Suona il piffero | spettacolo di teatro nomade (Scena II) – di Gunter Spiegelmann e Federico Burattini

Scena II – Piazzetta del Teatro chiuso e via della Rivoluzione mai fatta.

Un uomo, chiamato il Custode, arriva claudicante dalla sommità di via della Rivoluzione mai fatta. Scende ondivago, sembra non avere pace perché continua a sedersi e ad alzarsi in tutti i cordoli di pietra e gradini che incontra. Si stende e si rialza, va di qua e di là, rigira continuamente il suo corpo. e frammentario. Non ha però il moto scomposto e asimmetrico di un ubriaco. Il suo andamento è bilanciato.

L’uomo indossa un impermeabile stazzonato e polveroso. Calza scarpe di pelle, deformate, che terminano audacemente a punta. È magro e ossuto, ricurvo come una virgola. Ora che si avvicina, è possibile guardarlo bene in volto anche perché lui, ingobbito, protende lo sguardo con diretta arroganza verso il circondario. Ha zigomi e naso che sembrano ammaccati, ma è tutta l’ossatura del volto a essere convessa. La bocca, sdentata e appena cerchiata da una gromma nera, sta a tutti i lineamenti grinzosi del volto come il centro ipnotico di un vortice. I suoi occhi sono grandi e ardono di una luce vivida, di lanterna.

Quel che colpisce di più del Custode, però, è il suo barbone, assai crespo. Fra i peli setolosi e intrecciati spuntano gusci bianchi di telline, o affumicati di rosso, delle crocette, ci sono anche schegge di cannelli e altri residui di conchiglie.

 l Custode e la Pifferaia si trovano viso a viso, in mezzo alla strada, la folla si piazza sulle ali laterali, mentre i musicisti restano accodati alla Pifferaia e continuano a strimpellare.

CUSTODE: Hai una sigaretta hai una sigaretta?

PIFFERAIA: No, non fumo. (E intanto si palpeggia le tasche)

CUSTODE: (Continua a ripetere la sua richiesta, cantilenante, e non sembra curarsi della risposta. La sua voce è rauca, pastosa. Non sta fermo un attimo. Si siede, si rialza, sembra rimbalzare fra le mura della strada) Hai una sigaretta hai una sigaretta?

PIFFERAIA: Non ho una sigaretta, sono appena arrivata dal mare e tutto quello che avevo ora è fradicio e incrostato di sale. (Continua a palpeggiarsi le tasche)

CUSTODE: Hai una sigaretta, hai una sigaretta?

PIFFERAIA: (Non trova sigarette nelle tasche e vuole cambiare discorso) Anch’io sono preoccupata, sai? Mi hanno affidato una missione… una missione… proprio a me, ma io, nella mia vita, non sono mai riuscita a concludere niente. Tante cose ho iniziato, che sono rimaste lì, sospese, a volare nell’aria, e poi sono trascorse, via, alle mie spalle.

CUSTODE (Continua a muoversi, in continuazione, ad alzarsi e a sedersi) Missione? Di che missione parli?

PIFFERAIA: Mi hanno detto che devo liberare questa piccola città da una specie di morbo, da un ombra che la tiene prigioniera, è una specie di liquido nero che cola nella gola e imputridisce gli organi, li schianta.

CUSTODE: Ecco, bene bene. Hai una sigaretta, hai una sigaretta?

Uno dei musicisti passa alla Pifferaia una sigaretta accesa e lei la offre al Custode. Lui se la mette in bocca, ma non l’aspira e la lascia pendere dalle labbra nerastre.

CUSTODE: Grazie, grazie. Come ti chiami?

PIFFERAIA: Mi chiamano la Pifferaia: questo è il mio nome d’arte. Di me tutti sanno tutto, tutto quello che non c’è da sapere: tutte le info più ridondanti e traboccanti, che possano esistere nell’iconosfera. Sono una star del web, così dicono, ma se lo sono davvero, lo sono diventata senza neanche accorgermene. Ma dimmi tu, piuttosto, tu chi sei? Chi ti ha messo queste conchiglie nella barba? Sei arrivato anche tu dal mare, come me?

