Sui confini della videopoesia ⥀ Doctor Clip 2020
Presentiamo la trascrizione di un estratto del dialogo sulla videopoesia avvenuto in streaming nel contesto della rassegna Doctor Clip, curata da Luigi Cinque. Con lui partecipano al dibattito Valerio Cuccaroni, Gilda Policastro, Maria Teresa Carbone
VALERIO CUCCARONI. Benvenuti a tutti. Abbiamo qui con noi l’ideatore di Doctor Clip, il musicista e regista Luigi Cinque, che ascolteremo durante la trasmissione. Poi abbiamo Gianluca Abbate, il videoartista che ha realizzato la videopoesia che avete visto, su testo e voce di Lello Voce. Avremo con noi Maria Teresa Carbone, giornalista, Gilda Policastro, oltre che critica anche scrittrice, il già citato Lello voce, poeta. Doctor Clip è il primo festival italiano di videoclip di poesia. Questa sera va in onda all’interno dell’Incontri Festival 2020. Inizierei subito questa trasmissione chiedendo a Luigi Cinque come mai ha scelto questa definizione tra le tante possibili, «videoclip di poesia», dato che come sottotitolo ha scelto invece quella internazionale di videopoesia, cioè «poetry film», sul modello dello Zebra Poetry Film Festival di Berlino. La parola a te, Luigi.
LUIGI CINQUE. La domanda mi mette in qualche modo già in pensiero. Il Doctor Clip nasce da un’esperienza personale a Berlino nel 2003, quando, come performer e come compositore di musica per l’Elettra di Nanni Balestrini, mi trovai in due o tre situazioni che avevano a che fare con la Literaturwerkstatt di Berlino, che poi è la madre anche dello Zebra Festival. In quelle occasioni ci trovammo proprio dentro il festival e, benché conoscessimo le esperienze degli anni ’60 e ’70, quelle della neoavanguardia – la rivista «Il Verri», per esempio –, che si ponevano in atteggiamento di rifiuto di certa comunicazione e nello stesso tempo favorivano la poesia sperimentale, e benché conoscessi io anche l’esperienza di videomaker di Alberto Grifi, per dire un nome, rimanemmo colpiti dalla possibilità di organizzare un festival che avesse come centro questa nuova dimensione. Dico «nuova» perché già nel 2003 le piattaforme digitali cominciavano ad esistere, la tecnologia iniziava a democratizzarsi: tutti potevano smanettare tra parole, immagini, filtri, dissolvenze. Questo in qualche modo aveva favorito una produzione molto articolata e complessa da parte del mondo giovanile, che più era abituato al campo tecnologico. Lessi con attenzione la presentazione all’ingresso dello Zebra Poetry Film Festival, in cui si diceva che era stata organizzata una straordinaria adesione, e quindi poi anche una presentazione, di prodotti di nuova generazione che avevano a che fare con l’ibridazione del linguaggio poetico soprattutto attraverso forme di tecnologia e grafica applicata. L’effetto fu entusiasmante, tanto che chiesi al direttore di allora, Thomas Zandegiacomo, che ancora lavora allo Zebra, se ci davano la possibilità di organizzare un festival sulle loro tracce. Cominciammo così, presentando una prima composizione nel 2004: erano presenti Nanni Balestrini, Lello Voce, Maria Teresa Carbone e tanti altri. Si organizzò questa chiamata attraverso le scuole, le università, le mail, i social network di allora. Arrivarono più di 150 prodotti straordinari, che furono sottoposti a una commissione importante di poeti, e nacque proprio all’Auditorium Parco della Musica questa prima edizione del Doctor Clip. Mi ricordo anche che una critica importante sul «Corriere della sera» parlava di una «nuova coniugazione tra parola, suono e immagine», una proposta di arte totale che a partire da un tempo poetico dialoga alla pari con i mezzi tecnologici contagiandoli di poesia.
