Da Gilgameš a Jeff Bezos ⥀ Sumeri come noi
A partire dal Progetto Gilgamesh, sponsorizzato dallo storico Yuval Noah Harari, fra complottismi e capitalismo delle piattaforme, scopriamo delle somiglianze e affinità fra le reti idriche delle popolazioni sumere e la rete di dati utilizzata da Jeff Bezos per costruire l’impero di Amazon
Era da tempo che avrei voluto scrivere qualcosa sul primo poema epico della storia dell’umanità. Almeno da quando scoprii che anche per l’enciclopedia Treccani online, come per molti altri, i primi poemi epici sono quelli omerici, confermando una credenza popolare dura a sparire. Sublimai quella voglia scrivendo alla redazione di Treccani.it per chiedere un aggiornamento della voce Epica, che fu subito eseguito: da allora la primazia è segnalata in modo corretto anche dalla più autorevole enciclopedia italiana.
Poi avrei voluto scriverne quando, leggendo Sapiens di Yuval Noah Harari, ho scoperto che esiste un Progetto (con la P maiuscola) omonimo, intitolato proprio a lui, al primo eroe le cui gesta sono state messe per iscritto, almeno stando al livello di conoscenze archeologiche fin qui raggiunto. Rinunciai ancora una volta e per sublimare di nuovo quel folle desiderio scrissi a un paio di assirologi per cercare di avviare con loro una conversazione sulla necessità di riscoprire i Sumeri e quegli altri popoli della Mesopotamia, in particolare gli Assiri, che trascrissero la prima epopea della storia umana. Non ottenni risposta e l’ho interpretato come un segno: per me non era ancora giunto il momento.
Di fronte alla pandemia, però, la storia del re di Uruk, trasformato nel Progetto Gilgamesh in un inarrestabile ricercatore dell’immortalità, si impone da sola e in modo tanto circoscritto che chiunque può trarne una verità, relativa al nostro tempo. Scrive Harari nell’ultimo capitolo di Sapiens:
Se è vero che sta per calare il sipario sulla storia dall’Homo sapiens, noi che apparteniamo a una delle sue generazioni finali dovremmo dedicare un po’ di tempo a rispondere a quest’ultima domanda: cosa vogliamo diventare? […] La gente, di solito, preferisce non pensarci. Anche nel campo della bioetica si tende a porre un altro tipo di domanda: “Cosa è proibito fare?” È accettabile compiere esperimenti genetici su esseri umani viventi? O su feti abortiti? O sulle cellule staminali? È etico clonare le pecore? E gli scimpanzé? E gli umani, allora? Sono tutte domande importanti, ma è ingenuo immaginare di poter dare un colpo di freno e fermare i progetti scientifici che stanno potenziando l’Homo sapiens facendolo diventare un essere differente. Infatti questi progetti sono inestricabilmente intrecciati con la ricerca dell’immortalità – il Progetto Gilgamesh1
Il Progetto Gilgamesh per Harari è «la nave ammiraglia della scienza»2, dato che secondo lui è la ricerca dell’immortalità a spingere tutta la flotta degli scienziati verso lo stesso obiettivo:
Si chieda agli scienziati perché studiano il genoma, perché cercano di connettere il cervello al computer o perché tentano di creare una mente dentro il computer. Nove volte su dieci vi daranno la stessa risposta standard: lo facciamo per curare le malattie e per salvare le vite umane. Anche se le implicazioni insite nel creare una mente dentro un computer sono assai più impressionanti di quelle che riguardano la cura delle malattie psichiatriche, questa è la normale giustificazione che viene data e che mette a tacere ogni obiezione. Ecco perché il Progetto Gilgamesh è la nave ammiraglia della scienza. Serve a giustificare tutto ciò che la scienza fa. II dottor Frankenstein sta sulle spalle di Gilgamesh. Poiché non si può fermare Gilgamesh, è impossibile anche fermare il dottor Frankenstein.
Ci si aspetterebbe una maggiore cautela da parte di uno storico che ha conseguito un dottorato in Storia all’università di Oxford che a detta del suo editore italiano insegna nel Dipartimento di Storia dell’Hebrew University di Gerusalemme, nonostante dal 2013 non si abbia notizia di suoi corsi nel sito di quella università.