CUSTODE: No, no, ma che dal mare. Io sono il Custode o, almeno, così mi chiamano, e nemmeno io so bene perché. Io sto fra queste quattro case, fra i cornicioni che stanno sopra ai nostri occhi, li vedi? Sembrano cadere ma qualcosa li strappa alla gravità. Io calpesto i tombini, ascolto il rimbombo dei motori per le strade e della spuma del mare fra gli scogli. Mi muovo e rimbalzo, corro e mi scalzo. M’arrampico fino a spellarmi i piedi, voglio perlustrare palmo a palmo tutta la città. E tutto ciò, prima di morire.

PIFFERAIA: E le tue conchiglie, intendo i gusci che ti stanno aggrovigliati sul barbone? Da dove vengono, loro, se tu non vieni dal mare?

CUSTODE :(Continuando a sedersi e rialzarsi) Non saprei, mi restano impigliate di notte, nei luoghi dove dormo: perché io dormo dappertutto, in ogni nicchia, in ogni fratta, in ogni grotta. Vedi,  è per questo che mi siedo e mi alzo, l’ho capito, sai? Io ho un problema, è che non mi trovo comodo e pacioso in nessun posto. E devo fuggire, sempre, rincorrere la luce. Mi sento una foglia: se mi poso, se mi fermo, marcirei in un momento. E allora eccomi, che poi devo fuggire e volare via. Così affronto la fine, uso le lancette del tempo come spade: le sguaino contro il raccapriccio.

PIFFERAIA: Anche io non posso fermarmi e devo stare sempre in movimento, devo correre sempre, correre tanto che non mi ricordo più da dove vengo esattamente, dove ho lasciato casa mia. Se ci penso, vedo il tetto della mia casetta in fondo al mare, lo vedo ammantato d’alghe che fluttuano alla corrente. È spaventoso. (Si porta le mani davanti agli occhi)

CUSTODE: Di giorno io cammino senza fermarmi, percorro tutto il reticolo dei marciapiedi. Quando ce la facevo saltavo da una mattonella all’altra, attento a posare le punte dei piedi esattamente dentro ogni riquadro, a non calpestare le scanalature fra mattonella e mattonella. Attraverso i parchi, i mercati, le gallerie e le macchine che mi passano affianco, sfrecciando via scatarrando e gli autisti mi fissano pieni di orrore, come si guarda uno spaventapasseri, in mezzo a un campo spoglio, d’inverno. Io sento l’alito sabbioso delle pietre e dei cementi che svapora e si deposita sulle facce di chi mi sta attorno…

Ora il Custode si stende sulla soglia di una casa e si sorregge la testa con una mano dietro la nuca.

La folla dei nocaniani lo guarda compiaciuta e orgogliosa, riconosce in lui una potenza ctonia, sotterranea, comune.

CUSTODE: I colori, i colori, cambiano continuamente. Guarda i palazzi! Mi perdo ad osservare il loro titanico rivaleggiare contro la luce del cielo. Il cielo cola liquami colorati sulle pietre e loro trascolorano e schiumano inutile bellezza. Io devo mutare assieme ai colori che mi circondano e devo perdermi in ogni suono. Altrimenti un giorno, mentre dormo, non mi sveglierò mai più.

PIFFERAIA: E quando la luce cala e i colori si perdono?

CUSTODE: La notte, vuoi dire? Te l’ho detto: dormo, dormiamo…. Dove capita. Nelle tombe, nei siti antichi, sotto travi di legno marce, nei tuguri post-atomici, nelle sacche preistoriche, fra le cagate e le pisciate, nell’immondizia. Se di giorno sono solo, la notte con me ce ne sono tanti… siamo in tantissimi. Siamo una vastità oceanica e cenciosa che si accuccia nelle buche e nei giardini traboccanti di erbacce. Siamo sempre di più. Suoniamo anche noi, che credi? Ci suoniamo a vicenda, ci riempiamo le orecchie di fischi, di richiami, siamo tanti animali. Ci conosciamo tutti, ci siamo visti dormire e svegliarci infinite volte con le guance segnate dalle scanalature dei marciapiedi. Siamo anche noi una congregazione, una consorteria, come ce ne sono a decine in questa città. Solo che noi ci raduniamo dove il cemento si ritira e restano le bolle d’aria ancora intatte. Di giorno poi ci disperdiamo, sudiamo vino, osserviamo dalle panchine l’insensatezza delle forme organiche che ci circondano. Io ascolto il rumore delle pietre. Il loro suono. Questo mi rende felice.