In realtà quando partimmo con questo festival gli spettatori, ma neanche noi, sapevano di cosa si trattasse. Ancora adesso questo argomento è controverso. Tant’è che nelle occasioni in cui mi è capitato di presentarlo, io esordivo dicendo che la clip di poesia sta alla poesia come la clip musicale sta alla musica. Di fatto non dicevo niente, ma al tempo stesso davo anche un’indicazione di massima: l’estrema libertà degli autori di elaborare linguaggi molto diversi senza un super-io critico, e quindi basandosi pure sull’ignoranza, che non è sempre negativa (per innovare il linguaggio può servirne una certa dose). Questi autori magari non conoscevano le esperienze precedenti, che pure erano state importanti, partivano da zero e dal loro linguaggio quotidiano. Il Doctor Clip coinvolse anche, come partecipazione, i direttori di allora, che vennero dallo Zebra Festival ad assistere, ma si differenziò dal festival berlinese perché riuscì a coinvolgere un certo sud europeo che lo Zebra Festival, proiettato verso il nord Europa o altre parti del mondo, non aveva coinvolto. Quindi abbiamo avuto delle esperienze dal punto di vista dell’intreccio musica-parole-immagine o grafica assolutamente interessanti. Una cosa per concludere. Mi avevi chiesto il perché di questo nome, Doctor Clip. È una specie di rimando a una serie di conoscenze di musica rock: Zappa parlava di Doctor Music, c’era una rivista che aveva sempre questi personaggi stranissimi, come Doctor Music, Doctor Time, ecc. Diciamo che si tratta di un richiamo giovanile al mondo del rock.
VALERIO CUCCARONI. Ora vedremo una delle videopoesie che ha partecipato al Doctor Clip, prodotta nel 2014. Si intitola Fecero un deserto e fu chiamato pace, riferimento a un celebre brano dell’Agricola di Tacito. Si consiglia la visione a un pubblico dallo stomaco forte e non ai bambini. La produzione è di Hermes Intermedia, un collettivo di artisti, con Giovanni Fontana, a testi e voce, Antonio Poce, musicista e visual artist, Valerio Morat, musicista. Del gruppo fa parte anche Giampiero Gemini, che non è presente in questo progetto.
Fecero un deserto e fu chiamato pace (di Giovanni Fontana, Antonio Poce e Valerio Morat)
VALERIO CUCCARONI. Ora sentiremo Gilda Policastro commentare questa videopoesia e dirci la sua su questo genere.
GILDA POLICASTRO. È particolarmente difficile prendere la parola dopo queste immagini. Qui abbiamo visto un frammento di video, che nella versione integrale dura 8 minuti – un’eccezione nel campo della videopoesia, dove la durata media è intorno ai 3-4 minuti, come i videoclip musicali. Confesso la mia inadeguatezza a prendere la parola dopo queste immagini, la stessa inadeguatezza che mi portava a saltare le descrizioni troppo crude di quell’orrore che tutti conosciamo. Però le immagini hanno una potenza maggiore, che avvicina all’asfissia, come diceva Michel Tournier. E questa asfissia ha bisogno poi di un’attenuazione, in questo caso l’iconosfera ha bisogno della logosfera. Le parole, anche quelle più drammatiche, anche l’interpretazione così accorata di Fontana, attenuano, e attenuativo è anche il titolo di questa videopoesia, la citazione tacitiana, molto cara ad Antonella Anedda, Fanno il deserto e la chiamano pace. Qui più che la desertificazione dell’umano c’è l’orrore, l’inimmaginabile. Impossibile non riferirci all’interdetto di Adorno: è un atto di barbarie fare poesia dopo Auschwitz. Lo stesso Adorno riconosce però nella dialettica negativa alla rappresentazione del dolore una dignità equivalente al grido straziato del martire. Quindi il problema delle immagini e della rappresentazione di una realtà così cruda ci pone di fronte a un rischio, quello della «pornografia dell’orrore», che si ha quando si pone l’orrore su un piano di eccezionalità che ci allontana e, alla lunga, ci anestetizza. È un problema che si è posto Georges Didi-Huberman in Immagini malgrado tutto. Per lui vale la pena correre il rischio della pornografia dell’orrore perché è l’unico modo che abbiamo per avvicinarci ad una storia di cui non siamo stati protagonisti, ma di cui possiamo essere testimoni attraverso le immagini. Queste immagini mostrano ciò che non abbiamo il coraggio di avvicinare con l’immaginazione; quindi c’è un preciso dovere delle immagini e di chi queste immagini recupera, come l’autore del video che qui ha raccolto immagini che documentano quel che accadeva nei campi. In questa connessione tra parola che cerca di attenuare e immagini che devastano c’è la consegna del senso, noi siamo i nuovi testimoni nell’era della fine della possibilità di testimoniare. C’è quindi una sorta di mandato nella rappresentazione più cruda, c’è un invito alla partecipazione. Non ho potuto evitare di riferirmi al contenuto, c’è poi un contenitore per queste immagini.