Cautela non tanto nelle previsioni sul futuro, che sono appannaggio di indovini e futurologi piuttosto che degli storici, quanto nel dipingere Gilgameš come un eroe che non si ferma di fronte alla ricerca dell’immortalità. Andiamoci a rileggere cosa fece in realtà Gilgameš.
Gilgameš, sconvolto dalla morte dell’amico Enkidu, «piange amaramente» (v. 2)3. Traumatizzato Gilgameš si domanda: «Non sarò forse, quando io morirò, come Enkidu?» (v. 3), così, sopraffatto dalla «paura della morte», si mette a vagare «per la steppa» (v. 5), diretto «verso Utanapištim» (v. 6), «colui che entrò nella schiera degli dè[i, che trovò la vita,] / sulla vita e sulla morte [voglio interrogare.»] (vv. 74-75).
Dopo molte avventure, Gilgameš giunge finalmente da Utanapištim, che gli racconta «una cosa nascosta», «il segreto degli dèi» (Tavola XI, vv. 9-10), rivelatogli dal dio Ninšiku-Ea, chiamato dai Sumeri Enki, signore della terra, il dio delle acque dolci contenute nell’abzu (l’abisso sotterraneo). Il segreto è che gli dèi manderanno un diluvio, perciò Ea disse a Utanapištim: «abbatti la tua casa, costruisci una nave, // abbandona la ricchezza, cerca la vita! / Disdegna possedimenti, salva la vita! / fai salire sulla nave tutte le specie viventi! // La nave che tu devi costruire – / le sue misure prendi attentamente, // eguali siano la sua lunghezza e la sua larghezza; / tu la devi ricoprire come l’Abzu.» (vv. 24-31). Ai suoi concittadini, su suggerimento di Ea, Utanapištim dovrà spiegare che Enlil, signore del vento, è adirato con lui e per questo, dovrà dire, «[voglio scend]ere giù nell’Abzu, e là abitare con il mio signore Ea.» (v. 42), mentre su di loro, Ea dice di riferire ai concittadini, Enlil «farà piovere abbondanza, // [abbondanza] di uccelli, abbondanza di pesci. / [Egli vi regalerà] ricchezza e raccolto.» (vv. 43-45). Scampato al diluvio, Enlil salì sull’arca e benedisse Utanapištim e la moglie, così: «Prima, Utanapištim era uomo, // ora Utanapištim e sua moglie siano simili a (noi) dèi. Risieda Utanapištim lontano, alla foce dei fiumi.» (vv. 193-195).
Finito il racconto, Utanapištim dice a Gilgameš (vv. 197-224):
E ora, chi potrà far radunare per te gli dèi
in modo che tu trovi la vita che cerchi?
Orsù, cerca di non dormire per sei giorni e sette notti.
Ma appena egli si sedette al suolo con la testa tra le sue ginocchia,
il sonno scese su di lui come un velo di nebbia.
Utanapištim parlò allora a lei, a sua moglie:
“Guarda il grande uomo che cerca la vita,
il sonno è sceso su di lui come un velo di nebbia.”
Sua moglie così parlò a lui, a Utanapištim, il lontano:
“Toccalo, fallo svegliare!
Possa egli tornare indietro in pace per la vita da cui è venuto.
Possa egli tornare nel suo Paese attraversando la porta da cui è uscito.”
Utanapištim parlò a lei, alla moglie:
“L’umanità è ingannevole; egli raggirerà pure te.
Orsù cuoci un pane per lui e ponilo vicino alla sua testa,
segna anche sul muro i giorni che egli passa dormendo.”
Essa cosse un pane e lo depose vicino alla sua testa;
segnò inoltre sul muro i giorni che egli passò dormendo.
Il pane del primo giorno era già secco,
quello del secondo giorno era raggrinzito, quello del terzo giorno era molliccio, quello del quarto
giorno aveva la crosta bianca,
quello del quinto giorno aveva perso colore, quello del sesto giorno era appena cotto,
quello del settimo giorno lo aveva appena sfornato, allorché egli lo toccò e lo svegliò.
Gilgameš così parlò a lui, al lontano Utanapištim:
“Non appena il sonno è sceso su di me,
mi hai subito toccato e mi hai svegliato.”
Utanapištim [così parlò a lui], a Gilgameš:
“[Guarda,] Gilgameš! Conta i pani!
Così apprenderai quanti gior[ni hai dormito].”
