“Tacete, o maschi”. Le poetesse del ‘300 ⥀ Una generazione cancellata

Il saggio che proponiamo ai nostri lettori è tratto dal volume “TACETE, O MASCHI. Le poetesse marchigiane del ‘300 accompagnate dai versi di Mariangela Gualtieri, Antonella Anedda e Franca Mancinelli. Figure di Simone Pellegrini“, edito in questi giorni dalla nostra casa editrice Argolibri per la cura di Andrea Franzoni e Fabio Orecchini.

Nel ‘300, alcune giovani autrici marchigiane, tra cui Leonora della Genga, Ortensia di Guglielmo e Livia di Chiavello, le prime a costituire un vero nucleo letterario composto di sole donne della storia d’Italia, iniziano a scriversi l’un l’altra messaggi in forma di sonetto, affrontando, in netto anticipo sulla “Querelle des femmes” che avrebbe infiammato il dibattito culturale due secoli più tardi, temi specifici quali la contestazione delle norme patriarcali e la particolarità della loro condizione di subordinazione alla poetica e al dominio maschile nel mondo della politica e della letteratura.  Eppure, nonostante la forza di quest’istanza fondatrice, o, per meglio dire,  proprio a causa di essa, la generazione delle poetesse marchigiane del ‘300 sarà una generazione cancellata (dal titolo del saggio introduttivo scritto da due tra i più importanti studiosi di scritture femminili, ovvero Mercedes Arriaga Florez e Daniele Cerrato), ignorata e delegittimata nel corso dei secoli da una critica accademica guidata da pregiudizi culturali e  misoginia letteraria. Obiettivo dell’operazione editoriale è quello di riproporre finalmente, in una edizione di pregio,  i testi in questione, non solo con intenti riabilitatori,  ma anche nell’ottica della ricezione, permettendone una leggibilità diversa dalla lettura esclusivamente filologica, critica e accademica, nella direzione di una lettura poetica, trasversale e inventiva, intuitiva e fortemente politica.

*

Le poetesse marchigiane del ‘300: una generazione cancellata

di Mercedes Arriaga Flórez e Daniele Cerrato
(Università di Siviglia – Università Ateneum Gdansk, Polonia)

 

Andrea Gilio da Fabriano, uno degli eruditi più importanti del Rinascimento italiano, pubblica nel 1580 un trattato, intitolato Topica poetica, dove vengono descritte le diverse parti del discorso e le figure retoriche. A sorpresa, nella parte finale del volume, include dieci componimenti di tre poetesse marchigiane del Trecento, inedite fino a quel momento. Quattro sonetti di Ortensia di Guglielmo (Io vorrei pur drizzar queste mie piume; Ecco, signor, la greggia tua d’intorno; Tema e speranza, entro il mio cor fan guerra; Vorrei talor dell´intelletto mio), quattro di Leonora della Genga (Dal suo infinito amor sospinto Dio; Di smeraldi, di perle e di diamanti; Coprite, o muse, di color funebre; Tacete, o maschi, a dir, che la natura) e due di Livia da Chiavello (Veggio di sangue uman tutte le strade; Rivolgo gli occhi spesse volte in alto). L’elenco di questa generazione si completa un secolo più tardi quando, nel 1686, Giovanni Cinelli pubblica un sonetto di Elisabetta Trebbiani da Ascoli, amica di Livia da Chiavello (Trunto mio che le falde avvien che bacie). Crescimbeni infine, nella sua Storia della volgar poesia (1730), riporta notizie ancora di un’altra poetessa: Giovanna d’Arcangelo di Fiore da Fabriano.