Brusio fra la folla. C’è un piccolo scambio di lazzi fra due nocaniani:

BEBO: Hai sentito cus’ha deto, el Custode? Che de notte dorme co’ tuti ’sti poracci. Certo che però co’ tute ’ste anime solitarie che stanne in giro… e cume se fa! Me se strigne il core a pensacce…

BABALÒ: Oh Bebo, e turnasse’ tuti a casa de loro a rompe’ i cojoni, che già noialtri de problemi ce n’emi pochi, no?

BEBO Sta zito, che tu fijolo è in Inghiltera a ruba’ el lavoro aji Inglesi, e te me vieni a di’ che questi qua te rompene i cojoni? Ma nun ce stai cu’ la testa? Vedi che sei brutu quantu el bobò. Nun te vedi? È da quando erimi fijoli che te sei ingastrito col mondo, è da quando te s’è aperti j occhi e hai visto che eri pegio de no scorfano!

Esplodono risate da parte della folla. Babalò tace e si defila.

CUSTODE: (Facendo finta di niente, in realtà amareggiato dalle parole di Babalò).  È proprio in quelle notti che passo assieme agli altri che mi rimangono attaccate le conchiglie alla barba. I gusci mi si appiccicano come fossi una calamita e mi restano cuciti addosso e ogni mattina mi ritrovo con la mia barba coperta di nuove microscopiche placche. Noi stiamo nelle zone che sfuggono a chi cerca di governare, di contenere, di elaborare una risposta per un problema più antico dell’antico. È qui, da noi, che crescono gli esseri più strani e più veri, partoriti da puttane o suore, è qui che il tempo scorre in modo diverso e c’è una forza biologica che ci scava i volti e ci tiene aggrappati.

PIFFERAIA: Ho visto quelli che dici tu, quelli che cercano di governarvi, i vostri amministratori, sul palco. Mi hanno accolta ed erano gentili, solo un po’ timidi e spaesati. M’hanno fatto tanta tenerezza: non sapevano dove guardare e cosa dire per arginare le mie assurdità. Ah ah ah ah!

La banda della Pifferaia inizia a suonare lentamente, una musica jazzata.

FOLLA:

Ma che stai a di’, oh rincojonita?

Gentili?! ma se j amministratori, come li chiame’ vojaltri, che ave’ studiato, ene boni solo a andà a magnà a sbafo ’nti risturanti che je pare a loro!

Je piase ’nu sfogo a le ragane!

Andenne tuti quanti a sciacqua’ j scoji!

Quesi nun c’hanne ’n’idea manco a pagalli, nun ce capiscene gnjente de gnjente, ene boni solo a discore e a fasse i favori fra de loro.

CUSTODE: (Si volta di scatto verso la folla, che è disposta sui due bordi della strada. È spazientito, e all’improvviso dà in escandescenze) E statevi zitti, per una volta, tacete e ascoltate! Siete degli ingenui! Sempre i soliti, sempre con questa lagna senza senso! Con questo frastuono idiota che inquina l’aria e ammorba ogni movimento del pensiero. Con le vostre filastrocche insensate mi impedite di trovare la formula che sta oltre le mie decifrazioni. C’è una formula algebrica che spiega i movimenti invisibili delle case e delle pietre qua attorno e il loro rumore, e voi mi impedite col vostro piagnisteo di spingermi oltre.

Tutti si zittiscono

Io voglio capire dov’è finito l’erotismo, il modo di sfiorarsi e di penetrarsi che avevano le cose materiali e le cose invisibili. Invece voi state fermi a metà strada, non volete andare da nessuna parte. Con il palato appiccicato per la brodaglia nera che vi trangugiate. Vi perdete nei vostri saluti strascicati, vi compiacete della vostra immagine riflessa dalle vetrine dei negozi.

FOLLA: (Agitandosi)

Oh, eh, sarai belo te!