Nella videopoesia immagini e testo non sono solo fusi o ibridati o, peggio, giustapposti. È un genere nuovo proprio perché realizza la multiplanarità, il testo si consegna ad una dimensione che fa agire più piani, questo consente alla poesia di sottrarsi a quella concezione centrica, narcisista, superata, per affidare il proprio contenuto ad un soggetto collettivo. Gabriele Frasca, nel suo canonico La lettera che muore, la chiamava «impersonalizzazione»: l’autore diventa entità collettiva, stabilisce un contatto con chi l’opera la fruisce. Questo è l’aspetto più interessante che deriva da queste esperienze, che Frasca riconduce alla categoria dell’oralità. Troppo spesso le sentiamo confondere con la performance da palco o, peggio ancora, con il poetry slam. L’oralità, come è stato teorizzato dallo stesso Frasca, Lello Voce e altri, è l’ambito in cui la poesia e le nuove forme di contaminazione si consegnano ad una nuova possibilità non di fruizione, ma di partecipazione all’opera.
VALERIO CUCCARONI. Ora vedremo un’altra videopoesia, testo e voce sono di Mark Strand e la regia è di Juan Delcan.
The poem of the spanish poet (di Mark Strand e Juan Delcan)
MARIA TERESA CARBONE. Potremmo usare tante definizioni per un oggetto che è in realtà multiplo. Io sono molto contenta che questa clip di Strand sia venuta dopo la precedente di Poce, perché si ha immediatamente l’idea della vastità del territorio di cui parliamo. Mi ha fatto piacere sentire Gilda Policastro puntare la parte cruciale del suo intervento su questa idea dell’autore multiplo. Nel testo di Strand abbiamo una struttura più semplice rispetto al video precedente. Il poeta che noi vediamo in tutta la prima parte dice e incarna la poesia, lui era già effettivamente vecchio ed è l’autore della poesia in cui si parla del vecchio poeta. Poi c’è un salto, entriamo nella dimensione del disegno, della grafica, non c’è più quella che ci sembra una mimesis della poesia stessa. Di chi è questo oggetto che abbiamo visto? È di Strand? Un poeta non sperimentale, tra l’altro, lirico, assolutamente contemporaneo, ma che dice di appartenere a una dimensione internazionale che punta alla semplicità del dire e alla narratività della poesia. Qui abbiamo un poeta che di per sé non sperimenterebbe, quindi. Delcan è regista, e in qualche modo è l’autore della videopoesia. Mi ricollego a quanto detto prima da Luigi Cinque, perché Delcan è un autore di clip di pubblicità, ha lavorato per moltissime società e marchi, per lui la parola è azzeccata. Vedere giustapposte queste due clip mostra che parliamo di un territorio che è molto aperto, in cui non c’è un autore che dice «io», non può dirlo nessuno di loro. La visione ci lascia degli interrogativi, possiamo parlare di poeta multiplo, di quella multiplanarità di cui parlava Gilda Policastro? Forse, ma non così tanto. E poi, esiste un controllo? C’è anche un’apertura molto interessante alla ricezione di questi progetti, perché è una ricezione in cui la dimensione visiva e il movimento contano tantissimo. Nel senso, chi sono poi gli spettatori di questa poesia in movimento? L’idea di una poesia in movimento potrebbe essere ciò che accomuna questi oggetti tanto diversi tra loro.