Grazie a queste e altre informazioni possiamo sin da subito definire «le poetesse marchigiane del ‘300» come la prima generazione di scrittrici della letteratura italiana. Non soltanto esse vivono nello stesso territorio e nello stesso periodo storico, ma anche, e soprattutto, sono legate da affinità culturali, tematiche e affettive. Nei loro componimenti si evincono stretti legami di amicizia letteraria, nei quali viene affermata l’auctoritas e l’eccellenza femminile. Giovanna d’Arcangelo di Fiore era discepola di Livia da Chiavello, come segnalava Crescimbeni. Leonora della Genga scrive due sonetti dedicati a Ortensia di Guglielmo, Di smeraldi, di perle e di diamanti e Coprite, o muse, di color funebre. Elisabetta Trebbiani dedica a Livia da Chiavello il sonetto Trunto mio che le falde avvien che bacie. In questi tre sonetti viene rappresentato un insolito ritratto di donne dedicate alle lettere, le quali tessono le lodi delle loro amiche, dichiarate maestre. Per Elisabetta Trebbiani, Livia da Chiavello è «perita d´onne arte». Non soltanto la descrive attraverso gli attributi della scrittura: carta e penna, ma la colloca anche nella gloria degli eroi. Così come Leonora della Genga attribuisce ad Ortensia di Guglielmo «trionfi» e «onori», e la fa diventare monumento di culto e venerazione.

Il carattere generazionale di queste poetesse è rafforzato dalla componente genealogica rispetto a una tradizione di scrittrici italiane ed europee anteriore. I loro sonetti infatti, se non altro quelli di Ortensia di Guglielmo, Leonora della Genga e Livia da Chiavello, portano avanti due temi già presenti nelle primissime poetesse note della letteratura italiana – Compiuta Donzella e Nina Siciliana – ovvero l’affermazione di un io femminile in materia amorosa (che si rifiuta di essere semplice oggetto di desiderio maschile, per proporsi come soggetto con capacità di decisione) e la protesta contro le imposizioni familiari in materia di matrimonio.

Le poetesse marchigiane, approfondendo il tema dell’affermazione femminile, lo amplieranno, conducendolo all’ambito della cultura e della scrittura, rivendicando l’uguaglianza delle donne nell’esercizio di attività all’epoca considerate prettamente maschili, dall’esercizio delle armi o del governo fino all’uso ‘della piuma’. Ortensia di Guglielmo sarà la prima scrittrice a reclamare per le donne il mestiere della scrittura e a farsi interlocutrice allo stesso livello degli scrittori. Tema che anticipa l’opera di Christine de Pizan (1364 -1430) in Francia o di Teresa de Cartagena in Spagna (1420), ma che continua la tradizione lirica provenzale delle Trobairitz, ove appare un medesimo io femminile sicuro di sé e del proprio discorso.

Risulta evidente quindi come queste autrici dichiarino apertamente la parità fra donne e uomini nell’ambito culturale, soprattutto Leonora della Genga, nel suo sonetto Tacete, o maschi, dove non soltanto risponde, ironicamente e polemicamente, alla misoginia evidente di molti testi della cultura classica e cristiana che decretano il silenzio come qualità essenziale nelle donne, ma dimostra in un solo sonetto l’autorevolezza con cui è in grado di esprimersi l’io lirico femminile.

 

 

Tanto lei quanto Ortensia di Guglielmo e Livia da Chiavello, inaugurano la stagione del petrarchismo impegnato nel sociale e nel politico, che si allontana dai temi amorosi come anche dalle rappresentazioni idealizzate delle donne, divenendo così un punto di riferimento per la generazione successiva di poetesse del Rinascimento (Veronica Franco, Tullia d’Aragona, Laura Battiferri, Laura Terracina e altre), che con la tradizione petrarchista manterranno una difficile relazione.

Le poetesse marchigiane non solo affermano il diritto delle donne a partecipare alle questioni pubbliche e ai problemi delle relative comunità di appartenenza, ma rivendicano il loro diritto ad una piena legittimità in letteratura, non già come personaggi, immagini o icone femminili (create dalla scrittura maschile), ma come vere e proprie autrici, ciascuna con le proprie aspirazioni, tanto di fama ventura come di gloria terrena. Queste aspirazioni, legittime negli scrittori, non saranno naturalmente viste di buon occhio nelle scrittrici: essendo donne infatti, il loro ruolo concerne la sfera privata, ove il maggior pregio è, a detta dei manuali di buona condotta dell’epoca, la discrezione, ovvero il silenzio.