E deje ’na sigaretta a ’st’imbriagò, così s’azitisce lu’…

BEBO: (dall’altra parte) Eh, purtuloti, ’ste un po’ zitini, ’na volta, oh?, do’ minuti, e fello parlà, o animali…

Urla, da una parte e dall’altra

CUSTODE: (Ringhiando) I politici, i potenti, hanno certo le loro colpe e le loro miopie. Questo dice il cemento delle case. Ma non più di voi, che li avete votati, avete capito? Non più di voi. (Il Custode ora brandisce il pungo. Si avventa incontro alla folla sbraitando. L’ira gli torce le rughe profonde del volto. Il suo bisunto impermeabile svolazza e la sua barba perde pezzi di conchiglia) Voi, così ingenui, eppure così arroganti. Voi, che ve ne state rinchiusi in un’armatura di piccolezze, complessi, pigrizia camuffata da scetticismo, ipocrisia. Voi che continuate a dormire in un letto opaco di certezze e preferite il tepore un po’ moribondo al vento gelido della strada. Siete neri e appiccicosi come quella brodaglia nera che agghinda le vostre tavole e i vostri piatti nei giorni di festa!

NOCANIANO: (Col liquido nero che gli schiuma e cola dalla bocca) Oh, adè vengo lì e te do un bocato’ ’nte la boca, che sbrego tutto!

(A questo punto il Custode si altera ancor di più, si getta addosso al nocaniano e gli sferra un calcio nel sedere con le sue scarpe a punta. L’uomo, zampettando con le mani portate ai glutei, scompare oltre la soglia di un portone aperto. Qualcuno applaude. Molti nocaniani si spaventano e fuggono come uccellacci, salendo per le scale dei portoni aperti. Poi si riaffacciano sulla scena dalle finestre dei primi piani e guardano in giù, verso la Pifferaia e il Custode senza dire nulla.)

CUSTODE: Loro mi rispettano, perché ci sono sempre stato, e perché converso con le loro pietre, le loro strade.

PIFFERAIA: Dici? Ma hai visto quel tizio che ti voleva picchiare? Gli colava una bava nera dalla bocca. Cos’è? Pensi che sia quel nero di seppia, di cui mi parlano tutti? Io l’ho bevuto appena arrivata, ma non mi è successo nulla. L’ho trovato un po’ dolciastro e un po’ salato, come una brodaglia organica qualsiasi. Ma non mi è successo nulla e nulla ho sentito cambiare nel cuore dopo averlo inghiottito.

CUSTODE: Le tue labbra sono ricoperte da uno smalto nero ma i tuoi occhi sono bianchi di luce. Vedo le acque che sono in fondo al tuo pozzo e riconosco il loro scorrere in mulinelli cristallini e vivi, le vedo guizzare. Tu sei immune al nero di seppia, l’ho capito subito. C’è qualcosa in te che spalanca le braccia.

PIFFERAIA: (La sua voce è fioca, un po’ cantilenante, come chi ha acceso un ricordo dolce e doloroso nella mente e attinge da esso) Non credevo di essere immune a niente nella mia vita. Perché tutto ho provato e m’è entrata nell’anima la mia dose di assurdo, quel senso di claustrofobia che ti stritola quando capisci che c’è un pezzo di strada che non ti è dato e che ti manca per fare l’ultimo tratto e immergerti finalmente nella gioia. Vorrei proseguire, ma ancora non ci riesco.

CUSTODE: (Rivolto ai musicisti) Signori, per favore, suonate più forte!

(Rivolto alla Pifferaia) Ho sempre saputo che le persone fragili sono quelle più forti, me lo dice il suono erotico che è nelle molecole. Vorrei rivelarti un segreto…

PIFFERAIA: Quale, amico mio?

CUSTODE: Il brodo nero, non è malefico come si pensa, può essere un ingrediente prezioso, per chi lo sa cucinare… Io… io… ne sono immune, è successo che un giorno qualcosa mi ha cambiato. È successo una notte nell’antico teatro abbandonato. Già non ero più giovane allora, ma non ancora fiaccato dagli anni. Il mio corpo era forte ma nel mio cuore c’era un rancore profondo che mi consumava.