Ho riportato per intero questo passo, perché l’associazione pane-veglia ha una mirabile forza icastica: Gilgameš cerca la vita e il pane la rappresenta alla perfezione, essendo l’alimento base nelle società fondate sull’agricoltura e in particolare sulla coltivazione dei cereali, come le civiltà mesopotamiche che si tramandarono l’epopea. Non solo la vita, inoltre, si conta in pani ma il conto del numero dei pani è il correlativo oggettivo della conoscenza. Per conoscere bisogna restare svegli e chi dorme non può sfuggire al suo destino: la matematica lo condanna all’evidenza.
E di fronte all’evidenza, Gilgameš si dispera (vv. 230-233):
“[Ahimé! Co]me ho potuto fare ciò, Utanapištim! Dove potrò andare adesso?
I rapinatori mi hanno intrappolato,
[nella] mia camera da letto alberga la morte;
dovunque io pon[ga il mio piede], là c’è la morte.”
Con queste parole Gilgameš esprime tutta la paura della morte che sconvolge l’animo quando l’uomo si accorge del suo destino di mortale. Non c’è scampo, la morte ci accompagna ovunque andiamo. L’impronta stessa del piede è un segno di ciò che un giorno scomparirà, lasciando nient’altro che un’orma.
Utanapištim, constatando la sporcizia di Gilgameš, ordina al traghettatore Uršababi, che lo ha condotto fin lì, di portarlo a lavarsi e vestirsi per prepararsi alla partenza. Quando è sul punto di andarsene, la moglie di Utanapištim chiede al marito: (vv. 258-299)
“Gilgameš è venuto a te stanco e abbattuto;
che cosa puoi dargli che possa portare con sé nel suo Paese?”
Egli allora, Gilgameš, sollevò il remo
e fece accostare la nave alla sponda.
Utanapištim così parlò a lui, a Gilgameš:
“Gilgameš, tu sei venuto stanco e abbattuto,
cosa posso darti da portare con te al tuo Paese?
Ti voglio rivelare, o Gilgameš, una cosa nascosta,
il seg[reto degli dèi, ti vog]lio manifestare.
Vi è una pianta, le cui radici sono simili a un rovo,
le cui spine, come quelle di una rosa, punge[ranno le tue mani];
se tu puoi raggiungere tale pianta e prenderla nelle mani, [ ].”
Appena Gilgameš udì ciò, egli aprì un ‘f[oro]’,
si legò [ai piedi] grandi pietre,
e si immerse nell’Ap[su, la dimora di Ea];
egli prese la pianta sebbene questa pu[ngesse le sue mani],
slegò quindi, le grandi piet[re che aveva ai piedi],
e così il mare lo fece risalire fino alla sponda,
Gilgameš parlò a lui, a Uršanabi il battelliere:
“Uršanabi, questa pianta è una pianta contro l’irrequietezza;
grazie a essa l’uomo ottiene … nel suo cuore,
io voglio portarla a Uruk, e voglio darla da mangiare ai vecchi e così provare la pianta.
Il suo nome sarà: Un uomo vecchio si trasforma in uomo nella sua piena virilità.
Anch’io voglio mangiare la pianta e così ritornerò giovane.”
Dopo venti leghe essi fecero uno spuntino;
dopo trenta leghe essi si fermarono per la notte:
Gilgameš vide un pozzo le cui acque erano fresche,
si tuffò in esse e si lavò;
ma un serpente annusò la fragranza della pianta,
si avvicinò [silenziosamente] e prese la pianta;
nel momento in cui esso la toccò, perse la sua vecchia pelle.
Gilgameš in quel giorno sedette e pianse,
le lacrime scorrevano sulle sue guance.
[Egli allora parlò] a Uršanabi, il battelliere:
“O Uršanabi, per che cosa si sono affaticate le mie braccia?
Per quale scopo è scorso il sangue nelle mie vene?
Non sono stato capace di ottenere alcunché di buono per me stesso!
lo ho fatto del bene persino al leone della steppa,
ed ora l’onda si è già allontanata di venti leghe.
Nell’aprire il ‘foro’, ho lasciato cadere dentro gli arnesi di lavoro;
cosa potrei trovare (ora) da porre al mio fianco? lo voglio abbandonare la ricerca!
Avessi lasciato la nave ai suoi ormeggi!”