Ortensia di Guglielmo, nel suo famoso sonetto Io vorrei pur drizzar queste mie piume, anticipa già quello che sarà in futuro il destino delle scrittrici donne, ovvero l’essere «additate» dalla società, cioè rifiutate e derise, considerate indecenti o «poco femminili», e talvolta persino anormali e pazze. Nella migliore delle ipotesi, rappresentate come «rara avis», sarà loro attribuita la facoltà di compiere «miracoli» o «prodigi», nella peggiore, invece, verranno descritte come «donne mostro», veri e propri «errori della natura». Denominazioni che non lasciano dubbi su quale sia lo spazio assegnato alle donne, e la demonizzazione di cui furono vittime tutte coloro che vollero abbandonarlo per «invadere» quello assegnato agli uomini.

Sono stigmate che perdureranno nella letteratura italiana fino al Novecento, dove non mancano le critiche spietate verso le scrittrici, fondate non su criteri letterari, ma su pettegolezzi rivolti alla loro vita privata, o su criteri estetici arbitrari da parte di critici letterari o altri scrittori.

Ancora oggi, nel XXI secolo, risulta evidente come vi sia un forte disequilibrio nella rappresentazione e nello spazio che viene assegnato agli uomini e alle donne nella storia della letteratura, e nel suo insegnamento. Il nostro patrimonio testuale si presenta infatti danneggiato e parziale: di molte scrittrici del passato si conoscono soltanto i nomi, mentre le loro opere sono perdute, di altre si conservano opere senza edizioni moderne, la maggior parte di loro non vengono raccolte nei manuali di letteratura né vengono incluse nei programmi scolastici.

Ed è questo il caso delle poetesse marchigiane: ignorate, cancellate e spesso delegittimate nel corso dei secoli, nell’infida quanto interminabile diatriba tra difensori e detrattori. Fra questi ultimi figurano autori come Apostolo Zeno, Tiraboschi, Carducci, Borgognoni e Morici. Tiraboschi ad esempio dedica un intero capitolo alle «Donne lodate come valorose rimatrici», in cui appare prima Caterina da Siena, ma per quanto riguarda le poetesse marchigiane sostiene che i loro sonetti sono stati scritti secoli più tardi e che quelle donne non sono perciò realmente esistite.

Carducci nelle sue Rime scelte di Cino da Pistoia e di lirici minori del Trecento (1862), chiede scusa per non aver incluso Ortensia di Guglielmo, Giustina Levi Perotti, Giovanna Bianchetti e Leonora della Genga. A motivo della sua esclusione, il suo «amore verso la critica letteraria». Egli considera infatti queste scrittrici delle contraffazioni compiute da Andrea Gilio e Egidio Menagio. Nel 1899, Medardo Morici dedicherà un lungo saggio teso a dimostrare che le poetesse marchigiane sono un’invenzione di Andrea Gilio, nato a Fabriano, secondo lui per un illegittimo interesse campanilista. L’interesse di storici o eruditi nel recuperare testi e figure femminili del passato originarie delle proprie città o territori regionali va piuttosto inquadrato nel fermento culturale che si crea fra il Quattrocento e il Cinquecento, quando molte città esibiscono figure di donne dedicate alle lettere come prova dell’eccellenza del proprio sviluppo sociale e culturale: Isotta Nogarola (1418-1466) a Verona, Laura Cereta (1469-1499) a Brescia, Cassandra Fedele (1465-1558) a Venezia.