PIFFERAIA: Raccontami questa storia, Custode. I teatri abbandonati mi fanno paura, ma allo stesso tempo li amo e ci vorrei vivere dentro.

CUSTODE: Certo mia cara amica. Ti racconterò tutto. Il teatro era in fondo a una piazza buia e io attraversavo il corso pieno di giovani a spasso. Facevo un giro a guardare il mare e poi mi infilavo lì dentro, sotto i pontili di legno, mi spingevo sotto il suo tetto sfondato, a dormire fra i suoi polverosi sedili. Il teatro sembrava una barca sventrata. Una notte, lì dentro, avvenne qualcosa di nuovo. Qualcuno si affacciò sulla mia solitudine, un’altra anima che s’era infilata, in qualche modo, nella sua cavità. Era una donna e parlava slavo. Sedevamo sul palco dalla travi sfondate e lei mi spiegava, piangendo, in un italiano approssimativo, d’essere scappata dalla guerra, dall’altra parte del mare. Una guerra che le era entrata in casa e aveva strappato via il soffitto dalle sue mura. Io non capivo bene le sue parole, anche perché i singhiozzi le strappavano l’aria dalla gola. Ricordo, però, che aveva qualcosa da mangiare con sé. Era un barattolo di sugo, che s’era portata attraversando il mare: era un sugo, mi spiegò, di nero di seppia. Io avevo un pacco di pasta nelle mie borse, fra le cose che portavo con me, e una bottiglia di acqua. Trovammo una vecchia lattina e, acceso un fuoco, riuscimmo a cucinare. Dalla bocca le uscivano frasi piccole e acchiocciolate, mentre l’acqua bolliva. Condimmo gli spaghetti con quel sugo nero e li mangiammo con le mani. Era buono, sapeva di sale e di mare. Era diverso da qualsiasi altra ricetta al nero di seppia che avevo mangiato fino ad allora. Dopo quel pasto lei mi raccontò della sua infanzia e dei suoi libri e della musica che amava di più. Ci tenevamo caldo coi nostri corpi, abbracciati, nei nostri vestiti sfondati. Odorava di terra e di tende.

PIFFERAIA: Mi stai facendo venire fame… e quindi, cosa è successo?

CUSTODE Quando mi svegliai i resti della cena erano ancora lì, ma lei non c’era più. Era andata via, non so dove. Il mattino era già alto e lei era scomparsa. Da quella notte tutto è cambiato. Il nero si è ritirato dal mio animo, e mentre l’aria tornava a turbinare fra le volute del mio cervello il mio udito si è fatto come più fine. Ho iniziato a percepire suoni confusi, dei vagiti e dei rantoli e dei cinguetti di creature che non conoscevano la gravità. Da quel giorno il nero non è mai più esistito, almeno per me.

BEBO: (dalla finestra) Oh Custode, e daccela ancora a noi ’sta sbobba da magna’, visto mai che ce rindrizamo tuti quanti!

BABALÒ: (da un’altra finestra) Ma cusa sbobba e sbobba. Questo, appena ha visto un ciancighì de passera, è andato fori de testa!

NOCANIANA: (il suo nome è GAIA e sta alla finestra, si rivolge spavalda a Babalò) Ma sta zito, o Babalò, sempre a fa’ confusio’ co’ le bagianate tue. E lascia a discore’ chi c’ha el core ’ntel petto e no i coci, come te.

BEBO: Brava Gaia, c’hai ragio’! E ste’ ziti ancora voialtri, oppure andé a casa, andé a durmi’, andé ’ndo ve pare, se nun ve sta be’ de sta dietro al Guardiano e alla Pifferaia, basta che nun ste qui a gnagnera’ in continuazio’…

GAIA: (rivolta alla Pifferaia, sempre affacciata alla finestra) A pruposito signorina, ardiscu da faje ’na domanda. Lei è ’na grande artista, se vede da come guarda le robe. Nun è che le analiza, le trafige, se le magna co’ le pupile dej ochi. E per questo signurina, che vuria domandà cus’è che la rende tanto triste, tanto sfregnata, che co’ la sensibilità sua, signurina, lei podrìa vola’ sopra le nuvole… E invece la storia delle sirene m’ha fato tanto bruto, perché piagneva come na funtana in mezo al mare?