E così finisce la ricerca dell’immortalità di Gilgameš. La prima saga della storia è il racconto di uno scacco e della presa di coscienza da parte dell’umanità della propria condizione mortale: Gilgameš è il primo antieroe della storia. In origine l’epica era già antiepica.
Se ai miti vogliamo fare ricorso, regredendo allo stadio arcaico della nostra cultura, che lo si faccia con gli strumenti dell’archeologia, con cura filologica, e non lo si faccia, almeno tra intellettuali, con falsa coscienza, cioè con intenti propagandistici. Altrimenti, così come i pubblicitari sono costretti a scrivere sulle buste «l’immagine ha il solo scopo di presentare il prodotto», Bompiani e tutte le altre case editrici che vendono le storie di Harari, reclamizzandole come quelle dello storico di Oxford e dell’Hebrew University di Gerusalemme, dovrebbero scrivere che, nei suoi libri, quando parla del Progetto Gilgamesh l’immagine dell’eroe mesopotamico ha il solo scopo di presentare il prodotto.
L’entusiasmo di Harari per la tecnologia, che gli fa scambiare fallimenti per successi, lo rende, secondo il sociologo Evgeny Morozov, «il più eloquente celebratore dell’opinione dominante nell’élite». La sua ricetta per superare la crisi provocata dalla pandemia, scritta sul «Financial Time», sembra uscita, secondo Morozov, «da un manuale di propaganda della Silicon valley».
Alla stregua di tutta la propaganda non solo il Progetto Gilgamesh è una bufala ma non è dato sapere neanche cosa sia esattamente, poiché Harari non lo precisa. Non è chiaro se sia solo una metafora o un progetto realmente esistente, perciò abbiamo cercato altri riferimenti in internet e ci siamo imbattuti in un articolo pubblicato nella rivista «NEXUS News Times», vol. 12 (giugno-luglio 2005) e, in traduzione italiana, nel n. 59 (dicembre 2005 – gennaio 2006). NEXUS si presenta come «una vera rivista alternativa di notizie e informazioni pubblicata in tutto il mondo».
L’autore dell’articolo, intitolato Il Progetto Gilgamesh, è Andrew Sokar, presentato dalla redazione di NEXUS come «un biologo» che «vive negli Stati Uniti centro-occidentali». NEXUS, forse per accreditarlo, ci presenta il suo curriculum: Sokar è «titolare di una laurea in Scienze, con specializzazione in biologia, e di un master di II livello in Scienze Politiche, con specializzazione in Commercio Internazionale, conseguito con voti assai elevati. Andrew continua ad occuparsi da indipendente delle proprie ricerche, in particolare nell’ambito delle applicazioni da banco per la sua tecnologia di ringiovanimento. Per la corrispondenza, a lui gradita, utilizzare l’indirizzo: slowsubversion@yahoo.com.»
Cosa sostiene, dunque, il biologo con master in Commercio Internazionale Sokar? Stando alla presentazione di NEXUS, egli racconta «la storia della sua promettente carriera nella ricerca sul cancro e di come egli fu imbavagliato quando la sua scienza proibita iniziò ad avvicinarsi al segreto della vita eterna.» Insomma siamo nel campo del complottismo, come si poteva immaginare dagli argomenti di cui si occupa NEXUS: «salute, notizie censurate, coscienza, antichi misteri, scienza futura, inspiegabile, energia libera e molto altro».
Ma lasciamo a Sokar il beneficio del dubbio e leggiamo cosa ha da dire:
sebbene sia prematuro parlare seriamente di una fonte della giovinezza, sono convinto – scrive il biologo – che gli ormoni X e Y rappresentino i primi passi verso la risoluzione del mistero inerente al motivo per cui determinati organismi e tessuti invecchiano. Diversamente dalla melatonina, i composti che ho sintetizzato rappresentano i primi farmaci brevettabili che hanno effettivamente la potenzialità di invertire, o quantomeno rallentare, il tanto paventato orologio biologico; si tratta delle prime sostanze ormonalmente attive, non steroidee, non proteinacee e non retinoidi diverse dalla melatonina e dall’ormone tiroideo, note per aver effetto su crescita e differenziazione cellulare negli animali superiori.