Borgognoni, per dimostrare che le poetesse dei primi secoli non sono mai esistite, afferma: «le donne italiane di quei secoli, anche le più nobili ed eleganti, da tutto quel che ne sappiamo, non pare aspirassero al vanto di letterate o di poetesse». Per lui in Italia non esistono poetesse prima del Rinascimento, il che esclude di fatto tutta la tradizione di scrittura femminile precedente.

Si tratta di affermazioni che non soltanto contraddicono i documenti storici che provano la reale esistenza di queste donne, raccolta in diverse cronache cittadine, ma proiettano anche sulla realtà delle donne del Trecento pregiudizi misogini personali, smentiti in seguito dalla ricerca storica e letteraria. Per quanto riguarda il comportamento delle donne reali, occorre piuttosto ricordare che la dissidenza femminile alle norme sociali non è un fatto nuovo nel Trecento ma ha dei precedenti medievali in Italia, e più precisamente in figure religiose, come Chiara d’Assisi (1193-1253) o Umiliata dei Cerchi (1219-1246), che furono figlie disobbedienti al volere dei loro genitori e che contro il loro parere abbracciarono la vita contemplativa.

Tra le figure di maggior spicco nel Trecento vi fu Caterina da Siena (1347-1380), anch’essa donna ribelle al volere dei genitori. Lungo la sua vita svolse l’inusuale – e vietato alle donne – ruolo di predicatrice e scrittrice. Il tono delle sue lettere ai potenti del suo tempo presenta un io-donna fermo e deciso, investito dall’autorità divina, il quale non esita a dare ordini allo stesso papa Gregorio XI.  Impossibile ignorare, in questo senso, che anche Ortensia di Guglielmo rivolge uno dei suoi sonetti a questo pontefice, adoperando un tono e uno stile simili a quelli di Caterina da Siena.

Tracciando le debite linee di convergenza fra le varie produzioni relative alla scrittura femminile nel Trecento, possiamo affermare che, tanto nella prosa religiosa come nella poesia lirica, le caratteristiche delle loro autrici sono le medesime: un soggetto femminile s’impone e sfida i convenzionalismi per collocarsi allo stesso livello dei suoi interlocutori maschi. Le poetesse marchigiane vengono così a costituire il tassello mancante per completare il quadro letterario di questo secolo, rivelando la dissidenza femminile non già come fenomeno marginale – se non altro in alcune classi sociali come la borghesia e la nobiltà – ma come una realtà già allora dotata di una propria espressione letteraria, in versi e in prosa, sia in ambito religioso che in quello laico.

Il negazionismo di alcuni e la lettura personalistica e arbitraria di altri appaiono in conclusione come l’ennesima dimostrazione della frequente mancanza di rigore scientifico, e degli esiti nefasti a cui può condurre una critica guidata da pregiudizi culturali, che tende a cancellare e offuscare le donne dalla storia letteraria e, con esse, una parte essenziale del nostro patrimonio culturale.

Il presente volume rappresenta così un nuovo capitolo di questa affascinante storia che, iniziata a Fabriano settecento anni fa, ha riservato nel corso dei secoli non poche sorprese, e che, ne siamo certi, molte altre ne serberà in futuro. I rapporti letterari, di sorellanza e amicizia che univano le poetesse marchigiane continua qui e si rinnova attraverso lo scambio e dialogo letterario con poetesse contemporanee, che raccolgono il testimone e i versi di questa generazione letteraria proseguendo la genealogia femminile di scrittrici.

La scelta delle poetesse marchigiane di interpretare il loro tempo, di affrontare tematiche civili e di confrontarsi con gli uomini in tutti i campi del sapere, le rende delle interlocutrici privilegiate del presente come del futuro. Si tratta dunque di continuare a leggerle, studiarle, (ri)scoprirle, ricordare e ripetere i loro nomi, perché nessuno possa più dire che Ortensia, Leonora, Livia e Giovanna non siano mai esistite.

***

*immagine di copertina, tratta dal volume, di Simone Pellegrini.

Privacy Preference Center