Telefonisti in scatola (di Günter Spigelmann, 2007)

BOLOGNA – Nella stanza ci sono circa trenta persone, ma a nessuno è dato di vedere la faccia di chi gli sta intorno. Siamo tutti incubati in un piccolo vano, seduti a un tavolo e con la testa incassata tra tre pannelli di compensato, smaltati di grigio. Davanti a noi, inseparabile prolungamento del nostro corpo, c’è un telefono, dai tasti molto grandi, la cui inusuale misura di sicuro non è casuale, poiché alla quarantesima telefonata gli occhi che cercano i numeri da pigiare e le dita che scorrono sulla tastiera del telefono potrebbero confondersi. Nulla è casuale qui, tutto è studiato per economizzare il tempo. Le cabine dentro cui ognuno è chiuso hanno una funzione duplice, una pratica, e l’altra più subdola. I pannelli di legno fungono da insonorizzatori e attutiscono la voce, così da ridurre il caos nella stanza. Ma non solo, essi costituiscono uno schermo isolante o protettivo dentro cui ognuno è trincerato, rinchiuso, in modo che non ci si possa distrarre osservando in giro, né distrarre il vicino di lavoro con il proprio sguardo e le propria fisionomia. Dalle nove all’una di pranzo non si fa altro che telefonare, come degli ossessi, digitando con dedizione compulsiva i telefoni. I numeri si attingono da un elenco delle Pagine Gialle, di norma logoro e con i fogli ormai scollati, tanto è già stato sfogliato e spremuto. Le sue colonne sono scarabocchiate da segni e microscopici appunti, fatti da chi è passato su quei numeri prima di te. Si telefona ovunque: Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia, Marche, Sicilia, e tutti nell’avviare la conversazione utilizzano la stessa frase precostruita e lo stesso tono di voce artefatto. La ripetitività del costrutto che tutti e trenta noi operatori utilizziamo riempie l’aria di un brusio ipnotizzante, composto dal frangersi degli elementi sintattici, che si moltiplicano in una ripetizione sconclusionata, così per quattro ore, senza sosta: «Buon giorno – il nostro è un prodotto molto serio – sono la signora – c’è il titolare – ma certo – buon giorno – il titolare – la signora – buon giorno – le nostre condizioni – non è pubblicità – posso parlare con il titolare? – è un prodotto pregiato – ma si figuri – buon giorno -» ecc. ecc. ecc. … Ci sono operatori che lavorano mezza giornata, altri full time, ovvero mattina e pomeriggio. Per tutto il tempo si ripetono le stesse cose, guardando di fronte a sé solo un pannello di legno. Alcuni si sforzano di impostare il loro discorso con un tono di voce, mostrandosi estremamente sicuro dei propri mezzi, teso a far sentire ragguardevole lo sconosciuto utente telefonico rintracciato previa consultazione dell’elenco. Questi sono i più bravi, sono quelli che riescono a stringere più affari al giorno e dunque hanno ottenuto un contratto a tempo indeterminato. Il segreto del loro successo forse è tutto nella loro voce così affettata e professionale che non tradisce lo squallore del luogo da cui sta partendo la telefonata, né la inumana serialità dell’evento che si moltiplica identico attraverso trenta postazioni telefoniche, distribuite in due filari da dodici cabine più una da sei e in cui, ricordiamocelo sempre, ognuno è trincerato nel suo spazio e di tutti gli altri al suo fianco percepisce solo la voce. Molti dei telefonisti invece si lasciano andare ad una cantilena, ad una impostazione troppo stereotipata del loro enunciato, che probabilmente comunica a chi è dall’altra parte del telefono un senso di distacco decisamente controproducente per la tenuta retorica della persuasione affaristica. La maggior parte dei telefonisti sono donne, di tutte le età, gli uomini sono pochi. Ci sono giovani, studentesse, signore di mezza età, anziane. L’abbigliamento varia, non è richiesta né eleganza né ricercatezza, poiché tutto si risolve in una aerea attività telefonica. C’è anche chi viene in tuta da ginnastica. Non esistono pause. Si arriva alle 9.00, si ricevono le direttive del giorno dalla caposala, una donna dai lineamenti di cornacchia che incarna col suo pallore mortuario la rarefazione umana del luogo. Nessuno si conosce e una volta finito il lavoro ognuno cammina per la sua strada. Al massimo ci si fiuta a vicenda, ci si rivolgono delle frasi di cortesia, ma non ci si parla perché l’organizzazione e la struttura del luogo esclude qualsiasi forma di coesione tra il personale, che del resto è quanto di più fluido si possa immaginare. I dipendenti del call center sono vincolati o da un contratto a tempo determinato della validità di due mesi, o da un contratto di lavoro occasionale. Ogni giorno al telefono bisogna concludere quanti più affari possibile. I nuovi arrivati che non si dimostrano all’altezza del compito vengono liquidati in quattro e quattr’otto. La caposala gira tra le postazioni telefoniche e con occhiatacce prive di pudore sbircia nel foglio degli affari prenotati che ognuno ha sul tavolino di fronte a sé, accanto alle Pagine Gialle e al telefono. Un nuovo arrivato che dopo due tre giorni non è riuscito a convincere più di cinque, sei clienti, ha la strada segnata.

Prestissimo si è convocati nell’ufficio del dirigente, una donna nevrotica dalle mani luccicanti di anelli pacchiani che, senza giri di parole, ti liquida e ti rimanda via così come ti ha assunto, senza provare neppure a nascondere la percezione del lavoratore che ha di fronte, ovvero un pezzo agilmente intercambiabile nella filiera produttiva. Ai licenziati i giorni di prestazione svolta vengono pagati con la formula del contratto occasionale, che prevede 6.25 euro lordi l’ora, la stessa tariffa di chi è a contratto determinato. Consci della selezione, nelle voci dei telefonisti trasuda spesso un tono ansiogeno e quando si riesce a concludere un incontro risuonano nella stanza dei fremiti di soddisfazione, dei «Sì, grazie, benissimo» esageratamente pomposi, che in controluce svelano l’insensatezza o forse il nulla intorno a cui ruota l’attività lavorativa del call center. Si possono fare anche 40 telefonate ogni mezza giornata, si parla con segretarie sconosciute, professionisti dai volti anonimi, voci disinteressate e scocciate che troncano l’incedere del tuo discorso. Le ore sono riempite dai segnali telefonici, di libero o di occupato, dalle suonerie ridicole con cui vengono colmati i momenti di attesa nelle aziende, necessarie al passaggio di linee telefoniche.

Si esercita la grottesca volontà di convincere il prossimo a fare una cosa in cui tu stesso non credi minimamente, a propinare una offerta che qualsiasi persona di buon senso considererebbe ridicola.

Fuori, intanto, dalla strada, arriva lo strombazzare dei motori e dei claxon e il sole batte attraverso le vetrate e i tendaggi della stanza, in cui il regolare flusso della vita appare sospeso, inscatolato dentro le cabine delle postazioni telefoniche e irrecuperabilmente paralizzato nella rete dei cavi telefonici.

(traduzione di Marco Benedettelli)