VALERIO CUCCARONI. Abbiamo potuto ammirare uno degli animated poems che sono stati realizzati dalla JWT, agenzia che si è occupata di animare una serie di poesie del poeta americano Billy Collins, in questo caso tradotto da Franco Nasi. A questo punto direi qualcosa di più generale sulla videopoesia per cercare di inquadrarla in un discorso che ormai in Italia va avanti da diversi anni. Doctor Clip è iniziato nel 2005 e già nel 2007 Andrea Cortellessa, ospite a Doctor Clip, e Luigi Socci, direttore artistico del festival La Punta della Lingua, portarono una selezione di una ventina di videopoesie all’Hangar CultLab durante l’edizione 2007 del festival e diedero vita a un dialogo su questo genere ibrido. Da allora alla Punta della Lingua sono state mostrate videopoesie prese da vari festival, da paesi come il Brasile o da antologie di videopoesia, come Rattapallax, distribuite negli Stati Uniti. Negli ultimi anni ho cercato di inquadrare questo genere all’interno di una più ampia problematica sui generi della poesia contemporanea e sulle forme della poesia ibrida e della poesia tecnologica: [già i] libretti d’opera di cui discuteva lo stesso Cortellessa nel lontano 2007, facendo quindi riferimento a quanto detto da Gilda e Maria Teresa, [pongono] la problematica di questa opera multipla – in che modo interviene la poesia? Il libretto d’opera è funzionale alla musica oppure no? Sono questioni che datano dai tempi dell’opera d’arte totale teorizzata da Wagner. Poesia ibrida che ha avuto anche una sua manifestazione pop nella canzone d’autore e più sperimentale nella poesia elettronica e videopoesia.
[…] Ho preso le mosse da una vecchia polemica, su cos’è e cosa non è poesia. Benedetto Croce negava che la poesia potesse essere altro dalla lirica e sembra che questa identificazione tra poesia e lirica sia presente ancora oggi. Basti pensare che uno dei più autorevoli critici italiani, Guido Mazzoni, nel suo saggio del 2005 sulla poesia moderna, ancora identificava poesia e lirica. Ma le osservazioni che ho potuto fare alla Punta della Lingua, oppure con Argo dal 2000, mi hanno convinto che non è così: semmai è la lirica che gira attorno al Sole della poesia, se vogliamo usare termini copernicani. Non dimentichiamo che se il canone della poesia italiana è ancora formato da poeti lirici (da Petrarca a Foscolo, da Leopardi a Ungaretti, Montale, Caproni, Saba, Sereni), il ‘900 si apre con il Manifesto del Futurismo. Mi è sembrato di individuare come antecedente diretto della videopoesia la poesia tecnologica teorizzata dagli avanguardisti italiani negli anni ’60 e ’70, dai meno noti, come Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini e il gruppo 70, come documentato magistralmente da Vetri in quel grande saggio che è Letteratura e caos. Pignotti nel ’65 diceva che «l’albero della poesia tecnologica si situa più nel contesto delle attuali comunicazioni di massa, degli odierni linguaggi tecnologici, che in quello della tradizione specificamente poetica». Da questo punto di vista Maria Teresa ha fatto bene a ricordare come Delcan sia un regista di spot pubblicitari. Ammesso che si possa essere d’accordo con questa genealogia, bisogna interrogarsi su cosa sia lo specifico del linguaggio video-poetico.
In Italia manca una definizione vocabolaristica di cui scherzosamente negava l’esistenza Luigi Socci [nel suo dialogo con Cortellessa]: ancora oggi non abbiamo una definizione di «videopoesia» nel dizionario, persino la voce di Wikipedia è molto confusa. Potremmo prendere una definizione che è presente nell’archivio digitale della letteratura intermediale portoghese, per la quale la videopoesia è una forma di poesia basata sulle possibilità grammaticali e comunicative del linguaggio del video in cui il segno si è iconizzato in un’azione spazio-temporale articolando elementi espressivi, come il movimento autonomo di forme e colori, l’interazione del suono e dello spazio-tempo. Quindi nella videopoesia concorrono più linguaggi, è un’opera intermediale. Iconizzare questo segno è una questione complessa. A me sembra che l’abbia risolta Tom Konyves, statunitense che ha scritto un manifesto sulla videopoesia. Konyves ha cercato di identificare le forme principali che essa ha assunto, precisando che al centro deve esserci il testo, scritto, letto, animato, performato. Per studiare le forme della videopoesia internazionale esiste il vasto archivio dello Zebra Poetry Film Festival. In Italia è più difficile, si spera che la collaborazione iniziata con Luigi Cinque possa mettere a disposizione il vasto archivio di Doctor Clip.
Questo dialogo è una parziale riscrittura di un incontro in diretta streaming, che trovate completo qui.