LA PIFFERAIA: Cara amica, certo che ti rispondo, e lo faccio con gioia e con stupore, perché non sono solita raccontare del mio passato. Nessuno me lo chiede, nessuno vuole sapere nulla di me, oramai, ora che nemmeno io so più chi sono dopo che la mia vita è più che altro un simulacro elettronico. Le sirene non sono una mia invenzione, noi tutti le abbiamo davvero incontrate durante il nostro naufragio.

Il loro amplesso ha gettato un vento salato sulla mia ferita che ancora mi tormenta la carne. La spina che mi ha tagliato la pelle cresceva nella pianta più verde e profumata di tutte e il dolore di quello strappo ancora mi fa torcere la faccia, anche nel buio.

Tutto è iniziato perché mi sono innamorata di un giovane ragazzo della mia città, di Atene. Un ragazzo che vedevo per strada quasi ogni giorno e ad ogni incontro di lui, nell’animo mi montava un’onda di acqua schiumosa che io poi cavalcavo per ore, e mi accompagnava nel mutare del giorno in buio notturno, e nei sogni, e nei primi vagiti del pensiero al risveglio.

Non so se fosse bello, però mi piaceva il suo modo di guardare le cose, il suo animo silenzioso che sembrava intento a narrare una lunga storia a se stesso. I capelli gli cadevano sulla fronte scurita e tintinnavano assieme alla luce dei suoi occhi.

Una notte sono riuscita a conoscerlo. Eravamo a una festa e lui mi ha rivolto parola, scherzava, le sue parole toccavano le nervature dell’assurdo intorno a noi, ma non c’era paura nelle sue frasi, solo una intelligenza inconsapevole e senza padroni. Da quella notte ci siamo iniziati a cercare, è come se ciascuno di noi avesse bisogno dell’altro. Ci mandavamo piccoli messaggi che attraversavano le vie caotiche e scure di Atene e risalivano le strade per arrivare alle nostre stanze con la forza di uccelli che prendono il volo. Camminavamo assieme, scendendo dall’Acropoli fino al Pireo, per entrare in oscurità melmose e piene di vento del mondo attraverso la porta della bellezza.

Di nascosto non ho mai smesso di guardare il suo corpo, l’ho bevuto con gli occhi dal primo momento. Volevo accarezzargli i glutei che si contraevano serici ad ogni suo passo, volevo attraversare col mio ventre la sua schiena arcuata, che era più selvaggia di quella d’un cavallo, volevo stringere fra le mie gambe la linea abbronzata del suo collo e tutto il suo volto.

Quando eravamo insieme ad altre persone, lo vedevo che cercava il mio sguardo, e si immergeva con una complicità infantile dentro ai miei occhi per rassicurarmi, e dirmi che lui era con me, e che lui poteva capire i miei pensieri, e leggerne la parte migliore. Mi sorrideva e finivamo di ridere assieme di cose che gli altri non potevano capire.

GAIA (Ancora dalla finestra) Oh fiola mia, l’avevi presa grossa, eh? Embé, sei pure na bella ragazzeta… nun me di che st’ometto t’ha fatto sofrì…

Mentre la Pifferaia termina il suo racconto, scendono dalla discesa di via della “Rivoluzione mai fatta” un uomo, una donna e un travestito. Il Custode li guarda da lontano e li saluta con ampi gesti delle braccia, quasi saltando. Saluta passando il suo braccio attorno alle loro spalle. I tre si uniscono alla scena senza parlare.

CUSTODE: Pifferaia, Pifferaia, stanno arrivando dei miei amici… Alberto! Andreina! Lori!

Il primo (ALBERTO – IL PUGILE) ha membra grandi che sembra un gigante, ma il volto è quello grigio e stanco di un vecchio. Cammina trascinandosi, e sopra la schiena gobba muove il suo sguardo, che si posa fermo su ogni superficie e su ogni volto. Il suo naso è schiacciato e gonfio come una susina matura.