Quindi, come Gilgameš, Sokar avrebbe trovato la sostanza magica che dona la vita eterna, come ci informa lui stesso: «Ho scoperto che analoghi di entrambi gli ormoni X e Y – scrive il biologo su NEXUS – sono presenti in natura e possono essere preparati, ad esempio, derivandoli da determinate piante.» Eccola la pianta «contro l’irrequietezza». Sokar non ha conseguito a caso un master in commercio internazionale: trovata la pianta, pensa già alla sua commercializzazione: «Queste sostanze – annuncia il biologo – possono essere incorporate nei prodotti da banco, quali cosmetici e preparati vitaminici, senza dover superare le difficoltà poste dalla regolamentazione.» Alla paura della morte che aveva spinto Gilgameš a correre da Utanapištim si è ormai sostituita una delirante rincorsa alla fonte dell’eterna giovinezza da imbottigliare e vendere in erboristeria, però ciò non toglie che Sokar sia disposto a riconoscere il debito con l’eroe mesopotamico.
«Questo – conclude in effetti il biologo Sokar in linea con lo storico Harari – mi porta a chiedermi se le antiche leggende relative ad esistenze umane favolosamente lunghe non possano avere un fondamento nella realtà. Per esempio, una leggenda sumera risalente a migliaia di anni prima dell’era biblica narra di un personaggio eroico di nome Gilgamesh, il quale viaggia in ogni dove alla ricerca della vita eterna; alla fine trova una pianta subacquea capace di conferirgli l’agognata immortalità. Egli, comunque, invece di assumere la pianta si addormenta, lasciandola incustodita e, durante il sonno, un serpente la divora, perde la pelle e ridiventa giovane — da cui la spiegazione mitologica della muta della pelle del serpente.
Immagino che la morale della favola sia “chi dorme non piglia pesci”. A causa della sconsideratezza di Gilgamesh, all’umanità fu negato il segreto della vita eterna (N. K. Sanders, 1972, The Epic of Gilgamesh, Penguin, Londra). Purtroppo le descrizioni mitologiche della “pianta” non sono sufficienti a consentirne un’identificazione positiva.» Quel purtroppo non si sa sia pronunciato dallo scienziato che, come scrive Harari, guida la nave ammiraglia della scienza, che però nessuno a parte la redazione di NEXUS ha visto partire, alla ricerca dell’immortalità, oppure quel purtroppo sia pronunciato dal commerciante internazionale che cerca il brevetto giusto per diventare miliardario e scalzare così Jeff Bezos dal podio di uomo più ricco del mondo.
Per Sokar non sarà facile, del resto, perché Bezos è alla guida di una rivoluzione pari a quella per cui è ancora oggi ricordato quell’antico popolo della Mesopotamia che diede i natali a Gilgameš. Laureato in Ingegneria Elettronica a Princeton nel 1986, Bezos è alla testa del capitalismo delle piattaforme, che Benedetto Vecchi, fra gli altri, ha definito «la frontiera della produzione della ricchezza» nel saggio Il capitalismo delle piattaforme (manifestolibri, 2017). La rivoluzione nella gestione dei flussi di dati e informazioni diretta dagli ingegneri elettronici, che come Bezos e Zuckerberg hanno dato vita al capitalismo delle piattaforme, è la frontiera della produzione della ricchezza, come lo fu la rivoluzione agricola ingegnerizzata dai Sumeri con le opere di canalizzazione del Tigri e dell’Eufrate, dirette dal re-sacerdote Ensi, dall’alto del suo tempio-magazzino, della Ziggurat. Amazon è una Ziggurat globale, tanto digitale quanto materiale, con la base fatta di magazzini sparsi per il mondo. Non essendoci più altra religione universale diffusa tanto quanto la religione del consumo, amministrata dai plutocrati, Bezos incarna il nuovo re-sacerdote che è capace di imporre le sue leggi su tutto il villaggio globale, almeno fino a dove non siano stati costruiti altri templi-magazzini, come in Cina, dove non valgono le leggi di Amazon, ma quelle dell’altro colosso del commercio elettronico, Alibaba, l’Amazon cinese, fondato da Jack Ma e Joseph Tsai.
Grazie a quel nuovo alfabeto che è il linguaggio informatico, il quale consente ai Sapiens di dialogare con le macchine e automatizzare la gestione dei magazzini, il neo-sumero Bezos governa, dall’alto del suo tempio-magazzino, un flusso centralizzato di merci mai visto prima.
A notare l’apparente somiglianza tra Bezos e i Sumeri sono stati innanzitutto i gestori della pagina Facebook Crazy Mesopotamians che hanno creato il meme “Jeff Bezos… Sumerian?”.
