite. Dieci minuti e furono a casa.
Michela non c’era e nessuno dei due se ne sorprese. Quand’arrivò, Venanzo aveva appena finito di fare la doccia. «Papà!» lo salutò lei, ridendo. Lui contraccambiò con eguale allegria e si strinsero forte. Alla fine, al contrario di ciò che Venanzo si era augurato poco prima, uscirono di nuovo tutti e tre per andare in pizzeria. E il capofamiglia non se ne pentì: stettero davvero bene, quando lasciarono il locale erano quasi le undici. Allora Michela salutò i genitori per finire la serata con gli amici. I coniugi invece non vedevano l’ora di tornare ad assaporarsi tra le coperte.
Proprio per questo rimandarono di un altro bel pezzo, per rendere l’attesa sempre più squisita. Passeggiare per la città dava a Venanzo grande piacere. Una meraviglia ricaricarsi i polmoni con l’aria di casa.
Solo una cosa gli disturbava l’idillio: una specie di dolorino in mezzo al petto, come cibo mal digerito. Se provava a considerarlo, vedeva solo delle fulminee immagini confuse di lui sul treno, sentiva come un leggero senso di nausea e, soprattutto, un calore insopportabile subitaneo lo invadeva. Tuttavia cercava di non dedicare alla cosa troppa importanza: Com’è venuta se ne andrà.
Venanzo e Piera fecero l’amore e si coccolarono fin verso l’una, dopodiché si addormentarono di un sonno profondo. Non sentirono neanche Michela rientrare e trafficare per le stanze.
Un paio di ore dopo Venanzo si alzò per andare in bagno. Tornato in camera, stava già per rimettersi sul letto, quando venne di nuovo trafitto dal dolore al petto avvertito qualche ora prima. Solo che adesso era cento volte più forte, e mozzava il fiato. E la cosa peggiore era che aumentava a ogni istante, aumentava e si espandeva. Cercò comunque di stendersi sul letto, nella speranza di trovarvi sollievo; ma il dolore già era arrivato alla spalla e ora correva lungo il braccio sinistro come un crampo atroce e paralizzante. Un attimo dopo lo spasimo gli mordeva la schiena, quasi fosse finito nella fauci di una belva gigantesca, e sembrava voler esplodere nei denti. In quella nube di sofferenza e panico gli parve di udire un rumore insolito provenire dalla finestra, spalancata quasi del tutto. Sembrava una specie di sfregamento, qualcosa schiacciato contro un ferro, o avvinghiato. Comunque mobile. Qualcosa che si trascinava a forza, che si arrampicava. Venanzo affondò il viso nel guanciale, nel tentativo di soffocare ogni cosa: spasmi, conati di vomito, allucinazioni. Mentre Piera continuava a dormire beata accanto a lui.
Quando gli sembrò di sentire un altro rumore ancora più forte e vicino, Venanzo si voltò piano verso la finestra, e allora non credette ai suoi occhi: quel qualcosa cercava di infilarsi nel poco spazio rimasto libero sotto la serranda. Un pezzo di cartone portato dal vento? Delle foglie? Un passero?
Per quel che riusciva a vedere quell’affare pareva proprio avere le ali; ma era troppo buio e lui ormai fuori di senno, per capirci di più. La cosa arrancò, arrancò e alla fine fu sopra il davanzale. Da lì precipitò sul pavimento con suono ovattato. Sembrò avanzare verso il letto, dove Venanzo ormai giaceva senza nemmeno più la forza di muoversi. D’un tratto avvertì come una tremenda stretta al collo, tanto veloce e potente da non lasciargli neanche la possibilità di urlare. Ebbe solo tempo di pensare: sono venuti per vendicarsi!
Al mattino, sul suo corpo irrigidito, Piera avrebbe in effetti trovato qualche lungo capello biondo.

 


Luca Cingolani, Senza titolo, immagine realizzata tramite intelligenza artificiale, 2021.