 La seconda (ANDREINA – IL TRAVESTITO) veste come una donna, ha abiti in tessuti leggeri, primaverili, ornati con stampe di fiori e bacche. I suoi capelli sottilissimi sembrano di piume nere come il petrolio. Ha i lineamenti di un ragazzo cresciuto e la pelle bianca e liscia ma sofferente, le spalle ossute di un uomo, ma il passo flessuoso di una donna.

La terza (LORI – LA CHIROMANTE) Indossa una salopette, ha i capelli biondi ossigenati e acconciati con dei cornetti a punta. Al collo ha catene d’argento e stivali ai piedi.

Intanto la musica dei musicisti cresce di intensità.

PIFFERAIA: Sì, m’ha fatto soffrire perché lui non ha mai trovato il coraggio di baciarmi, nemmeno una notte, l’ultima notte che abbiamo passato assieme, prima che partisse per il militare. L’estate finiva. Era buio, lui mi riaccompagnò a casa, dopo che eravamo stati in una piazza a ridere con altri amici e a bere del vino e a cantare canzoni inventate. Io a quel tempo vivevo in collina, il cielo già volgeva all’autunno ma ancora erano morbide le nuvole sopra di noi e lasciavano ancora spazio alle stelle. Sulla soglia di casa l’ho guardato con gli occhi accesi d’amore, il mio cuore batteva, il mio muso era quello di una gatta che vuole mangiare e sentivo una forza magnetica scaturire dalle radici più profonde di tutto il mio corpo. Aspettavo le sue labbra morbide e il suo alito caldo sul mio viso. Ma mentre quell’attimo si dilatava, ho visto calare un’armatura, ho visto i suoi muscoli contrarsi, le gote divampargli di rosso, i suoi occhi abbassarsi.

Lui non ha detto niente, ma s’è ritirato improvviso come un pesce dentro una fenditura di scoglio. La sua voce, che sempre cercava di tenere alto il mio riso, ha tremato mentre mi salutava. Io credo, sono sicura, che per la vergogna lui non sia riuscito a baciarmi, e mentre scappava via da me, dopo essere salito in macchina per ripartire veloce, sentivo un terremoto squassare il mio suolo, come se una crepa nelle viscere della terra si fosse aperta fra me e lui, come se la potenza del cielo si fosse ritorta contro l’abbraccio e il bacio che non ci siamo mai dati. Da quel giorno non l’ho più visto, dal militare non è mai tornato, è finito in una città lontana forse, dall’altra parte del mare. È passato un anno… e poi due, finché non è scomparso senza lasciare più traccia. Senza che io lo potessi più vedere, odiandolo perché non aveva avuto l’impulso di baciarmi, sentendo anche io un rimpianto profondo per non averlo baciato, io stessa, sulla sua bocca carnosa.

GAIA: No, pora fiola, che pecato!

NOCANIANO: Oh questo je pizigava le recchie, te l’ digo io!!

Risate

PIFFERAIA: E io ho iniziato a cantare e a suonare per annullare la rabbia, frastornarla, romperla, andare oltre il mio dolore. E ho iniziato a moltiplicare la mia immagine in internet, mille volte, con mille maschere diverse, per potenziare la mia me stessa in un illusorio spargimento di frammenti di me stessa, che però rimanevano perimetrati dentro uno schermo. Nessuna notizia di me gli è più arrivata, né di lui è mai giunta a me.

LORI: Vedo dei musicisti, vedo una bella signorina. Sei forse tu la Pifferaia arrivata in città?

ANDREINA: Massì, massì, non vedi che è lei? Guarda che occhi tristi, ma di una tristezza diversa da quella di noi nocaniani. Le sue iridi sembrano un globo caldo di vetro.

La Pifferaia è frastornata.

ANDREINA: Veniamo a portarti un messaggio, c’è un uomo che ti vuole vendere, sta in cima ai colli e ti attende in qualche budello di vicoli. Mi dice che dobbiamo accompagnarti in salita e che incontrerai altre persone nel tuo cammino. E che devi lasciarti guidare da tutti perché presto lo incontrerai…

LA PIFFERAIA: (In cerca di una sponda di riferimento, guarda il Guardiano che sorride nella sua faccia sfondata, poi, con un filo di voce) Andiamo…

(CONTINUA)

[Scena I]