Forse onorato da questa rassomiglianza il padrone di Amazon ha deciso di chiamare Sumerian un programma, creato dalla sua piattaforma di commercio elettronico, per costruire ambienti 3D su internet.
Vi sono, tuttavia, altre e più profonde affinità fra Bezos e i popoli della Mesopotamia. Con le sue conoscenze nel campo dell’ingegneria elettronica Bezos ha saputo creare dei canali proprio come fecero i proto-ingegneri idraulici sumeri. Al posto del flusso d’acqua che doveva essere convogliato per irrigare i campi, Bezos con la squadra di ingegneri che sono al suo servizio ha saputo convogliare il flusso di dati per gestire la distribuzione delle merci dai magazzini alle case dei clienti.
Le libere associazioni tra Bezos e i Sumeri non sono finite qui, perché, a proposito di canalizzazioni di flussi fluviali e informatici, nel 1995 Bezos ribattezzò il suo sito di commercio elettronico Amazon.com, ispirandosi al Rio delle Amazzoni, un grande fiume proprio come il Tigri e l’Eufrate.
Per riuscire nella sua impresa Bezos ha dovuto padroneggiare il nuovo linguaggio dell’informatica. Non lo si disprezzi se una rivoluzione di tale portata è piegata alle esigenze del commercio. È noto, infatti, che i Sumeri inventarono la scrittura per registrare le merci nel loro tempio-magazzino, nella Ziggurat. Fra 5000 anni, quando si studieranno le origini del linguaggio che ci consente di comunicare con le macchine, gli archeologi di internet tratteranno gli algoritmi conservati negli archivi di Amazon come Pietro Della Valle trattò le iscrizioni cuneiformi trovate in Mesopotamia nel 1625.
Allora immergiamoci in questa nostra era neosumerica e torniamo a Gilgameš. In questi giorni di clausura noi rileggiamo la traduzione dell’assirologo Pettinato, ripensando ai pani fatti in casa, con il lievito madre, che si sfornano, si fotografano e si condividono nei social network, accumulandosi, mentre la pandemia ci ricorda che la morte, no, non è stata sconfitta e l’immortalità dista ancora, almeno, venti[mila] leghe sotto i mari. Quanti saranno i pani che si saranno accumulati quando ci sveglieremo?
Note
1 Yuval Noah Harari, Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità [2011], Bompiani, Milano 2019, pp. 513-514.
2 ibidem
3 La saga di Gilgameš, Tavola IX, a cura di Giovanni Pettinato, Mondadori, Milano 2004, p. 92 (le citazioni sono tratte tutte da questa edizione)

Valerio Cuccaroni
Dottore di ricerca in Italianistica all’Università di Bologna e Paris IV Sorbonne, Valerio Cuccaroni è docente di lettere e giornalista. Collabora con «Le Monde Diplomatique - il manifesto», «Poesia», «Il Resto del Carlino» e «Prisma. Economia società lavoro». È tra i fondatori di «Argo». Ha curato i volumi “La parola che cura. Laboratori di scrittura in contesti di disagio” (ed. Mediateca delle Marche, 2007), “L’Italia a pezzi. Antologia dei poeti italiani in dialetto e altre lingue minoritarie tra Novecento e Duemila” (con M. Cohen, G. Nava, R. Renzi, C. Sinicco, ed. Gwynplaine, coll. Argo, 2014) e Guido Guglielmi, “Critica del nonostante” (ed. Pendragon, 2016). Ha pubblicato il libro “L’arcatana. Viaggio nelle Marche creative under 35” e tradotto “Che cos’è il Terzo Stato?” di Emmanuel Joseph Sieyès, entrambi per le edizioni Gwynplaine. Dopo anni di esperimenti e collaborazioni a volumi collettivi, ha pubblicato il suo primo libro di poesie, “Lucida tela” (ed. Transeuropa, 2022). È direttore artistico del poesia festival “La Punta della Lingua”, organizzato da Nie Wiem aps, casa editrice di Argo e impresa creativa senza scopo di lucro, di cui è tra i fondatori, insieme a Natalia Paci e Flavio Raccichini.
(Foto di Dino Ignani)
[…] animali, per contenerli e neutralizzarli. Tra gli/le altrɜ studiosɜ, lo racconta anche lo storico Yuval Noah Hararii in Da animali a dèi. Breve storia […]